In ricordo di Alfredo Bosi

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da MARCO V. MAZZARI*

Commento alla traiettoria intellettuale e all'opera del critico letterario

I molteplici profili che compongono la fisionomia intellettuale e militante di Alfredo Bosi si intravedono nelle decine di contributi raccolti nel volume Riflessione come resistenza (Companhia das Letras, 2018), concepita “per salutare gli ottant'anni di un illustre critico”, chiosando le parole con cui Antonio Candido ha titolato il suo omaggio. Aprendosi con la struggente poesia “Retrato”, di Ecléa Bosi, il volume porta poi lettere firmate da grandi nomi della cultura brasiliana (OM Carpeaux, Darcy Ribeiro, Murilo Mendes, CD de Andrade, tra gli altri) e si allarga poi attraverso le sezioni “Letture in Dialogo”, “Testimonials”, “Esteem Essays”: un ampio e variegato spettro di testi impegnati a nobilitare la straordinaria figura umana del premiato, nonché un'opera che racchiude, nell'arco di mezzo secolo, 16 libri, da pre-modernismo (Cultrix, 1966) a Arte e sapere in Leonardo da Vinci (Edusp, 2017).

Non posso qui addentrarmi nel volto militante di Alfredo Bosi, affettivamente ed efficacemente legato, come sottolinea Frei Betto nel testo a orecchio che ha scritto per Riflessione come resistenza, “al mondo degli esclusi” e che, peraltro, è stata contemplata in alcuni contributi di questo volume; ma quanto alla critica letteraria, vorrei evidenziare, tra tanti testi luminosi, il saggio che chiude il volume Paradiso Inferno, “L'interpretazione dell'opera letteraria”, votata al confronto ermeneutico con forme simboliche che spesso raggiungono il limite dell'opacità, rendendo “questo tenace lavoro chiamato interpretazione".

Come le concezioni teoriche di Alfredo Bosi si siano tradotte nella sua prassi di interprete è mostrato in alcuni dei saggi raccolti in Paradiso Inferno, Che cosa "L'Ateneo: opacità e distruzione”, un vero capolavoro di analisi letteraria che svela le varie sfaccettature di questo “romanzo pedagogico o dell'orrore” attraverso un approfondimento ermeneutico del tono unificante che lo percorre dalla prima all'ultima pagina, nonché delle contraddizioni che si sono sedimentate al centro della prospettiva adottata dal giovane Raul Pompea.

Mirabile è anche l'approccio comparativo, e allo stesso tempo differenziale, di Vite secche, di Graciliano Ramos, e prime storie, di Guimarães Rosa; e non meno fecondo, l'approccio, pionieristico per quanto riguarda il rapporto tra simbolo e allegoria nonché il concetto medievale di accidia, dal poema “A Máquina do Mundo”, di CD de Andrade.

Un momento d'oro nella produzione critica di A. Bosi è certamente Dialetica da colonizzazione (1992), che concretizza, in 10 capitoli, i principi teorici discussi nel saggio “L'interpretazione dell'opera letteraria”. Con un linguaggio chiaro e preciso, l'autore intraprende – in un movimento in qualche modo simile a quello operato da Erich Auerbach in Mimesis – un viaggio trasversale attraverso cinque secoli di storia brasiliana, che ci permette di seguire come il confronto con testi di José de Anchieta, Gregório de Matos, Antônio Vieira (immensa passione dell'autore), José de Alencar, Castro Alves, porti alla luce elementi che aiutano a chiarire le contraddizioni che hanno segnato il processo di colonizzazione brasiliana, contemplato in centinaia di pagine nelle sue manifestazioni sia simboliche che materiali.

Il movimento concentrico tra le parti e il tutto si sviluppa con suprema maestria, integrando nell'interpretazione dati tratti dall'ambito economico, politico e sociale, e questo a partire dal saggio su Anchieta: “Le frecce opposte del sacro”, immagini che , in primo piano, significano le “teodicee” dei due popoli che si scontrarono all'inizio della nostra colonizzazione: “Purtroppo per i popoli indigeni, la religione degli scopritori venne armata di cavalli e soldati, archibugi e cannoni”.

Il lettore ha però anche la possibilità di scorgere nell'immagine delle “frecce opposte” i due linguaggi mobilitati da Anchieta nei suoi testi: nel linguaggio dei simboli esprimeva (in latino e nelle lingue iberiche) le preoccupazioni e le caratteristiche estasi del devozione moderna, mentre il procedimento allegorico, basato sulla lingua Tupi, copriva i documenti che perseguivano lo scopo di catechizzare gli indigeni, il che porta l'interprete ad affermare che l'allegoria era "il primo strumento di un'arte per le masse creata dagli intellettuali organici di acculturazione”.

Dopo il Dialetica da colonizzazione è da notare l'importanza crescente che la figura di Machado de Assis assunse per questo critico che, provenendo dalle tradizioni italiane, aveva studiato un solo scrittore nelle opere accademiche, Pirandello nel suo dottorato e Leopardi nella sua cattedra associata. Ma poi sono arrivati ​​i volumi L'enigma dello sguardo (1999) e, sette anni dopo, Brás Cubas in tre versioni, che hanno consolidato la posizione dell'autore tra i grandi interpreti dell'opera di Machado, come quelli discussi nel testo che si sofferma su tre letture matriciali di memorie postume: il “costruttivo”, che traccia i legami intertestuali stabiliti dal narratore dall'oltretomba; “mimetico” (o “sociologico”), che negli studi di Raymundo Faoro e Roberto Schwarz raggiunse il suo massimo livello; e, ancora, l'aspetto “espressivo-esistenziale”, per il quale A. Bosi rivela la sua più grande ammirazione e che, a suo avviso, si incarnerebbe nelle analisi dell'“artista-critico” Augusto Meyer, “il più sottile dei Machado lettori”.

“La prospettiva di Machado è quella della contraddizione che si perde, del terrorista che si finge diplomatico. Occorre guardare la maschera e la profondità degli occhi che il taglio della maschera a volte lascia intravedere”: questo postulato della doppiezza, chiusura di un denso saggio del 1979, accompagnerà il critico (sempre affascinato dalla “enigma” dello sguardo di Machado) per i decenni successivi, comparendo addirittura nel titolo di uno dei suoi ultimi scritti, “Il doppio specchio in una storia di Machado de Assis” (nel volume Tre letture: Machado, Drummond, Carpeaux, Editore 34, 2017).

Cadde dunque il fondatore dell'Accademia Brasiliana di Lettere, come forse si può sostenere in un eventuale bilancio della traiettoria critica di Alfredo Bosi, un posto di prima grandezza, accanto al non meno amato Antônio Vieira, di cui il 4° capitolo di Dialetica da colonizzazione ci offre una lettura magistrale. Ed è possibile che questo sia il libro che rimarrà come la più grande eredità del suo autore, avendo già irradiato la sua influenza oltre i confini brasiliani, con traduzioni in francese, spagnolo e inglese, oltre a un'edizione portoghese (2014), la cui prefazione conclude Graça Capinha nei seguenti termini: “Cercando di capire il passato, penso che Alfredo Bosi sia stato capace di avvicinarci più veramente al nostro presente e oggi, a più di vent'anni di distanza, ci accorgiamo che ha dimostrato addirittura di aver è stato in grado di rilevare i segni di quello che allora era un possibile futuro.

Va inoltre ricordato che, in Germania, Michael Jaeger, uno dei più importanti interpreti attuali del Spettacolo sfarzoso, raccolto fruttuose sovvenzioni nel Dialetica da colonizzazione, consultato nella traduzione inglese, per approfondire il suo lavoro con la tragedia goethiana. Basandosi sulle straordinarie considerazioni etimologiche e storiche del critico brasiliano sulla “condizione coloniale” – in particolare sulle parole “cultura, culto e colonizzazione”, derivate dal verbo latino giro (participio passato: cultus; participio futuro: culturus) – Jaeger ha cercato di dimostrare nel suo grande studio Wanderers Verstummen, Goethes Schweigen, Fausts Tragödie [Il silenzio del pellegrino, il silenzio di Goethe, la tragedia di Faust] che “il processo di colonizzazione rappresentato da Faust e Mefistofele si svolge attraverso lo spazio di Filemone e Bauci in tutti i sensi (da giro, cultus e cultura) e guida la trasformazione del mondo”.

È chiaro che questa “trasformazione del mondo” va intesa in una prospettiva critica, legata all'immensa “colonia” mefistofelica che Goethe tratteggia nell'ultimo atto del Spettacolo sfarzoso, e avendo a che fare anche con una modernità che nel “Post-scriptum” à la Dialetica da colonizzazione riceve una descrizione espressiva: “diffusione di scorie atomiche, macchie di acido, effetto serra, avvelenamento delle acque, rischio pesticidi, inferno delle megalopoli”. In questo mondo guidato da una “cieca e sporca industrializzazione”, come osserva ancora Bosi nel “Post-scriptum”, non c'è più spazio per la vecchia coppia Filemone e Bauci, che in apertura del quinto e ultimo atto del Spettacolo sfarzoso lo accoglie un “Pellegrino” in versi di insuperabile bellezza: “La buona coppia che con cura, / mi aveva accolto, vorrei vedere, / ma, lo vedrò ancora oggi? / Allora era così vecchio! / Persone candide e felici! / Colpisco? chiamata? - Ti saluto! / Se godi sempre la felicità, / Di fare del bene in tutto”. Poco dopo, gli anziani vengono massacrati insieme al Pellegrino, probabilmente una figurazione dello stesso Goethe, per far posto alla già citata “trasformazione del mondo”.

Tutti coloro che hanno avuto il privilegio di conoscere più da vicino la generosissima figura che ci ha appena lasciato, nonché sua moglie Ecléa Bosi, non avranno difficoltà ad associarli all'anziana coppia che Goethe, anche lui ottuagenario, ci presenta con, con le più alte risorse della poesia, alla fine della loro tragedia – una coppia che guida tutta la sua esistenza con l'aspirazione a fare sempre e in tutto il bene. Io stesso ho iniziato ad entrare in questo gruppo privilegiato di persone come allievo di Alfredo Bosi, già al primo anno di laurea.

Da allora la convivenza si è andata sempre più approfondendo e, nella stessa misura, si è intensificato il sentimento di gratitudine per tanti insegnamenti, per tante ricchezze ricevute. Quando ho concluso, nel 2019, lo studio La doppia notte dei tigli: Storia e Natura nel Spettacolo sfarzoso di Goethe, omaggio sotto vari aspetti all'opera di Alfredo Bosi, mi è venuto spontaneo il desiderio di esprimere la mia riconoscenza con la dedizione che porta la coppia, oggi unita nell'eternità, alle figure mitiche create da Ovidio nel Libro VIII di Metamorfosi e rielaborato, 18 secoli dopo, da Goethe: “per Ecléa, che amava tanto l'episodio di Bauci e Filemone, e Alfredo Bosi – osare fare del bene in tutto”. La tristezza che provoca in noi la dipartita di Alfredo Bosi, in un momento così tragico della storia brasiliana, sarà certamente mitigata dal messaggio di resistenza che ci ha lasciato anche il suo luminoso passaggio nel mondo. In questo senso valgono le parole di Leonardo da Vinci che il grande critico pone a chiusura del suo ultimo libro: “Nessun essere va al nulla”.

*Marco V.Mazzari Docente di Letterature Comparate all'USP. autore di La doppia notte dei tigli. Storia e Natura in Spettacolo sfarzoso di Goethe (Editore 34).

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