Aspetta, spera - scritto in minuscolo

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da JEANNE MARIE GAGNEBIN*

Come i testi di Franz Kafka, spesso interpretati come espressioni di assurdità o disperazione, possono, al contrario, essere letti da Walter Benjamin come figure di speranza [speranza]?

Nel novembre 2021, quando tutti contavamo sulla fine dell’epidemia di Covid, dopo quasi due anni di “confinamento”, mascherine, vaccini, morti soffocanti e funerali simulati, la Walter Benjamin International Society ha organizzato a Berlino il suo colloquio semestrale con il seguente tema : "Speranza a Walter benzoino”. Temevamo il peggio. Per comprendere meglio questa nozione in Benjamin, propongo di partire da due questioni indipendenti ma strettamente correlate.

Primo: qual è la differenza tra “wait[I]"["sperare”] e “speranza” [“sperare"] in francese? Esiste un’altra lingua che fa questa differenza? Notiamo che Benjamin lavora con entrambi i termini nei suoi scritti in francese.

Seconda domanda: come è possibile che i testi di Franz Kafka, spesso interpretati come espressioni di assurdità o disperazione, possano, al contrario, essere letti da Walter Benjamin come figure di speranza [sperare]? Infatti, è nel suo “saggio omaggio” del 1934, riguardante i dieci anni dalla morte dello scrittore, che la parola Speranza è stato utilizzato più frequentemente in tutta l'opera di Walter Benjamin.

Riguardo alla prima questione: come seconda virtù cardinale, la speranza [sperare]è una delle proprietà umane più citate che dovrebbe essere in grado di salvarci ancora oggi. Il suo rapporto con la trascendenza si basa sia sulla capacità di superare, di riuscire ad andare oltre i limiti umani, sia su un'origine divina o religiosa. Come atleta, artista, ballerino, pensatore, l'uomo può superare se stesso; ma questo vuol dire che il tuo volto riflette la luce divina? Solo attraverso la preponderanza di un modello teologico, di origine ebraica o cristiana, la speranza [sperare] acquista un significato positivo che evidenzia il legame tra l'uomo e Dio.

Senza questo, spero [sperare] (Elpis, in fondo al vaso di Pandora in Esiodo) è piuttosto indice della miseria dell'umanità che preferisce illudersi piuttosto che lasciarsi guidare da una chiara conoscenza. Almeno in Spinoza, Marx o Freud. Pertanto, la famosa formula “speranza [sperare] è l’ultimo a morire”[Ii] dichiara allo stesso tempo che abbiamo bisogno di speranza [sperare] continuare a vivere – e anche che sicuramente moriremo presto, cioè prima di lei.

Quando il termine tedesco Speranza è tradotto come "aspetta" ["sperare”], il rapporto con il futuro è certamente considerato, ma la possibilità di una garanzia religiosa o politica di questo futuro apparentemente migliore è molto meno presente. "Speranza" [sperare] indica un significato teologico e/o politico, una salvezza escatologica e/o liberatrice. "Aspettare" ["sperare”] si basa più sull’uso quotidiano, anche banale, del verbo (ad esempio: “Spero [j'Aspettare] che tu possa stare bene”).

Il sostantivo “aspetta” [“sperare”] non descrive tanto il movimento dell’anima verso la trascendenza quanto l’attesa [l'attesa] di un obiettivo il cui raggiungimento dipende da mezzi umani semplici, “anche se insufficienti, o addirittura infantili”[Iii], come scrive Franz Kafka a proposito di Ulisse e delle sirene. Naturalmente questi mezzi potrebbero non avere successo, implicare un fallimento o una sconfitta. Per restare nell'universo di Kafka: nonostante tutta la sua dedizione e buona volontà, l'impiegato Schuwalkin (che Benjamin menziona all'inizio del suo saggio su Franz Kafka) riesce a ottenere una firma, ma non è valida.

Anche riconoscendo le intonazioni fondamentalmente teologiche del pensiero di Walter Benjamin, in particolare quelle legate alla mistica ebraica, possiamo chiederci se la tendenza a fare di questo pensiero una variante della teologia o della filosofia della speranza [sperare] (Theologie/Philosophie der Hoffnung) non è molto frettoloso. Un po' come se Walter Benjamin ed Ernst Bloch fossero d'accordo, almeno nella concezione della storia, e ciò nonostante le poche osservazioni critiche di Benjamin sui saggi di Bloch (Geist der Utopie ou Erbe dieser Zeit)[Iv] che ci è rimasto.

Fare di Walter Benjamin uno dei primi “teologi della liberazione” può certamente suonare bene, soprattutto in America Latina, ma si rischia di semplificare sia il pensiero teologico sia la concezione della lotta politica. Benjamin cerca di pensare a una trasformazione del profano che sarebbe radicale e, in questo senso, anche teologica, ma è una trasformazione che nasce dal profano e si realizza in modo profano.

In questo contesto è importante notare che lo stesso Walter Benjamin, traducendo in francese la famosa espressione della Tesi VI, “den Funken der Hoffnung”, solitamente tradotto come “la scintilla della speranza [sperare]”, usa la parola “aspettare” [“sperare”] nella sua versione francese delle “Tesi”: “—solo uno storico come questo potrà attrarre [o commuovere?][V] la scintilla di un'attesa [sperare] al centro degli eventi passati stessi. “Un'attesa” [“una speranza”], ha scritto Walter Benjamin; “di speranza” [“de speranza”], tradotto Gandillac e Rusch[Vi]. Come se Benjamin cercasse la luce di una soluzione concreta e modesta, mentre i suoi traduttori desiderassero poter contare sulla presenza ontologica della speranza [sperare].

In altre parole: sta a noi cercare e frugare nel passato per scoprire alla fine una piccola scintilla di speranza [sperare] – proprio come un archeologo potrebbe imbattersi in frammenti di ceramica. Ma non abbiamo il diritto di presumere, per metterci all’opera, la presenza di una scintilla o di un sole futuro, così come non è la garanzia dell’esistenza del progresso che prescrive la necessità della resistenza e della lotta per la liberazione. . forma: Walter Benjamin preferisce operare con diverse modalità pratiche di presa(i) [coniuge(i)], invece di scommettere sull’ipotesi metafisica di una presenza essenziale di speranza [sperare].

Questa interpretazione “decisamente pragmatica” è sottolineata in una lettera inviata a Werner Kraft nel novembre 1934, nella quale commentava il suo saggio su Franz Kafka e diceva di voler approfondire un giorno questo studio, spiegando questo desiderio: “Prima di tutto, l'esperienza di scrivere questo studio mi ha portato a un bivio di idee e considerazioni, e le riflessioni che ad esse dedicherò in futuro promettono di essere equivalenti al gesto che compiamo quando ci orientiamo, bussola in mano, in un terreno dove non c'è nessun percorso tracciato. (…) Penso soprattutto a questo [motivo][Vii] del fallimento di Kafka. È strettamente legato alla mia interpretazione decisamente pragmatica di Kafka”.[Viii]

A dire il vero l'essere “pragmatico” non è certo una caratteristica frequente di Walter Benjamin, né della sua persona, né del suo metodo o della sua scrittura! L’obiettivo di questa lettura “pragmatica” è resistere alla tentazione di grandi interpretazioni totalizzanti su Franz Kafka, siano esse teologiche o psicoanalitiche ed esistenziali, in primo luogo la lettura di Max Brod, ma anche, in modo più discreto e amichevole, quella di Gershom. Scholem.

Walter Benjamin gli scrisse nell'agosto di quello stesso anno, commentando la poesia di cui aveva scritto Scholem Il processo di Franz Kafka: “Così definirei provvisoriamente il rapporto tra la tua poesia e la mia opera. Il suo punto di partenza è “il nulla della Rivelazione” (…) e la prospettiva – che deriva dalla storia della salvezza – della procedura giuridica costituita. Il mio punto di partenza è la piccola attesa [sperare] assurde, proprio come le creature che attendono [sperare] anima e in cui si riflette questa assurdità”[Ix].

In precedenza, quando ricevette la poesia, Benjamin, in modo elegantemente pragmatico, si era già dichiarato in conflitto con la teologia negativa dell'amico: «Ora quando scrivi: 'Il tuo nulla è l'unica cosa / che lei può sperimentare di Te', Posso proprio aggiungere il mio tentativo di interpretazione con le seguenti parole: ho cercato di mostrare come Kafka cercasse dentro questo nulla, nel suo rivestimento se così posso dire, per sentire la redenzione”.[X]

Così, quando Walter Benjamin afferma, nella sua lettera a Werner Kraft, di essere arrivato a un bivio nelle sue riflessioni, di aver effettivamente finito di scrivere il suo saggio, ma che questa conclusione è solo provvisoria, poiché intende scriverla più tardi. l’opera più importante su Kafka, possiamo descrivere questo “crocevia” come l’intersezione di più direzioni paradossali, o addirittura opposte. La prima direzione sarebbe quella di un’interpretazione che non dovrebbe esserlo, o meglio, che agisce in una direzione contraria allo statuto classico di un’interpretazione letteraria o filosofica, poiché non vuole produrre alcuna immagine totale e coerente dell’opera. in questione.

La seconda direzione, invece, porterebbe al risultato opposto e cioè che è proprio in questa mancanza, in questa impossibilità di un’interpretazione classica, in questa sorta di atto viziato della volontà interpretativa, che è in questo “rovescio” o in questo “rivestimento” del nulla – rivestimento anche nel tessuto del testo letterario –, che può eventualmente risiedere nei segni di attesa [sposa/e)]. Ma tali segni non sono né luminosi né attraenti; sarebbero, invece, senza splendore e senza colori.

Emergono così una serie di strane creature, buffoni eccentrici, buffi o tristi, aiutanti goffi e inetti: angeli con le ali legate, un cantante senza voce, messaggeri i cui messaggi non arrivano mai, perfino un santo patriarca che obbedisce subito a Dio ed è pronto a sacrificare suo figlio. , ma non posso uscire di casa. Tutti sono al bivio e non sanno dove andare.

Proprio come il lettore, che vorrebbe sinceramente arrivare a un'interpretazione e finalmente capire, ma che invece resta lì, immobile e confuso. Adorno lo dice proprio nei suoi “Appunti su Kafka”: “Ogni frase dice: interpretami, e nessuna tollera l’interpretazione”.[Xi]

È questa impossibilità, o addirittura questo divieto di interpretazione, che Walter Benjamin assume come principio guida del suo saggio.[Xii] Rinuncia a produrre un'immagine completa dell'opera di Franz Kafka, una coerenza di origine mistica, patologica o sociologica. Questa rinuncia è stata spesso notata e interpretata come la vera chiave dell'universo kafkiano: un universo il cui tema principale sarebbe proprio la crudele inintelligibilità dell'“organizzazione umana”, della burocrazia legale (Il processo) o amministrazione politica (Il Castello), il che spiegherebbe perché questo mondo è così oscuro. Anche se Benjamin non rifiuta questa chiave di lettura, non ne deduce un'esclusiva desolazione.

Infatti, l’impossibilità di un approccio ermeneutico classico ci permette di liberare lo sguardo su altri elementi: gesti, metafore, esitazioni, ipotesi che si accumulano senza alcuna verifica, ma indicano un’altra dimensione della letteratura, cioè il diritto a non arrivare ad alcuna conclusione. . Da qui il gran numero di frasi ben note che si susseguono e si relativizzano, tanto che il lettore continua sempre a dubitare di cosa si tratti.

Franz Kafka non finisce i suoi romanzi, e Walter Benjamin non vuole giungere ad alcuna conclusione sensata: “In effetti possiamo trovare problematica la forma della mia opera, ma in questo caso per me non c'era altra possibilità: perché volevo mantenere le mie mani libere. Non volevo finire. In termini storici, sarebbe anche possibile che non sia ancora il momento di concludere – almeno se, come Brecht, consideriamo Kafka come uno scrittore profetico. Come sappiamo non ho usato questo aggettivo, ma ci sarebbe molto da dire a riguardo, ed è possibile che lo faccia io stesso”.[Xiii]

Il “bivio” al quale si trova Walter Benjamin diventa più chiaro in questa lettera a Werner Kraft. Si tratta di una rinuncia e, allo stesso tempo, di una promessa: il lettore — e il critico — rinuncia alla sua ambizione di poter almeno delineare una comprensione integrale o fornire un'ipotesi per un'interpretazione più ampia dell'opera, che, nell'interpretazione di Kafka, caso, potrebbe calmare la nostra ansia. Così facendo, però, riceve una garanzia preziosa ma fragile, cioè come una dimensione sconosciuta (di sé e, nella maggior parte dei casi, anche dell'autore), che indica un futuro possibile, sia sotto forma di allerta che di consolazione, o anche un'esplosione di gioia.

Nel luglio 1934, mentre Walter Benjamin e Bertold Brecht giocavano a scacchi, ascoltavano la radio e discutevano di Franz Kafka, Benjamin menzionò l'affermazione di Brecht sulla “dimensione profetica” dell'opera di Kafka. Ciò avrebbe predetto il mostruoso aumento dell’organizzazione politica e burocratica della vita quotidiana umana e del lavoro capitalista; ne avrebbe compreso chiaramente il carattere di alienazione e di sfruttamento, ma la sua reazione non sarebbe potuta andare oltre la descrizione – notevole, riconobbe Bertold Brecht – dell'angoscia suscitata dalla crudeltà di un tale sistema.

Il carattere profetico dell'opera di Franz Kafka è più complesso, secondo Walter Benjamin. Non si tratta solo di constatare che Kafka avrebbe previsto la nostra attuale situazione miserabile, il nostro crescente disorientamento e angoscia, ma di conseguenza anche, come Bertold Brecht e più tardi Günter Anders[Xiv] e anche György Lukács sospettava il nostro desiderio di un leader, di un “Leader“forte che può guidarci e salvarci.

Si tratta piuttosto di sottolineare che, in Franz Kafka, il disorientamento e la confusione non sono semplicemente la conseguenza della perdita di un ordine precedente, antico e sicuro, e della sofferenza causata da quella perdita; disorientamento e confusione significherebbero senza dubbio il riconoscimento di questo crollo, ma, allo stesso modo, un tentativo di brancolare in questo territorio descritto come “dentro il nulla” alla ricerca di mini-eventi, gesti, storie, tante occasioni di pratica un'altra modalità di attenzione e, chissà, un mondo più libero. In altre parole: l’attesa [sperare] non è né davanti né dietro di noi. Non si tratta di progettarlo o di armeggiarlo, ma di prestare attenzione al presente.[Xv]

Un ritorno ad a Halakah (la sacra dottrina) riscoperta o reinventata non è possibile e non servirebbe a nulla. Diversi commentatori hanno giustamente notato che Benjamin lesse e riconobbe l'importanza del saggio di Chaim Biliak “Halakah and Haggadah” (Haggadah è il termine che descrive i numerosi commenti alla dottrina), tradotto da Scholem. Questo lavoro è stato pubblicato sulla rivista Der Jude nell'aprile 1919.

Stefano Marchesoni cita il “patetico appello” con cui si conclude il saggio di Biliak: “Rendeteci inclini, nella vita, più ad agire che a parlare; per iscritto, più simile ad Halacha che ad Haggadah. Chiniamo il capo: dov'è il giogo di ferro? Perché non viene la mano forte, né il braccio teso?”[Xvi]. È proprio a un appello di questo tipo (che Brecht e Anders leggono tra le righe di Kafka) che Benjamin si oppone. Cerca di leggere Kafka, per così dire, in modo haggadico, prestando attenzione alle figure che alludono ad altre forme di sperimentazione.

Ricordiamo qui la sua famosa lettera del 12 giugno 1938 a Scholem: “L'opera di Kafka mostra che la tradizione è malata. La saggezza è stata talvolta definita come l'aspetto narrativo della verità. Con ciò la saggezza viene segnata come patrimonio della tradizione; è la verità nella sua consistenza haggadica. È questa coerenza della verità che è andata perduta. Kafka non fu il primo ad affrontare questo fatto. Molti vi si adattarono aggrappandosi alla verità o a ciò che ritenevano tale di caso in caso; con il cuore pesante o anche più leggero, rinunciando alla sua trasmissibilità. La genialità stessa di Kafka sta nell'aver tentato qualcosa di completamente nuovo: ha rinunciato alla verità per aggrapparsi alla trasmissibilità, all'elemento haggadico. Le sue creazioni sono, per loro stessa natura, parabole. La loro miseria e bellezza, però, dovevano diventare qualcosa di più che semplici parabole. Non giacciono semplicemente ai piedi della dottrina, come l'Haggadah ai piedi dell'Halacha. Una volta sdraiati, inavvertitamente vi sollevano contro una pesante zampa.[Xvii]

“Più che parabole (parabole)”, osserva Walter Benjamin, questi racconti stabiliscono un confronto con un termine sfuggente, inaccessibile e, proprio per questo, diventano anche tentativi sperimentali indipendenti da ogni paradigma originario. È un po' come la vertigine che attanaglia il bibliotecario alla ricerca del primo libro, o del libro che conterrebbe tutti i libri, nell'infinita biblioteca di Babele secondo Jorge Luis Borges.

Queste narrazioni haggadiche, simili a piccoli animali apparentemente docili ai piedi del loro padrone, ma che gli assestano potenti colpi con le zampe e rischiano di farlo cadere, sono sorprendentemente simili a “prescrizioni sperimentali” o a “tentativi di comando”. o anche “dispositivi sperimentali”: sto cercando di tradurre il termine benjaminiano Versuchsanordnungen – che improvvisano, senza la guida di un adulto, tra i membri di un teatro infantile proletario o gli attori anonimi di un teatro di strada, magari vicino al teatro dell'Oklahoma di Franz Kafka. Theodor Dorno ha sottolineato nel saggio di Walter Benjamin il termine “dispositivo sperimentale” e lo ha criticato perché voleva limitarne l'uso al teatro epico di Brecht.[Xviii]

Si potrebbe però difendere l'ipotesi che questo concetto di Walter Benjamin, che in effetti fu decisivo per la sua lettura del teatro di Bertold Brecht, indichi un ambito di ricerca più ampio: cioè una definizione estetica e politica allo stesso tempo di ciò che Benjamin chiama portata, spazio di gioco, spazio abitativo, spazio di azione[Xix]. Uno spazio in cui sono possibili nuove sperimentazioni ed esperienze, poiché è uno spazio sufficientemente vuoto da consentire agli abitanti di svolgere diverse attività, in particolare l'uso multiplo di oggetti diversi, come nelle sobrie case di pescatori e contadini di Ibiza, come li evoca Walter Benjamin, in contrapposizione agli appartamenti borghesi stipati di mobili, souvenir, centrini di pizzo e ninnoli.[Xx]

Naturalmente dobbiamo citare anche le riflessioni su “L'opera d'arte nell'epoca della sua riproduzione meccanizzata”, che Benjamin e Klossovski tradussero insieme nel 1936. E possiamo chiederci se le diverse versioni del saggio su “L'opera d'arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, riscritto quattro volte da Walter Benjamin dopo le critiche, per non dire la censura di Theodor Adorno, avrebbe a che fare non solo con una prudenza politica allora indispensabile, ma anche con un disaccordo che era allo stesso tempo estetico e politico sull’arte del futuro.

Nella seconda versione tedesca di questo testo, del 1935/36, una versione ritenuta scomparsa ma riscoperta negli anni '1980 negli archivi di Max Horkheimer, Walter Benjamin sviluppa una teoria della mimesi come comportamento antropologico fondamentale che non poteva non dispiacere a Theodor Adorno, sempre diffidente nei confronti del “materialismo antropologico”[Xxi] del tuo interlocutore. Ma questo materialismo antropologico è soggetto alla storia. Così, dice Walter Benjamin, “le due facce dell'arte: apparenza e gioco, sono come addormentate nella mimesi, strettamente ripiegate l'una nell'altra, come le due membrane del germe vegetale”.[Xxii]

Con il declino dell'apparenza e dell'aura o, potremmo dire, con il declino di un'estetica del bello apparire e della totalità, del Schöner Schein, di illusione e verità, si manifesta e cresce la seconda sfaccettatura della mimesi, quella del gioco e della sperimentazione: “In altre parole: nelle opere d'arte, ciò che è spinto dall'appassimento dell'apparenza, dal declino dell'aura, è un formidabile guadagno per lo spazio di gioco (Spiel-Raum) ".[Xxiii]

L'ipotesi dialettica di Walter Benjamin consiste nello scommettere che il processo di distruzione della bella apparenza, la fine dell'aura, non solo rende il mondo disincantato e consegnato all'eterno consumo della stessa, ma consente, al contrario, l'emergere di un processo di sperimentazione ludica (e seria) di altre possibilità della realtà. I bambini e gli artisti cominciano a inventare altri ordini di realtà perché non lo prendono come definitivo.

Queste attività sperimentali e ludiche presuppongono una nozione di azione politica che non mira a trasformare il mondo secondo norme prestabilite, ma si basa su esercizi e tentativi in ​​cui l'esperienza umana, sensibile e spirituale, intelligibile e corporea, osa inventare altri spazi e altre tempi. In questo senso, e come hanno tradotto in francese Benjamin e Klossovski, lo spazio del gioco, il portata, è “l’immenso e insospettabile campo d’azione”[Xxiv] sia nell'arte che nella politica.

Potrebbe anche il lavoro di Franz Kafka rientrare in questa ricerca di un nuovo spazio estetico e politico? Ciò spiegherebbe perché Walter Benjamin insiste sull'umorismo di Kafka, nel suo “allegria "[Xxv], la gioia persistente o la serenità dell'autore nonostante i suoi fallimenti. Benjamin propone così una lettura di Kafka che non enfatizza il lutto per un ordine superato, ma la ricerca di nuove sperimentazioni, per trovare soluzioni possibili, un po’ come quelle che Gilles Deleuze chiamerebbe “linee di fuga”.

In particolare, Walter Benjamin si rifiuta di ridurre soprattutto i romanzi di Franz Kafka Il processo, alla nota triade Legge-Colpa-Punizione. Lo chiarisce molto chiaramente nella sua lettera a Scholem dell'11 agosto 1934: “Ho l'impressione che l'insistenza permanente di Kafka sulla legge sia il punto morto dell'opera. Ciò che intendo con questo è semplicemente che l’opera non si muoverà se l’interpretazione si basa su questo punto morto. È anche vero che non voglio intraprendere un faccia a faccia esplicito con questo concetto”.[Xxvi]

Dobbiamo qui azzardare la seguente ipotesi: il saggio in omaggio a Franz Kafka del 1934 approfondisce la celebre affermazione di Walter Benjamin nel suo saggio giovanile “Critica della violenza”, e cioè che l'ordine del diritto (e quindi anche del diritto) è una continuazione, anche se mascherata, e perfino purificata, dell'ordine mitico, e, quindi, di un ordine che non consente la realizzazione né della libertà né della vera giustizia – che apparterrebbe solo a Dio; un ordine che, di fatto, dichiara colpevole e punisce il mantenimento con la violenza delle attuali configurazioni di potere.

Secondo Stefano Marchesoni, il lato profetico di Franz Kafka sarebbe “un’allusione messianica a una destituzione anarchica della legge”.[Xxvii] Walter Benjamin legge i testi di Kafka come un'illustrazione lucida e spesso ironica di questo fatale imbarazzo nell'ordine della Legge, una confusione rappresentata dai labirintici corridoi evocati dall'opera e dalla recalcitrante sintassi della prosa di Kafka.

Em Il processoK. confonde i meandri della legalità giuridica con la ricerca della giustizia – anzi, forse questa confusione è la sua colpevolezza segreta, questa colpa che mette sempre in moto il meccanismo della Legge e della punizione. Potremmo addirittura osare dire che solo con l'abolizione di questo ordine mitico, ordine che riaffiora sotto l'ingannevole apparenza della Legge, K. potrà finalmente rifiutarsi di credere a tali regole e, secondo le convenzioni, voler sempre obbedire. loro, solo allora potrà finalmente essere innocente e condurre una vita libera e generosa[Xxviii], come fece Sancho Panza accanto al suo “diavolo”, Don Chisciotte, secondo Franz Kafka citato da Sancho Pansa Benjamin alla fine del suo saggio.

Nei testi di Kafka solo chi non ha alcun potere è libero e, quindi, non ha bisogno di alcun sistema di Legge per mantenerlo; la sua leggerezza porta certamente alla sua debolezza e, in questo senso, al suo fallimento, ma si oppone anche a tutti i dipendenti curvi, inerti e obbedienti.

Inoltre, queste figure vulnerabili ma libere sfuggono al potere del padre, potere che Sancho Pansa Benjamin evoca secondo una chiave di lettura più politica che psicoanalitica, il potere del patriarcato contro il “materno” (“das Mütterliche”), concetto che Benjamin prende in prestito da Bachofen e che qualifica lo strano reel indipendente di Odradek: “La preoccupazione del padre di famiglia è quella materna, che gli sopravviverà”[Xxix], scrive, come se il materno indicasse un potere che sfugge all'ordine paterno e domestico del Hausvater. Nonostante la tentazione, non oso delineare qui alcuna analisi femminista!

“Odradek è la forma che assumono le cose nell’oblio”[Xxx], scrive anche Benjamin nel suo saggio su Kafka. Oblio che distorce, ma permette anche alle creature di vivere nel sottoscala, nelle soffitte o in un angolo, di non avere una “casa fissa”, di scomparire per poi ritornare, insomma di sfuggire al controllo del Hausvater. A proposito degli aiutanti disattenti e dei messaggeri del Processo, Benjamin dice che assomigliano ai “gandharva [della tradizione indiana][Xxxi], esseri incompiuti, allo stato ancora nebuloso”, e aggiunge: “L’attesa [sperare] esiste per loro e per coloro che sono simili a loro, l’incompiuto, il goffo”[Xxxii]. Poiché sono “non finiti”, senza un’identità definitiva, possono ancora trasformarsi e osare diventare altri. E, se riusciranno a fuggire dal regno dei loro genitori e giudici, non diventeranno insetti mostruosi, ma correranno il rischio di inventare diverse figure della libertà. È un'attesa [sperare] tenue e difficile, ma presente e possibile.

*Jeanne Marie Gagnebin È docente di filosofia alla PUC-SP e Unicamp. Autore, tra gli altri, di Storia e narrazione in Walter Benjamin (Perspectiva).  [https://amzn.to/4aHAfMz]

Traduzione: Fernando Lima das Neves.

note:


[I] Abbiamo scelto questo termine ogni volta che la suddetta distinzione semantica in francese e il suo utilizzo da parte di Walter Benjamin sono oggetto di considerazione nel testo, considerando che, in portoghese, la parola “speranza” ha entrambi i significati in questione. (Vedere Dizionario Houaiss della lingua portoghese: speranza: 1. sentimento di qualcuno che vede come possibile il raggiungimento di ciò che desidera; confidare nelle cose buone; fede. 3. aspettativa, aspetta, aspetta). [NT]

[Ii] In tedesco: “La speranza muore per ultima".

[Iii] "unzulängliche, già kindische Mittel“, scrive Benjamin, Gesammelte Schriften II-2, P. 415, citando Kafka. Traduzione francese di Christophe David e Alexandra Richter nel volume intitolato Sur Kafka di W. Benjamin, Ed. Nous, 2015, pag. 45. La maggior parte delle citazioni francesi dei testi di Benjamin su Kafka si riferiscono a questo utilissimo volume.

[Iv] Il capitolo sulle somiglianze e differenze tra Benjamin e Bloch non è ancora stato scritto... Aver cominciato a scriverlo è merito di Stefano Marchesoni nel suo lavoro Walter Benjamins Konzept des Eingedenkens, Kadmos Verlag, 1916.

[V] Considerazione dell'autore. [NT]

[Vi] Rispettivamente: W. Benjamin, Traduzione francese delle “Tesi”, nell'apparato critico di Gesammelte Schriften I-3, tesi VI, pag. 1262; e traduzione francese di Maurice de Gandillac, rivista da Pierre Rusch, in W. Benjamin, Lavori, Ed. Gallimard, Folio Essais, 2000, vol. 431.

[Vii] Complemento dell'autore. [NT]

[Viii] “An die erster Stelle [kam] die Erfahrung, dass diese Studie mich an einen carrefour meiner Gedanken und Überlegungen gebracht hat und gerade die ihr gewidmeten weiteren Betrachtungen für mich den Wert zu haben versprechen, den auf weglosem Gelände eine Ausrichtung am Kompass hat. (…)

Ich denke vor allem an das Motiv des Gescheitertseins von Kafka”. Dieses hängt auf engste mit meiner entschlossen pragmatischen Interpretation Kafkas zusammen Walter Benjamin, Gesammelete Briefe IV, P. 524/25. Traduzione francese di Christophe David e Alexandra Richter nel volume intitolato Sur Kafka di W. Benjamin, Ed. Nous, 2015, pag. 141/142.

[Ix] Gesammelte Briefe IV, p.478. “Das Verhältnis meiner Arbeit zu Deinem Gedicht möchte ich versuchsweise so fassen: Du gehst vom 'Nichts der Offenbarung' aus (…), von der heilsgeschichtlichen Perspektive des anberaumten Prozessverfahrens. Ich gehe von der kleinen widesinnigen Hoffnung sowie den Kreaturen, denen einerseits diese Hoffnung gilt, in welchen andererseits dieser Widersinn sich spiegelt, aus”. traduzione francese, Sur Kafka, operazione. cit., pag. 126.

[X] Gesammelte Briefe IV, P. 460. Traduzione francese, Sur Kafka, op. cit., p.119/120.

[Xi] “Jeder Satz spricht: deute mich und keiner will es dulden” (Adorno, “Aufzeichnungen zu Kafka”, Scritti raccolti, Suhrkamp, ​​volume 10-I, p. 255. Trad. JMG.

[Xii] Si veda a questo proposito la prefazione di Christophe David e la postfazione di Alexandra Richter nella sua edizione dei testi di Benjamin, Sur Kafka, on. cit.

[Xiii] “In der Tat kann man die Form meiner Arbeit als problematisch empfinden. Aber eine andere gab es für Mich in dem Falle nicht; denn ich wollte mir Brake Hand lassen; non voglio perderlo. Es dürfte auch, geschichtlich gesprochen, noch nicht an der Zeit sein, abzuschließen – am wenigstens dann, wenn man , wie Brecht, Kafka als einen Prophetischen Schriftsteller ansieht. Wie Sie wissen, habe ich das Wort nicht gebraucht, aber es lässt sich viel dafür sagen, e das wird von meiner Seite vielleicht noch geschehen”. W.Benjamin, Gesammelte Briefe, IV, P. 525. Il mio corsivo… (JM G.). Trans. Francese, Sur Kafka, operazione. cit., pag. 142.

[Xiv] nel tuo lavoro Kafka pro e contro 1951.

[Xv] “Se Kafka non ha pregato – cosa che non sappiamo – si è tuttavia appropriato, al massimo grado, di quella che Malebranche chiamava 'la preghiera naturale dell'anima', cioè l'attenzione”, scrive Benjamin nel suo saggio (Sur Kafka, op.cit, p.66, GS IV-2, p. 432).

[Xvi] Citato da Stefano Marchesoni, op. cit., pag. 208, nota 36.

[Xvii] Lettera del 12 giugno 1938 a G. Scholem, Gesammelete Briefe V, P. 112/113: “Kafkas Werk stellt eine Erkrankung der Tradition dar. Man hat die Weisheit gelegentlich als die epische Seite der Wahrheit definieren wollen. Damit ist die Wahrheit als ein Traditionsgut gekennzeichnet; sie ist die Wahrheit in ihrer hagadischen Konsistenz.

Questa consistenza della temperatura è quella che ha causato l'instabilità. Kafka war weitentfernt, der erste zu sein, der sich dieser Tatsache gegenüber sah. Viele hatten sich mit ihr eingerichtet, festhaltend an der Wahrheit oder an dem, was sie jeweils dafür gehalten haben; schweren oder auch leichteren Herzens verzichtleistend auf ihre Tradierbarkeit. Das eigentliche Geniale an Kafka war, dass er etwas ganz neues ausprobiert hat: er gab die Wahrheit preis, um an der Tradierbarkeit. An dem haggadischen Element festzuhalten. Kafkas Dichtungen sind von Hause aus Gleichnisse. Aber das ist ihr Elend und ihre Schönheit, dass sie Leggi als Gleichnisse werden mussten. Sie legen sich der Lehre nicht schlicht zu Füssen wie sich die Hagada der Halacha zu Füssen legt. Wenn sie sich gekuscht haben, heben sie unversehens eine gewichtige Pranke gegen sie. Trans. di Modesto Carone, Quaderni Cebrap

[Xviii] “Nei gesti, in Kafka, la creatura privata delle parole dalle cose. Il gesto apre, come dici tu, alla riflessione profonda o allo studio quando è una preghiera – ma non potrebbe essere inteso, mi sembra, come un 'dispositivo sperimentale'. L’unico elemento di quest’opera che sembra estraneo al materiale è l’integrazione delle categorie del teatro epico”. Lettera di Adorno a Benjamin del 17 dicembre 1934, Adorno/Benjamin, Briefwechsel 1928-1940, Suhrkamp, ​​1994, pag. 94. Trad. Francese, Sur Kafka, op. cit., p.150.

[Xix] Si veda a questo proposito la ricerca di Nelio Conceição, in particolare sulla rivista Itinerario, Milano, 2017, n. 14 e nel volume Concetti estetici/ concetti estetici, Figure concettuali di Frammentazione e Riconfigurazione, Lisbona, 2021.

[Xx] Vedi il testo “Raum für Kostbare”, in Denkbilder, Valter Beniamino, Gesammelte Schriften IV-1, Suhrkamp, ​​1972 pag. 403/404. Non ho una traduzione francese disponibile.

[Xxi] L'espressione critica di Adorno nei confronti del saggio di Benjamin su “Il Narratore” nella sua lettera a Benjamin del 6 settembre 1936, Briefwechsel, Adorno e Benjamin, Suhrkamp, ​​1994, p. 193.

[Xxii] Riporto qui una nota in francese scritta dallo stesso Benjamin e pubblicata nel Scritti francesi di Benjamin, a cura di JM Monnoyer, Gallimard, 1991, dai volumi di Scritti raccolti chez Suhrkamp, ​​pag. 188/89.

[Xxiii] Stesso, P. 188/89.

[Xxiv] Traduzione di Benjamin e Klossovski, W. Benjamin, Gesammelte Schriften I-2, pag. 730.

[Xxv] Al termine della sua lunga lettera a Scholem, citata nella nota 14.

[Xxvi] Gesammelte Briefe IV, op. cit. P. 479. Trad. Francese, Sur Kafka, op. Cit., p.127.

[Xxvii] "eine messianische Anspielung auf eine anarchische Entsetzung des Rechts". Stefano Marchesoni, op. cit., pag. 209.

[Xxviii] Non saltiamo alle conclusioni, perché anche Victor Hugo sembra mettere in atto questa libertà all'inizio Il miserabile, quando il santo vescovo mente ai gendarmi, dichiarando loro di aver consegnato l'argento rubato a Jean Valjean.

[Xxix] "Die Sorge des Hausvaters ist das Mütterliche, das ihn überleben wird”, nelle note scritte per il suo saggio (Gesammelte Schriften II-3, pag 1215).

[Xxx] Sur Kafka, op. cit., pag. 64, Gesammelete Schriften II-2, P. 431.

[Xxxi] Spiegazione dell'autore. [NT]

[Xxxii] Sur Kafka, operazione. cit., pag. 44. Gesammelte Schriften -2, P. 414/415.


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