da CLEBER VINICIUS DO AMARAL FELIPE*
La tecnologia, quando monopolizza la scena, tende a raffreddarci
Con la fine di un anno di pandemia, non sorprende che ci sentiamo impoveriti, abbattuti, svuotati. Tutti coloro che hanno osservato la quarantena e seguito le raccomandazioni sanitarie devono essere stanchi dell'universo virtuale, con tutte le sue battute d'arresto e gli (mis)incontri spettrali. Dopo averci fornito un importante servizio avvicinando gli individui confinati, è tempo di far progressivamente retrocedere la tecnologia, poiché occorre raffreddare l'indifferenza causata da proiezioni di pixel, voci adulterate da meccanismi acustici, profili statici che nascondono individui. Per superare le barriere geografiche è stato necessario affievolire la qualità degli incontri, sacrificare il calore umano e ricorrere al freddo calcolo degli artifici e delle tecniche. Questo superamento dei limiti, un modo di sfogare un sé che rimane accomodato in una poltrona, facendo proliferare immagini e rumori, rimanda a una logica più longeva, su cui vale la pena spendere qualche parola.
Lo slancio pionieristico, amplificato durante il secolo delle grandi navigazioni, si intravede nella figura possente e colossale del gigante Adamastor, reso eterno nei versi epici di Luís de Camões. Attraversare il Capo delle Tempeste e, con ciò, inaugurare la Carriera delle Indie, ha forse un valore proporzionale al superamento delle colonne d'Ercole, limite tra il Mediterraneo e l'Oceano Atlantico. Quando, nel canto XXVI dell'Inferno, Dante Alighieri rappresentò le gesta e la morte di Ulisse, colpito a morte dopo aver navigato il mare tenebrarum, ha certamente cercato di legittimare un modello di comportamento basato sulla moderazione, la moderazione, la prudenza, predicati che guidavano le antiche filosofie greco-romane e scolastiche sulla virtù. La navigazione dei mari e la spinta espansionistica del XVI secolo fornirono un nuovo modello di azione, caratterizzato da forze centrifughe. Con tale mutamento si evidenzia la necessità di scalare e colonizzare nuovi spazi, per risolvere vecchi limiti.
Nel secolo scorso, con il processo di mappatura del pianeta in fase avanzata, sono stati fatti investimenti in iniziative più lontane: il progetto sovietico Sputnik, avviato nel 1957, ha lanciato una tecnologia in grado di catturare Gaia a distanza dall'atmosfera. In altre parole, la terra ha allungato il suo lungo braccio per prendere a selfie, catturandone la crosta fessurata, i contorni asimmetrici, la distribuzione irregolare. Niente superfici piatte o precipizi che ne chiudano i bordi, come vorrebbero alcuni pseudoscienziati con lauree contraffatte. Se inizialmente i satelliti hanno reso possibili progetti di tale portata, subito dopo sono stati in grado di registrare (e persino anticipare) cambiamenti climatici, andamenti meteorologici, catastrofi.
Recentemente ci siamo trovati di fronte a un panorama desolante: animali ridotti in cenere, la bellezza naturale di foreste e paludi in rovina, un grande dispendio di gas carbonico, un grande attentato alla vita e un evidente culto della morte. I satelliti sono stati in grado di catturare il suddetto potenziale distruttivo degli incendi, contrassegnando le aree più colpite con macchie scarlatte che indicano l'entità del disastro. La tecnica, comunemente usata per accelerare i danni, era e continua a poterli misurare, trasformarli in statistiche, in dati che si possono schematizzare in un grafico. È molto più semplice negare che il collasso ambientale sia forse giunto a un punto irreversibile, poiché assumere una posizione opposta significherebbe ammettere che è urgente prendere provvedimenti, e per ieri. È anche più opportuno negare o sminuire il potenziale distruttivo e le morti causate dalla pandemia, come hanno fatto i revisionisti in relazione alle camere a gas utilizzate durante il genocidio nazista. Altrimenti bisognerebbe prendere seriamente in considerazione l'adesione alla quarantena, con tutte le difficoltà che comporta, che sono innumerevoli e diverse.
È preferibile e comodo immaginare che la natura assicuri l'equilibrio ambientale e che sia qui al servizio degli scopi dell'uomo. È tempo di abbandonare i (s)percorsi delle semplici risposte e considerare che il mantenimento della negligenza si traduce in ostacoli fatali, come nel caso del COVID-19. Se Madre Terra potesse protestare, potrebbe dire: “I tubi metallici hanno perforato la mia carnagione, i rifiuti tossici avvelenano il mio corpo, le macchine hanno prosciugato il mio sangue; Io, che un tempo sperperavo colori e vitalità, ora non sono altro che un ridotto di rifiuti; l'esuberanza è diventata opaca e grigia; dall'abbondanza rimanevano porzioni di miseria. ho allevato bambini che, insaziabili, hanno deciso di farmi morire di fame; succhiare la vita e distribuire la morte. La mia prole non si accontentò di essere accolta nel mio seno e decise di aumentare i profitti eliminando i fratelli; la fauna terrestre ha perso spazio a complessi industriali che distruggono l'ozono, facilitano gli incendi e aumentano il calore. All'inizio ho sofferto e pianto, ma stavo aspettando la manifestazione di un potenziale umano apparentemente dormiente; Di tanto in tanto sfogo la mia rabbia, spargendo un grido torrenziale che inonda e fulmina. Ma devo ammettere che sono stato superato dai bambini, come è comune nelle varie cosmogonie. I miei carnefici erano e continuano ad essere implacabili”. Scusate la prosopopea, è difficile riferirsi al sublime, nella sua abietta sfaccettatura, senza l'ausilio di alcune figure retoriche.
L'impeto pionieristico, succeduto dal capitalismo selvaggio, dall'esplorazione eccessiva della natura, dalla corsa allo spazio, ha oggi raggiunto una dimensione senza precedenti: il teletrasporto, un tempo accarezzato dalla finzione, si è concretizzato, ma proietta lo spettro e mantiene inerte la carne impoverita; hanno inventato la scienza e hanno deciso di sostituirla con l'opinione, distribuita a casaccio attraverso canali virtuali; la tecnologia che velocizza la circolazione delle merci e delle persone ha anche amplificato la diffusione del virus che ci affligge. Non si tratta solo di ammettere la caratteristica paradossale della tecnica, ma di ritrarre il paradosso dell'uomo, che impoverisce l'habitat presumendo che, con questo, migliori la qualità della sua vita; deprezza l'istruzione pur affermando di essere detentore della conoscenza, censura i diritti umani di esercitare la loro libertà di espressione; rivendica un intervento autoritario per affermare il proprio ruolo democratico; nega il virus in circolazione e abbandona i protocolli di sicurezza per superare la crisi; disprezza il vaccino supponendolo contagioso. Come dicevo, lo slancio centrifugo arriva sull'orlo dell'incoerenza, perché, per continuare a rompere i confini, l'individuo si è sbarazzato del prossimo assumendosi autosufficiente, ha fatto poco della vita sfidando la morte, ha sacrificato la terra dei suoi avi e ha rinnegato i suoi discendenti chiamandosi padrone del mondo virtuale, che lacera l'empatia ed esclude il controverso per alimentare una coerenza illusoria e narcisistica.
La diagnosi sembra calamitosa, ma restano tracce che custodiscono: a valorizzare lo scenario virtuale, c'è il felino che sfila petulante davanti al monitor; il cane che graffia la porta per entrare nella stanza che è diventata un ufficio; i bambini che promuovono racchetta e spettacoli in mondi immaginari. C'è calore affettivo in ciò che ci circonda, ma la tecnologia, quando monopolizza la scena, tende a raffreddarci. Dobbiamo affrontare l'isolamento sociale per, domani, dare grande valore agli affetti. La tecnica non riproduce tali espedienti, ed essi passano, finiscono, scompaiono, cancellati dal disco rigido dell'esistenza. Se hai bisogno di trovare rifugio dalla noia, lascia che sia nel calore di un abbraccio o nelle pagine di un buon libro, anche questo capace di suscitare sentimenti, affetto e sorrisi. La tecnologia è utile, ma la diffusione di spettri virtuali non ha bisogno di soppiantare la trama di personaggi fittizi o le proiezioni di un “noi”. È necessario concentrarsi sugli incontri futuri per giustificare l'attuale essere-solo-per-l'altro.
* Cleber Vinicius do Amaral Felipe È professore all'Istituto di storia dell'UFU.