estetica della resistenza

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da ARLENICE ALMEIDA DA SILVA*

Estratto, selezionato dall'autore, dal libro di recente pubblicazione

Laurence Sterne: romanticismo e ironia

Il saggio "Ricchezza, caos e forma: un dialogo su Laurence Sterne" è uno dei più elaborati e complessi del libro. L'anima e le forme, di György Lukács. Scritto nel 1909, come ultimo saggio, chiudeva con una nota ironica la raccolta ungherese. È, a mio avviso, la chiusura più interessante concludere diversamente L'anima e le forme, almeno riflessione su forme epiche o oggettive. In questo saggio si tratta di riflettere sul posto dell'ironia nelle moderne forme epiche, in particolare nel romanzo.

A tal fine, Lukács emula il formato tradizionale del dialogo filosofico, esponendo un duello verbale su Sterne tra due studenti di filologia, Vincenz e Joachim. L'esercizio fa riferimento al genere del dialogo filosofico, largamente diffuso nel XVIII secolo; in particolare coloro che si confrontano con tipi caratteriali o psicologici: da un lato l'uomo bonario; dall'altra l'uomo serio, dogmatico, dai “tratti duri”. Appartiene specificamente al lignaggio di parlare di poesia (1800), di Friedrich Schlegel, pubblicato sulla rivista Ateneo.

In primo luogo, lo scontro è intervallato dalle osservazioni del narratore sulle circostanze della disputa e sugli stati d'animo dei dibattenti, circondando una scena all'interno della quale un particolare Umore. Sicché, nel saggio su Sterne, il Umore è presente sia nel contenuto che nella forma: la descrizione dell'intimità della stanza in cui si svolgerà la conversazione, degli arredi e dei quadri, dei gesti e degli sguardi, delle indecisioni e delle paure fa di questo saggio un delicato esercizio critico sulle possibilità contemporanee di Umore. Il narratore, per così dire, cuce il dialogo con un tenue “filo rosso”, in cui i dati della soggettività si mescolano alla descrizione oggettiva del dibattito; sembra, quindi, riferirsi non al dibattito in sé, ma alla vita stessa, cioè all'esperienza (Esperienza), che si manifesta nella disputa tra i ragazzi per la ragazza – “di sconcertante bellezza” –, che partecipa discretamente al dibattito. Di nuovo la donna è presente, di nuovo senza nome e quasi senza voce; tuttavia, in questo saggio, è l'unica esigenza intrinseca del dialogo.

In secondo luogo, circoscrivendo un campo fittizio per il dibattito filosofico, il narratore occupa la posizione di un osservatore imparziale. Quindi, ironia della sorte, intende essere equo nei confronti di tutte le parti in causa. La disputa inizia chiaramente con la ragazza, cioè con la vita; tuttavia, il dialogo lo abbandona rapidamente, concentrandosi non sulla vita empirica, ma su ciò che merita di essere vissuto, con tutta la sua ricchezza, cioè in forma artistica. In questo modo Lukács pone il lettore/spettatore direttamente nella fessura tra arte e vita, nella quale rimarrà fino alla fine, pur sollecitando l'attenzione su un piano “superiore”, quello delle domande su arte e bellezza, chiedendosi se il le forme sentimentali riscontrate in Laurence Sterne possono essere giudicate belle. Per questo il dialogo si trasforma immediatamente in critica letteraria o letteratura comparata, basata sulla provocazione di Joachim che è impossibile amare Sterne e Goethe allo stesso tempo.

Il dialogo poi procede sulla base dell'argomentazione di Goethe dall'autorità,[I] che chiamò dilettante ogni poeta che non sa articolare tecnica e fantasia; anche se, nel seguito, Goethe esce di scena – e rimane una presenza latente – e il saggio si sofferma su Sterne e sull'irriverenza testuale di Tristram shandy, matrice letteraria dell'ironia romantica e dell'arte moderna. Lo scontro è ritardato anche da domande preliminari, secondo l'antica tradizione, su verità e menzogna, contraddizioni, giudizi e criteri di verità, indicando al lettore le serie ed alte pretese degli interlocutori.

Avvicinando il dibattito estetico sul romanzo, alla fine del XVIII secolo, ai temi del formalismo alla fine del XIX secolo, Lukács recupera le discussioni teoriche culminate nella trattazione del romanzo come un genere moderno serio ed esemplare . Il giovane filosofo individua correttamente, in Sterne, la svolta nello statuto del romanzo e, nella stilizzazione della materia, divenuta molteplice e in costante mutamento – la cosiddetta ricchezza della vita –, la grande difficoltà moderna di il romanzo nel configurare un'epopea di totalità. Così che, nel “Dialogo”, risuonano importanti interrogativi posti al genere nel Settecento: la forma del romanzo mutò perché affrontava la proliferazione o la varietà (Mannigfaltigkeit) di oggetti, nei termini di Moritz, costretti a rinunciare all'unità e all'equilibrio? Oppure ha cambiato valore, come voleva Solger, la dimensione soggettiva della narrazione, l'enfasi data all'interiorizzazione? O, ancora, corrispondere all'infinita progressione dello spirito, come pensava Schlegel, il cui corso è sempre un'infinita approssimazione, mai compiuta, cosicché il frammento ne è il linguaggio provvisorio e inevitabile?

Vincenz contrattacca, poi, sostenendo che Sterne non era un dilettante e che i suoi romanzi immediatamente legati alla vita avrebbero influenzato positivamente Goethe, in quanto «non si tratta, in Sterne, di sistemi, ma di realtà (Wirklichkeiten) sempre nuovo, mai ripetuto. Di realtà in cui ciò che segue non è una continuazione di ciò che è venuto prima, ma è qualcosa di nuovo, di quello che non si può prevedere, che non ha nulla a che fare con la teoria, con il 'pensarci'”.[Ii]

Per Vincenz, l'opera di Sterne conferma il trionfo del romanzo come genere moderno, poiché contiene profondità, colore e ricchezza vitale, motivo per cui Sterne è stato chiamato da Heine il fratello di Shakespeare; non c'è fallimento formale nell'opera di Sterne, né rottura radicale, poiché il trattamento della materia nel romanzo continua a configurare un'unità, che non è né puro empirismo né disorganizzazione narrativa: l'autore sa quello che fa, ha un metodo attraverso il quale traccia un cerchio attorno alle molteplici relazioni e pienezza tra gli uomini, senza “brutalizzare i fatti”, senza allontanarsi dalla vita reale (di rose) in nome di una vita a priori; conferma la superiorità della poesia e l'impotenza di ogni teoria di fronte alla molteplicità della realtà.

Non si tratta dunque di vedere nelle divagazioni dello scrittore irlandese una crisi della narrazione o l'impossibilità della forma, sottolinea Vincenz, poiché Sterne è inscritto nella tradizione di Cervantes; questa tradizione adotta un metodo compositivo, “una concezione dell'equilibrio”, attraverso il quale il suo lavoro mira a produrre uno specifico effetto sul lettore, che è quello di Umore, come sintetizza Vincenz: l'autore descrive “un fatto e intorno ad esso un disordinato sciame di associazioni da esso suscitate. Appare un uomo, dice qualcosa, fa un gesto o semplicemente ne sentiamo il nome, poi scompare in una nuvola di immagini, idee e stati d'animo (Stati d'animo) generato con il suo aspetto”.[Iii]

Dal punto di vista della tecnica narrativa, Lukács fa la provocazione, attraverso la voce di Joachim, che Sterne non sarebbe poi così innovativo, perché, cercando di far vedere al lettore questa ricchezza del mondo, ripeterebbe una tecnica arcaica , che prevaleva nel teatro elisabettiano , per cui i personaggi erano fissati, come tipi, in modo che tra loro oscillasse un'infinita varietà di relazioni; ora, poiché i personaggi sono fissi e non interagiscono, sarebbero solo tipi arcaici e allegorici, che si manifestano attraverso epigrammi o maschere. Vincenz, infatti, riconosce che i fratelli Shandy non interagiscono, come Chisciotte e Sancio Panza: “si parlano, ma non tra loro”, per cui le parole sono giochi di parole, sempre allusive e capaci di comunicare solo un'esperienza per chi l'ha vissuta. In questo mondo predominano le incomprensioni reciproche, oltre al caso, all'inadeguatezza e alla relatività; per questo, ribatte Vincenz, appunto, questa vita è quella vera.

L'argomentazione di Vincenz aggiunge anche, con brillantezza e convinzione, che l'unità creata da Sterne esalta ulteriormente la struttura mostrata in Cervantes: essa nasce dal gioco infinito del poeta con le cose e non dal carattere fisso dei personaggi; giocando, il poeta dissipa i limiti e le frontiere tra le cose, mette a ritmo la molteplicità della vita, operando la “ritmizzazione di ciò che c'è da dire”. La tecnica di Sterne mette così in luce ciò che costituisce l'essenza della forma stessa del romanzo, antica e moderna insieme, cioè quel gioco infinito che è, in definitiva, il fondamento della difesa dell'autonomia del romanzo.

La nozione di gioco rimanda il “Dialogo” direttamente a Friedrich Schlegel e alla sua “teoria del romanzo”, secondo la quale l'opera di Sterne è riconosciuta come romantica, non come moderna; inserito nel ceppo della poesia “romantica”, storia in cui opera la categoria dell'arabesco, inteso come “gioco pittorico” o “confusione ordinata come arte”. quindi, il Conversa Il "Dialogo" di Schlegel e Lukács convergono sullo stesso punto di vista della filosofia della storia, poiché entrambi cercano di esaminare se l'opera di Sterne e romanzi simili segnalino un declino della poesia, come "pasticci colorati di arguzia malata",[Iv] o se fossero autentiche opere d'arte, le "uniche produzioni romantiche della nostra epoca non romantica"[V].

Se il problema per Schlegel era sapere fino a che punto “il contenuto sentimentale presentato in una forma di fantasia” o “l'abbondanza di arguzia, purificata da ogni contagio sentimentale” annunciasse in Sterne il rinnovamento della poesia, “questo genererebbe il caos nel mondo dei cavalieri erranti” di Cervantes, nel “Dialogo” di Lukács, il discorso si concentra sulla struttura interna dell’opera di Sterne per capire se, stilizzando la materia, molteplice e varia, la forma finisca in dissonanza o in un disegno le cui linee serpeggiano un'armonia o una leggerezza, denunciando un po' di colore. Ancora di più: Lukács esamina cosa significhi affermare, nei termini di Schlegel, che il “romanzo è un libro romantico”, diverso dall'epopea antica[Vi] e di opere moderne, non un genere epico moderno.

Se, da un lato, i due interlocutori concordano che la forma di Sterne esemplifica l'arabesco, il cui elemento strutturante è il contrasto di elementi, unito a divagazioni e interruzioni, Joachim, invece, operando con le categorie di Schlegel, afferma che, a differenza di Jean-Paul, l'arabesco in Sterne fallisce in una “dissonanza del materiale”. Vincenz con entusiasmo, citando anche Schlegel, sostiene il contrario: se c'è dissonanza e non unità tra le parti, è perché il romanzo nel suo insieme è solo concentrazione (compressione) in sé, “un arrangiamento ritmico (Ritmizzazione), che viene vissuta in modo indipendente”[Vii]. "Perché la forma qui non è il risultato di una coesione interna, come nelle altre opere, ma l'offuscamento dei suoi confini nella nebbia della distanza, come la costa del mare all'orizzonte."[Viii].

In Sterne l'opera non mostra limiti o connessioni: espone infinite avventure. Ciò significa che Sterne crea un'altra unità formale, “un'unità nel tutto, ma senza allo stesso tempo sentire ciò che in esso si sta disintegrando”.[Ix] L'“unità” dell'opera risulta, quindi, da un incrocio casuale, in cui le cose restano vicine nello spazio. “Unità significa stare insieme, e stare insieme (Beisammensen) è qui l'unico criterio di verità; sopra il suo verdetto non esiste altra istanza.[X]

Come si vede, l'uso del romanticismo da parte di Lukács è sempre controverso, cioè è un'appropriazione interpretativa che rende disponibile l'argomento a nuovi approcci, non è mai una mera reiterazione di idee e procedimenti. Per questo il “Dialogo” procede sempre confrontando i pensieri: l'idea del gioco, ad esempio, rimanda a Kant, al romanticismo e, nello specifico, al concetto di ironia romantica, che domina, da allora in poi, il centro della il dialogo. L'ironia in Sterne si caratterizza come romantica, meno nel senso di autolimitazione, di “andare oltre se stessi” o di commento critico, e più come infinita autocreazione, nel senso di illimitata soggettività, nei termini del frammento di Schlegel 116 , già che il “poeta non tollera legge al di sopra di lui”; presupposto presentato dal critico Kerr, la cui origine si può collocare anche nella figura del genio kantiano, che è “un talento per produrre ciò per cui non si può dare una regola determinata”[Xi].

Ora, il gioco come forza creatrice che sospende le leggi della comprensione non è una conoscenza del limitato, ma dell'illimitato, che porta il saggio di Lukács al cuore del tema del disinteresse estetico, la cui matrice è tedesca, prima con Moritz e poi con Kant, Schiller e altri. Si riferisce soprattutto a Fichte, per il quale l'impulso estetico è “quello che non mira a nulla di esterno all'uomo, non mira alla conoscenza degli oggetti, come l'impulso pratico, ma vuole trasformare le cose ovunque all'infinito”; quindi, il senso estetico si sviluppa, dice Fichte, “una volta che il desiderio di conoscenza è stato placato e la spinta alla conoscenza soddisfatta”.[Xii]

Di più: al di là della questione dell'originalità del genio, Lukács associa l'ironia romantica alla sfera della natura, all'io, nel senso fichtiano del potere di creare il mondo, o spirito invisibile che anima tutta l'arte; o, ancora, all'attività pura che è forza infinita di autocreazione, in cui l'io come “unico datore di vita” gioca con tutto, destabilizza concetti, crea immagini che illuminano il mondo, immagini che acquistano autonomia e sé -sufficienza e che si estendono a tutta la realtà attuale. In modo tale che l'ironia, per Vincenz, come libertà assoluta di giocare, esibisce una dimensione etica: è “concezione del mondo (Weltanschauung), una forma immediata di rivelazione della vita (Lebensoffenbarung) e un modo di sentire ed esprimere il mondo”[Xiii]. “Poter giocare è la vera sovranità”,[Xiv] che è l'immagine più autentica della vita, poiché ciò che conta qui non sono le qualità delle cose morte, ma l'accordo della forma con il nostro spirito. In questo modo, la forma è l'elevazione dei sentimenti dell'io a un significato autonomo, a una "immagine speculare" (Immagine riflessa) del mondo, attraverso il quale è simbolo dell'infinito.

Ora, come interpreta il giovane Lukács questa alta pretesa etica dell'ironia, le cui radici trova nel romanticismo e non solo? Se gli antagonisti concordano sul fatto che solo la soggettività del poeta è in realtà in grado di comunicare contenuti vitali, Joachim non è d'accordo, invece, che si possa postulare una soggettività illimitata, o spirito estetico, inteso in termini fichtiani, come soggettività illimitata. In questa pretesa risiederebbero, allora, le contraddizioni intrinseche alla suggestione del Sé come specchio dell'assoluto, come superficie di riflessi, rispecchiamenti e distorsioni, nei termini del frammento 116 di Schlegel.

Solo l'anima, sostiene Lukács, intesa come soggettività integrale, può creare un mondo, poiché conosce i limiti posti dal mondo. Lukács opera, quindi, con la nozione idealistico-romantica di gioco ludico, sia che il gioco sia inteso come azione reciproca tra comprensione e immaginazione in Kant, o tra impulso formale e impulso sensibile in Schiller, per dimostrare gli impasse dell'ironia romantica sia in la pretesa del poeta di costituirsi in una soggettività autentica basata sull'instabilità del sensibile come nella pretesa di costituire una comunità di sentimenti basata sul potere di elevarsi al di là di ogni condizionamento o nella piena infinità e indeterminazione. Come è possibile, ci si chiede, che dalla mera instabilità scaturisca una pienezza del Sé? E quella pienezza è il potere di creare oggetti, per poi abbandonarli o distruggerli, secondo la tua volontà?

Pur riconoscendo la complessità dell'opera di Sterne e come separi l'ordine delle sensazioni dall'ordine dei sentimenti, il gioco ludico che l'opera stimola nel lettore è, per Lukács, irrisorio, perché queste "insipide confessioni"[Xv] o “finge”, nel linguaggio severo di Schiller, non convincono, poiché “si gioca con le cose, ma si resta noi stessi, e le cose restano quelle che erano”[Xvi]. Preservando l'idea estetica del gioco – non un'idea qualsiasi di gioco, ma l'idea schilleriana di un gioco ludico come armonia delle facoltà, rispetto alla bellezza –, Lukács suggerisce che l'opera di Sterne mobiliti solo in parte il facoltà, rendendo impraticabile la possibilità del gioco, poiché la capacità formale è, nel caso di Sterne, parzialmente attivata, predomina solo la pulsione sensitiva; per questo, citando un'immagine di Nietzsche, Sterne manca di tatto e sensibilità per ciò che è veramente importante: “L'esperienza nasce dal mero gusto dell'esperienza, osserva solo per il gusto di osservare”[Xvii].

La vita appare solo nel suo disordine come caos, in “forma grezza, empiricamente, a riposo, immutabile, senza movimento”[Xviii]. Tutti i sentimenti sono esposti, senza arguzia, come sentimentalismo, negli stessi termini della critica di Friedrich Schlegel[Xix]. Quindi, dice Lukács, le opere di Sterne sono senza forma, inorganiche e frammentate; non ci sono scelte in loro, poiché non è una questione di valore; quindi sono incompiuti, estendibili all'infinito. Contro lo spirito del genio creativo fichtiano[Xx] e anche contro il progetto romantico di una poesia universale progressista, Lukács è incisivo: non c'è forma infinita, ogni forma è delimitazione, scelta, ordinamento della molteplicità. E senza forma non c'è bellezza.

Non sarebbe venuto in mente a Lukács che Sterne sarebbe stato più vicino al sublime e non al bello? Dopotutto, questo antiromanzo o metaromanzo, con il suo flusso verbale discontinuo, la sua curiosità enciclopedica e il suo vagabondaggio picaresco, indica l'informe e l'incommensurabile; un'incompiutezza che ha costretto il romanzo a uscire dai suoi limiti e dalle sue regole. Lukács lo sa, e per questo usa, ripetutamente, attraverso la voce di Vincenz, termini come intensificazione e molteplicità, e parla direttamente di “sublime” per definire la forma – come quando, citando Nietzsche, afferma: “La forma è l'intensificazione dai sentimenti fondamentali, vissuti con la massima forza, fino a raggiungere un significato autonomo. Non esiste forma che non sia riconducibile a questi sentimenti fondamentali, primitivamente sublimi e semplici”.[Xxi]

Ora, dunque, se questo non è un lapsus o una dimenticanza, ci resta da renderci conto che il sublime è consapevolmente rifiutato da Lukács: egli sa che la materia del romanzo è il sensibile e che la disposizione sublime è il sentimento che scaturisce dalla “dipartita dal mondo”. sensibile”.[Xxii] Se è così, allora si può dire che Lukács prende volutamente le distanze dall'opposizione tra il bello e il sublime, in chiave settecentesca, difendendo una disposizione verso la forma che non è né un ordinamento del sensibile, secondo un unità di conoscenza, né rifiuto della connessione tra le cose, in nome dell'indipendenza morale, come nel sublime, ma comprensione della forma come nuova convivenza del sensibile; cioè come creazione di un'unità sensibile, che indica un'omogeneità che è un valore.

È per questo che Lukács intensifica la critica rivolta all'estetica romantico-idealista, quando afferma, come Nietzsche e Kierkegaard, che la soggettività che guarda solo a se stessa è un ostacolo in cui si perde la propria soggettività. Così, se la forma novella non è né semplicemente bella né semplicemente sublime, è perché la forza del configurare proietta dall'anima qualcosa al di fuori di sé e che, tuttavia, rivela la sua più intima volontà. Dai due poli della critica deriva la formulazione che l'opera d'arte è etica quando la forma indica un ideale esterno al Sé; una creazione interna, certo, ma non molto lontana dalle cose, poiché non si dissolvono in impressioni soggettive, in Stimmung. In questo caso il romanzo può ancora puntare alla vera totalità epica, che si chiude come simbolo del mondo (sinnbild). Ora, senza la disposizione per la forma, il gioco tra impulso formale e impulso sensibile finisce nella frivolezza e il genio è un “semplice dilettante di sentimenti”.[Xxiii]

Con ciò, il dialogo procede spostando il tema dell'ironia sul tema della forma come valore, che traspone il rapporto tra estetica ed etica, come pensiero al centro del romanticismo, al dibattito filosofico di Heidelberg, contemporaneo di Lukács, tra i due principali correnti di fine Ottocento: da un lato, il Filosofia di vitae, dall'altro, il neokantismo e la sua dottrina del valore. In questo salto storico acquista chiarezza l'opposizione del “Dialogo”. Per Vincenz, che adotta un certo biologismo diltheyiano, ciò che ha valore è la vita stessa, e in essa predomina questa esperienza immediata del Sé, chiamata soggettivismo; quindi, il romanzo è un'apertura al mondo e un percorso di arricchimento nella vita, così che la ricchezza è vista come infinito, libertà del Sé e, in questo senso, l'etica è pensata come questa capacità di creare dalla ricchezza della vita . D'altra parte in essa si dissolvono tutte le differenze, non c'è gerarchia tra grande e piccolo, leggero e pesante, lungo e corto, materia e qualità. È un'intensa affermazione della vita e dei suoi momenti, un'etica dei momenti, in cui ognuno è vissuto come Esperienza, come esperienza vissuta dall'io, in termini di Filosofia lebens.

Per Gioacchino, in chiave neokantiana, «l'anima può essere completa e quindi ricca solo là dove il caos e la conformità alla legge, la vita e l'astrazione, l'uomo e il destino, gli stati dell'anima coesistono con uguale intensità (Umore) ed etica”[Xxiv]. Per quest'anima la forma non si riduce all'arabesco, con i suoi “pasticci colorati, farse e confessioni”[Xxv], ma significa la capacità di produrre un valore: “La vera ricchezza consiste solo nel saper valorizzare, e la vera forza, solo nel potere di scelta, nella parte dell'anima liberata dagli stati d'animo (Umore) episodico: in etica. Cioè nel poter determinare dei punti fermi per la vita. E questa forza crea sovranamente le differenze tra le cose, crea la loro gerarchia [...]. L'etica o forma nell'arte è l'ideale esteriore di sé in ogni istante e in ogni stato d'animo”.[Xxvi]

Questi contrasti indicano come il problema del valore si presenti in diversi saggi di AeF articolati con la nozione di gioco ironico, preparando il denso approccio speculativo che esamineremo nella seconda parte, nei manoscritti di filosofia dell'arte e estetica di Heidelberg. In ogni caso, il saggio sul romanzo di Sterne recupera ciò che sostenevano i romantici, e cioè che l'arte appartiene a una specifica sfera di valori, diversa da quella logica, religiosa o addirittura etica. Per Lukács, invece, l'autonomia nasce dal gioco inteso, allo stesso tempo, come approssimazione e distanza dalla realtà vissuta; l'arte è quindi un bene culturale che ha un “valore proprio”, nei termini di Rickert: produce un valore mediato, una materia trasformata, un valore trascendente.[Xxvii]

Lukács, è bene ricordarlo, concorda con i neokantiani di Heidelberg che il valore è qualcosa di non vissuto, una sfera di non realtà, il che non significa, per lui, che il valore sia un a priori astratto. Seguendo il suggerimento di Rickert che l'arte, come intuizione, è il valore più vicino alla vita, Lukács cercherà di dimostrare come il valore nasca dall'impulso estetico che è dell'ordine dell'esperienza vissuta, dell'efficacia (Erlebniswirklichkeit), inteso come desiderio di unità, di purificazione, o espressione di una qualità di vita; ogni opera, dice, esprime la ricerca del soggetto di un oggetto adatto alla pura esperienza. La sua specificità come bene culturale risiede nel fatto che il valore si pone solo nell'opera, nel processo della sua realizzazione, in quanto sensibile e nella relazione con il fruitore: l'opera è realizzazione di valore, non rappresentazione di valore. L'opera stabilisce così qualcosa di qualitativamente diverso: è un principio di differenziazione; quindi ogni valore è unico, una novità. In questo senso la forma è autonoma, generata dalla materia e dall'artista che, attraverso di essa, ordina il caos, produce senso, crea valore.

Se il valore non è né nel soggetto creatore né nel destinatario, ma nell'opera, si comprende l'importanza, per il giovane Lukács, dell'approccio neokantiano di Rickert, che spostava la questione del valore sul tema della validità del valore : il valore non è; vale solo davanti allo spettatore che prende posizione davanti a un valore. Come una validità in sé (geltung-an-sich), è un momento pratico di valutazione, di apprezzamento.[Xxviii] Di qui l'importanza della fine del dialogo, quando Vincenz riprende la lettura e, rivolto alla ragazza, riconosce il sentimentalismo di Sterne, mettendo via il libro.

La conclusione del dialogo, se non aporetica, è almeno ironica: dopo che il narratore ha dato credito ai due interlocutori, si instaura un clima di incomunicabilità e di incomprensione. Pur riconoscendo che Sterne non è bella, e che forse proprio lì non c'è forma, Vincenz sente di aver perso il confronto, ma alla fine resta con la ragazza, rimanendo nella vita. Gioacchino, apparentemente vincitore del duello, riceve in premio il doppio fallimento di perdere l'amore della ragazza e, di conseguenza, la vita, e di doversi rifugiare nelle forme. Come se Lukács cercasse di correggere l'eccessivo idealismo del saggio su Philippe con l'inconsolabile tristezza di Joachim.

Rileggendo il programma del romanticismo attraverso la lente della fine dell'Ottocento, Lukács, da grande ironista, pone in questo incrocio il problema delle forme epiche e, soprattutto, del romanzo (Kreuzweg): all'interno di questo percorso accidentato, confronta posizioni, trova parallelismi, senza assumere una conclusione univoca – anche se il saggio suggerisce, tra le righe, contro Schlegel, che Sterne è moderno e non romantico: Tristram shandy non preannuncia il risveglio dello spirito romantico, che Schlegel idealizzava per il programma della poesia universale che sarebbe anche, dialetticamente, il superamento di Sterne.

Se Sterne è moderno, resta da vedere cosa significa e perché non può essere superato, né può il programma per una poesia universale progressiva realizzarsi nel presente come luogo di barbarie. Così che le impasse della forma, in Sterne, affermano che il problema estetico del romanzo moderno non può essere compreso da categorie romantiche come l'arabesco. Resta, allora, da dove è arrivato questo saggio, dalla presa di coscienza che il problema della forma romanzo è quello della soggettività moderna, che è diventata un ostacolo (ostacolo) per sé, perdendo l'immanenza al mondo, cioè in termini di Ateoria del romanticismo.

* Arlenice Almeida da Silva è professore di estetica nel dipartimento di filosofia dell'Università Federale di São Paulo (Unifesp).

Riferimento


Arlenice Almeida da Silva. Estetica della resistenza. L'autonomia dell'arte nel giovane Lukács. San Paolo. Boitempo, 2021, 400 pagine. [https://amzn.to/3OsGRWg]

note:


[I] Ivi, p. 187; Johann Wolfgang von Goethe, “Fehler der Dilettanten: Phantasie und Technik unmittelbar verbinden zu wollen”, in massime e riflessioni (Monaco di Baviera, CH Beck, 1999), pag. 481 [ed. Ing.: “Voler articolare fantasia e tecnica senza mediazioni”, in massime e riflessioni, trad. Afonso Teixeira da Mota, Lisbona, Guimarães, 2001, p. 215].

[Ii] György Lukács, L'anima e le forme, cit., pag. 190.

[Iii] Ibidem, pag. 196.

[Iv] Friedrich Schlegel, Conversazione sulla poesia e altri frammenti (trad. Victor-Pierre Stirnimann, San Paolo, Iluminuras, 1994), p. 61.

[V] Ibidem, pag. 62.

[Vi] Ivi, p. 66. Vale la pena sottolineare che Schlegel pensa al romanzo attraverso una nozione più ampia, che rimanda a una letteratura post-antica, articolata in tre fasi. Il primo si intitolerebbe Primo Romanticismo, in un arco che va da Dante a Cervantes e Shakespeare. La seconda fase sarebbe quella del Seicento, del classicismo francese e inglese, considerato un periodo di decadenza dell'arte. E la terza sarebbe la futura promessa di un revival dello spirito della prima fase, con Goethe. Cfr. Alain Muzelle, “Arabesque et roman dans l'oeuvre de Friedrich Schlegel”, Società et sul Mercato, n. 10, 2000, pag. 20-66. Così si legge nel “Discorso sulla mitologia”: “Qui trovo molta somiglianza con quel grande spirito della poesia romantica, che non si manifesta in scorci isolati ma nella costruzione dell'insieme […]. Perché questa confusione artificialmente disordinata, questa eccitante simmetria di contraddizioni, questo meraviglioso eterno gioco di entusiasmi e ironie, vivo anche nei migliori segmenti dell'insieme, mi sembra già una mitologia indiretta. L'organizzazione è la stessa, e l'arabesco è certamente la forma più antica e originale della fantasia umana. Friedrich Schlegel, Conversazione sulla poesia e altri frammenti, cit., pag. 55.

[Vii] György Lukács, L'anima e le forme, cit., pag. 207.

[Viii] Ibidem, pag. 208.

[Ix] Ibidem, pag. 199.

[X] Ibidem, pag. 190.

[Xi] Kant, 1993, §46, p. 153.

[Xii] Johann Gottlieb Fichte, Dello spirito e della lettera in filosofia (trad. Ulisses Razzante Vaccari, San Paolo, Humanitas/Imprensa Oficial, 2014), p. 142.

[Xiii] György Lukács, L'anima e le forme, cit., pag. 202.

[Xiv] Ibidem, pag. 199.

[Xv] Il termine confessione segue da Schlegel che, nella “Lettera sul romanzo”, lo usa nel senso di “una visione spirituale dell'oggetto, con tutto il cuore serena e gioiosa; poiché è nella gioia serena che è opportuno contemplare l'importante gioco delle immagini divine. […] Veri arabeschi, e accompagnati da confessioni, unici prodotti romantici della natura nel nostro tempo”. Friedrich Schlegel, Conversazione sulla poesia e altri frammenti, cit., pag. 68.

[Xvi] György Lukács, L'anima e le forme, cit., pag. 199.

[Xvii] Ibidem, pag. 206.

[Xviii] Ibidem, pag. 213.

[Xix] Cfr. La critica di Schlegel al sentimentalismo: “Cos'è allora questo sentimentalismo? Quello che ci piace, dove domina il sentimento, ma quel sentimento spirituale, non quello che viene dai sensi. La fonte e l'anima di tutte le emozioni è l'amore, e nella poesia romantica deve aleggiare, quasi invisibile e ovunque, lo spirito dell'amore; questo è ciò a cui dovrebbe puntare quella definizione. […] Solo la fantasia può concepire l'enigma di questo amore e presentarlo come un enigma; l'enigmatico è la fonte della fantasia, nella forma di ogni rappresentazione poetica”. Friedrich Schlegel, Conversazione sulla poesia e altri frammenti, cit., pag. 65-6).

[Xx] Em Dello spirito e della lettera in filosofia, Fichte conclude così la seconda lettera: “Lo spirito si lascia alle spalle i limiti e nella sua propria sfera non ci sono limiti. L'impulso a cui si dà lo spirito va all'infinito”. Johann Gottlieb Fichte, Dello spirito e della lettera in filosofia, cit., pag. 143.

[Xxi] György Lukács, L'anima e le forme, cit., pag. 207.

[Xxii] Schiller, dentro Uber das Erhabene, chiarisce la dimensione intellettuale del sublime: “Ci sentiamo liberi di fronte al sublime perché gli impulsi sensibili non hanno alcuna influenza sulla legislazione della ragione, perché lo spirito qui agisce come se non fosse sotto altre leggi che le proprie” . Friedrich Schiller, Dal sublime al tragico (trad. Pedro Süssekind e Vladimir Vieira, Belo Horizonte, Autêntica 2011), p. 60.

[Xxiii] György Lukács, L'anima e le forme, cit., pag. 210; Friedrich Schiller, Dal sublime al tragico, cit., pag. 213. Cfr. sul tema l'analisi di Kierkegaard dell'ironia romantica. “Nella misura in cui l'ironico, con la massima licenza poetica possibile, crea se stesso e il mondo circostante, nella misura in cui vive così sempre nel modo ipotetico e congiuntivo, la sua vita perde ogni continuità. Con ciò si sottomette completamente allo stato d'animo (stimolazione). La sua vita è ridotta a mere disposizioni affettive. [.].) Inventa poeticamente che lui stesso evoca stati d'animo, poetizza fino a paralizzarsi spiritualmente e smette di poetizzare. La stessa tonalità affettiva non ha quindi realtà per l'ironico, ed è raro che egli dia libero sfogo alle tonalità affettive se non sotto forma di contrasto. Soren Kierkegaard, Il concetto di ironia si riferiva costantemente a Socrate (trad. Álvaro Luiz Montenegro Valls, Bragança Paulista, Editora Universitária São Francisco, 2006), p. 245-6.

[Xxiv] György Lukács, L'anima e le forme, cit., pag. 213.

[Xxv] Cfr. Friedrich Schlegel, Conversazione sulla poesia e altri frammenti, cit., pag. 62.

[Xxvi] György Lukács, L'anima e le forme, cit., pag. 214.

[Xxvii] Per Rickert, nell'articolo scritto per la rivista Loghi, del 1911-1912, intitolato “Valori della vita e valori della cultura”, l'intero Filosofia di vita cerca di estrarre i valori della vita. Ma la vita qui è una mera condizione e non autostima. Ora, Rickert distingue due valori: autovalore (Eigenwert) e valore condizionale (bedingungswert). “Chi vive tutto, vive assurdamente. I propri valori non sono valori di vita. Dobbiamo in un certo senso uccidere la vita, in una certa misura, per arrivare ai beni culturali, che hanno un loro valore». Heinrich Rickert, Le Système des valeurs e altri articoli (Parigi, Vrin, 2007), p. 118.

[Xxviii] Ivi, p. 123; Eric Dufour, Les Neookantiens: valeur et verité (Parigi, Vrin, 2003), p. 70.

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