da BENTO PRADO JR.*
Considerazioni sugli effetti della crescita accelerata sullo stile della socialità e della vita culturale
Non c'è luogo più banale di quello che parla della rapida crescita della città che “non può fermarsi”. Meno banale, forse, sarà l'allusione agli effetti di questo tempo accelerato sullo stile della socialità e della vita culturale. Effetti che è possibile individuare e descrivere, senza ricorrere all'artiglieria pesante delle scienze sociali, semplicemente dando libero sfogo alla spontanea ruminazione della materia immediata e cruda del quotidiano, sorretta dal contrappunto della memoria. Un puro esercizio di memoria, che chiunque abbia compiuto cinquant'anni è in grado di fare. Trenta e passa anni sono sufficienti, nel nostro caso, per un'opera di natura quasi archeologica.
1.
Non è raro, oggigiorno, quando visito San Paolo, andare di notte o all'alba al bar, sempre aperto, dell'Hotel Eldorado, in Avenida São Luís. Da lì è possibile intravedere, con la voluta mancanza di nitidezza, la piazza Dom José Gaspar e l'importante tratto del viale. Tavola ben scelta, forse il nostro sguardo può abbracciare, in un sol colpo, la Biblioteca Comunale e i posti occupati, in passato, da quattro bar: Paribar, Mirim, Barbazul e Arpège. Si tratta, ovviamente, di un'escursione sentimentale e nostalgica: senza contraddire Paul Nizan, è necessario riconoscere il privilegio dell'adolescenza nelle “età della vita”. O, almeno, nelle età della vita, come venivano definite, secondo Philippe Ariès, dal modello scolastico e familiare che la borghesia imprimeva al processo di socializzazione.
Fu nel 1954 che cominciai a frequentare la Biblioteca Comunale. Studente liceale, vi si recava per ritirare libri di filosofia, letteratura e teoria politica. Che, all'epoca, per me, corrispondeva alla filosofia greca, Sartre e Camus. Drummond e Rilke. H. Hesse, T. Mann, Trotsky, ecc. Ma quello che ho trovato è stato, soprattutto, un popolo che condivideva le mie letture, l'ignoranza e le stranezze, a cui sono stato rapidamente incorporato. La sala di lettura non era l'unico spazio insolito: nell'atrio, intorno alla statua di Minerva, gli adoratori della dea (così erano ferocemente chiamati questi frequentatori dai giovani professori della Facoltà di Rua Maria Antônia, gelosi del tecnicismo della loro università conoscenza) hanno intessuto un discorso senza fine, dove arte, letteratura, filosofia e politica erano in perenne osmosi.
L'immaginazione ideologica lavorava in uno stato di ebollizione e tutte le avanguardie – nel pensiero, nell'arte e nella politica – erano felicemente imitate. Tutto questo, naturalmente, senza l'ascetismo delle Scuole e senza un'economia di magniloquenza o senza molto senso della misura. Un'indubbia mancanza di realismo, che è stata però in qualche modo compensata da molta vivacità e da una sempre vigile attenzione all'esperienza culturale contemporanea. Una sorta di reazione immediata al presente: così, per esempio, fu appena pubblicato Noigandres e, con il mio amico Celso Luis Paulini, abbiamo bussato alla porta di Augusto de Campos, per una lunga conversazione, nella notte, sulla poesia.
Ma soprattutto ciò che è stato notevole, a posteriori, è stato un rapporto, per così dire, globale con la cultura, assicurato, forse, da una sorta di diffuso “sinistrismo”, ribelle a ogni forma di compartimentalizzazione, istituzionalizzazione o dottrinalismo. Una sinistra che oscillava tra i poli dell'anarchismo e del trotskismo, solo non tollerando il lato intollerabile dello stalinismo. Qualcosa che si potrebbe forse esprimere nel seguente motto: socialismo, sì, ma con Proust e Kafka.
Né mancò l'inizio di un'organizzazione propriamente politica, nel tentativo di istituzionalizzare una Gioventù Socialista (di cui Paul Singer fu la figura più in vista). Ma l'organizzazione non era la forza di questo gruppo di adolescenti. Diciamo che il marchio era la più pura spontaneità, teoricamente voluta e praticamente vissuta. Il che, per inciso, rende più sorprendente la persistenza del gruppo (o dei gruppi) che, paradossalmente, ha finito per istituzionalizzarsi, non molto tempo fa, nella forma della Società degli Amici della Biblioteca Mário de Andrade.
2.
Liberata dal peso delle istituzioni educative e dei partiti politici, questa popolazione particolarmente duttile ignorava la tensione che normalmente oppone gli stili intellettuali, come “politico” e “artistico”. I “politici” (quando non erano anche “artisti”, come Baron De Fiori – altri “politici” dell'epoca erano Leôncio Martins Rodrigues, Maurício Tragtemberg e Carlos Henrique Escobar) erano, peraltro, meno numerosi degli artisti, nei cui Le file erano dominate dalla gente del teatro. Questo è quello che si può vedere, ricordando i nomi (in ordine di apparizione sulla scena) di Manoel Carlos, Cyro del Nero, Flávio Rangel, Antunes Filho, Fernanda Montenegro, Fernando Torres e Augusto Boal, tra gli altri – come drammaturgo che ha è, Roberto Schwarz potrebbe entrare in quella lista.
L'atrio della Biblioteca, tuttavia, non era un'isola. Principalmente di notte, i suoi clienti abituali si sparpagliavano nei dintorni. A cominciare dalle panchine del giardino, soprattutto accanto al busto di Mário de Andrade, che qualcuno ha anche tentato di rubare. C'era anche chi aveva la testa ferita in questo tentativo piuttosto surrealista di rendere omaggio al poeta, il cui pesante busto sembrava eludere l'omaggio così resogli. La piazza si rivelò un ottimo luogo per lo svolgersi di incontri letterari-politico-metafisici; e tanto più piacevole in quanto eravamo i suoi unici utenti in quelle notti tranquille. Luogo d'elezione, di cui ci ritenevamo vagamente proprietari e al quale non ci sentivamo relegati a malincuore, anche quando la mancanza di denaro chiudeva ogni altra possibilità.
Bastava però che qualcuno avesse più risorse, perché il seminario permanente migrasse dall'altra parte della strada, verso lo spazio privilegiato dei bar. E non sono mancati i bar, nella piazza stessa e nell'adiacente Avenida São Luís, con lo stile seducente dei Caffè parigini. I tavoli sul marciapiede di Paribar (dove Sérgio Milliet pontificava spesso), nella stessa piazza Dom José Gaspar, erano disposti come in continuità con le panchine del giardino. Spostarsi da una parte all'altra non implicava un salto o una discontinuità. Tutt'al più, forse, una subdola promozione, qualcosa come una conquista di dignità, che compensasse la perdita di esclusività o di egemonia.
Eravamo, ovviamente, ben lungi dall'essere egemonici in questi bar, dove "jeunesse dorée"Da San Paolo. Un popolo che già si distingueva dal nostro per i vestiti e il consumo di bevande importate – le nostre tasche arrivavano alla birra con qualche difficoltà. Sarebbe possibile immaginare, oggi, un gruppo di studenti di filosofia dell'USP, appassionati della IV Internazionale, frequentare serenamente il Pandoro? Oggi, a malapena paragonabile, questo stile di bohémien intellettuale mi appare come una sorta di “comunismo primitivo”, anteriore al doloroso lavoro della divisione sociale del tempo libero. Senza molta comunicazione, non c'era certo ostilità tra chi veniva dalla Biblioteca e gli “innocenti à Mirim”, come ho soprannominato gli altri, pensando a una poesia di Drummond.
I nostri bar erano sincretici e ignoravano ogni tipo di specializzazione, come quella che sarebbe emersa a metà degli anni '1960 (con mia sorpresa, quando tornai in Brasile dopo due anni all'estero), con bar come Ferro's o Redondo, che possedevano già un natura francamente aziendale.
Facciamo il contrappunto con l'Arpège. A differenza degli altri già citati, non era un bar in stile parigino. Era solo uno snack bar, ma portava all'estremo la comune vocazione all'osmosi sociale a cui ci riferiamo. Con la folla della Biblioteca, artisti plastici, giornalisti, studenti universitari e tutte le forme immaginabili di dissidenza politica, culturale o semplicemente sessuale convergevano ad Arpège. Quanto agli studenti universitari, non era raro vedere la destra e la sinistra della Facoltà di Filosofia riunite intorno a una birra, ponderando amichevolmente le proprie divergenze, in uno scenario inimmaginabile dopo il 64 e, soprattutto, dopo la grande repressione del 69. Era come se la società globale potesse specchiarsi nella sua interezza nello spazio angusto del bar, in una forma più comunitaria che sociale.
Insomma, tutti si conoscevano e San Paolo appariva ancora come una città dolcemente provinciale. Nessuno immaginava, credo, in quegli anni Cinquanta, come la silenziosa crescita demografica si sarebbe riverberata, subito dopo, in questo piccolo mondo, trasformando l'Università e lo stile della Boemia intellettuale in modo così rapido e radicale. In meno di un decennio, la nostra scuola è diventata un'università di massa ei nostri pub sono stati spazzati via dal centro della città. A metà degli anni '1950 avevamo già perso la nostra patria di San Paolo.
3.
La città, quindi, si sprovincializzata, per il bene della sua vita culturale, sempre più "professionale". Ma è impossibile, per uno che era un adolescente negli anni '1950, non perdersi quella città che ha scoperto allora, nello stesso momento in cui ha scoperto se stesso. Ho infatti l'impressione che, anche dopo la maturità, continuiamo a portare con noi, come una sorta di irrinunciabile protesi mentale, il paesaggio urbano della nostra adolescenza.
Soprattutto quando, come la nostra, questa matrice è quella di una città perfettamente vivibile e confortevole, dove la gente ancora si aggira, giorno e notte. Una città che ci vestiva come abiti su misura, soprattutto quando il nostro sguardo non andava molto oltre i limiti di Praça Dom José Gaspar e Avenida São Luís, quali che fossero i nostri ideali politici.
* Bento Prado jr. (1937-2007) è stato professore di filosofia all'Università Federale di São Carlos. Autore, tra gli altri libri, di alcuni saggi (Pace e Terra).
Originariamente pubblicato sul giornale Folha de S. Paul, il 22 gennaio 1988.