da PAULO CESAR DUQUE-STRADA*
Estratto dal libro che tratta il tema “bugie e verità in politica”
“Non si è mai mentito così tanto come ai nostri giorni. Mai mentito è stato più sfacciato, sistematico e costante.
Con queste parole, che potrebbero applicarsi perfettamente all'oggi, per non parlare dell'attuale scenario politico nel Paese, esordisce un testo pubblicato per la prima volta nel 1943, da Alexandre Koyré[I], e che aveva come obiettivo, come suggerisce la data, la formazione dei regimi totalitari dell'epoca. Ma non solo in quella frase – che, di per sé, nella forza delle sue parole, non manca di suonare come una dichiarazione e una protesta, un indignato “Basta!” a quello che c'è, davanti a noi –, ma in tutto il testo di Koyré qualcosa devia, oltre il contesto storico del suo tempo, e ci colpisce con la forza dell'estrema attualità.
Come si evince dalla frase, il testo tratta della menzogna, più specificamente, della menzogna in politica. Originariamente pubblicato con il titolo Riflessioni sul mensonge, e ripubblicato due anni dopo in inglese come La funzione politica della menzogna moderna[Ii], l'articolo di Koyré è stato ripreso da Jacques Derrida in un testo – Storia delle bugie: prolegomeni[Iii] – che propone, in linee generali, un nuovo modo di affrontare una problematica “vecchia come il mondo”, per usare le parole di Koyré; cioè, mentire e, più in particolare, mentire in politica.
Tale impegno, che Derrida si limita a segnalare nel suo testo, appare quanto mai urgente e necessario, data l'attuale situazione di profonda crisi di rappresentatività e di accelerato deterioramento della legittimità delle istituzioni pubbliche. Come trovare una guida in un mondo sempre più (non) governato dall'incredulità?; in cui la sfiducia nei confronti di tutto ciò che si vede, si sente e si legge attraverso i media ꟷ fenomeno che si capitalizza perdendo di vista con i social network ꟷ cessa di essere una semplice questione di interesse critico da parte di alcuni intellettuali, per diventare sempre più più un fatto comune di esperienza quotidiana. Il problema, per tutta la sua gravità e rilevanza, è che l'ostinato desiderio di verità[Iv] non converge a riparare, ma a prolungare e persino a intensificare la distruttività in atto – ieri come oggi – della cosiddetta vita sociale.
Distruttività intesa qui in due sensi ben precisi: da un lato, distruzione di tutto ciò che è diverso, estraneo, di un altro ordine; dall'altro, autodistruzione, autodistruzione. In altre parole, l'affermazione o il consolidamento di un'unica, stabile verità ugualmente applicabile a tutto e a tutti costituisce sempre – costituisce sempre anche – un colpo violento, un'ingiustizia, una forza di annullamento, di soffocamento, di repressione, rivolta alla diversità, all'eterogeneità, alle differenze nelle quali e attraverso le quali tutto nasce, si intreccia e accade. Come osserva Derrida[V], tutto e qualsiasi “Uno” – nella forza performativa del suo “sé”, identitario, istituzionale, linguistico, nazionale, ecc. – è, nella sua stessa verità, intrinsecamente violenta. Accoglie e, allo stesso tempo, si protegge dalla differenza a sé nella quale e attraverso la quale si eleva, si stabilizza e si afferma come “Uno”. È in questo senso che parlo qui della continua distruttività della vita sociale.
Bisognerebbe allora tornare al tradizionale binarismo “verità/menzogna”, e più in particolare al concetto tradizionale, dominante nella nostra cultura, di menzogna, ma in modo tale da trasformarlo radicalmente, poiché “ha bisogno di un altro nome, un'altra logica, in altre parole (…)”[Vi].
Non si tratta qui, come si potrebbe erroneamente supporre, di voltare le spalle alla verità, o di abbracciare un “va bene tutto”. Koyré diagnostica, accusa, rifiuta con veemenza e sistematica aggressione che i regimi totalitari compiono nei confronti della verità, privandola del suo valore di universalità. Derrida, a sua volta, non manca di sottolineare il suo accordo: “Ripeto e insisto, a scanso di equivoci: quello che dice Koyré qui mi sembra vero, giusto, necessario. Dobbiamo prima di tutto sottoscriverlo”[Vii].
Vediamo cosa dice Koyré: “Ora, le filosofie ufficiali dei regimi totalitari proclamano unanimemente che la concezione della verità oggettiva, una per tutte, non ha senso e il criterio della “Verità” non è il suo valore universale (...), ma piuttosto la sua conformità allo spirito di razza, nazione o classe, la sua utilità razziale, nazionale o sociale. Prolungando e portando fino in fondo le teorie di biologi, pragmatici, attivisti della verità (...), le filosofie ufficiali dei regimi totalitari negano il valore proprio del pensiero, che per loro non è una luce, ma un'arma; il suo scopo, la sua funzione, dicono, non è rivelarci ciò che è reale, cioè ciò che è, ma aiutarci a modificarlo, a trasformarlo, guidandoci verso ciò che non lo è. Per questo, come è stato da tempo riconosciuto, il mito è spesso preferibile alla scienza, e la retorica che si rivolge alle passioni, preferibile alla dimostrazione che si rivolge all'intelligenza.[Viii]
Derrida non solo esprime il suo accordo con la diagnosi – nell'ambito dei regimi totalitari – di una deliberata perversione sia della verità nel suo valore universale sia del pensiero come arma al servizio degli interessi, di una strategia o di una programmazione precostituita. Inoltre, riconosce l'attualità di quanto afferma Koyré, poiché l'obiettivo della sua denuncia non si limita al contesto dei regimi totalitari: “ciò che egli diagnostica sulle pratiche totalitarie dell'epoca (...) potrebbe essere ampiamente esteso a certe correnti pratiche di presunte democrazie, nell'era di una certa egemonia capitalistico-tecnologica dei media”[Ix]. È necessario, quindi, e forse oggi più che mai, in un tempo fortemente dettato dalla teletecnoscienza, mantenere, come lei dice, una vigilanza permanente su tali pericoli.
Tuttavia, c'è un limite qui che bisogna cercare di superare. Va bene che Koyré rifiuti il biologismo, il razzismo o il nazionalismo che, come vede nelle filosofie ufficiali del totalitarismo, intendono prendere il posto dell'universalismo della verità. Ma, in quello stesso gesto, rifiutando anche ciò che intende per “pragmatismo” e “attivismo” – in una parola, il carattere performativo – della verità che, parimenti, a scapito del suo valore universale, costituiva il segno o sintomo di un impegno con ciò che non è, e non con l'oggettivazione o la rilevanza di ciò che è, Koyré – come una lunga tradizione della metafisica occidentale, inclusa Hannah Arendt – impedisce che avvenga uno spostamento importante, urgente e necessario.
[Una breve parentesi è qui opportuna, per giustificare il procedimento che adotto in questo presente testo; rivolgendo pienamente l'attenzione a una sezione in cui Derrida sviluppa una lettura di Koyré, all'interno di un testo più ampio dedicato a Hannah Arendt. Due sono le ragioni di ciò, che espongo qui, riproducendo quanto letto e sintetizzando l'argomentazione presentata da Derrida. In primo luogo: “Non so se Hannah Arendt abbia letto o fosse a conoscenza di un articolo scritto da Alexandre Koyré, ma deve essere vero che le tesi arendtiane che abbiamo appena citato sono esattamente nella stessa linea di pensiero di quell'autore[X]. In secondo luogo, come vedremo in seguito, Koyré pone una questione importante – “cosa non fa la Arendt” – per la riflessione proposta da Derrida, al di là del tema verità/menzogna in politica. Parentesi di chiusura.]
Il sospetto di Koyré nasce da un presupposto incrollabile sulla configurazione del campo di verità. Ciò riguarderebbe esclusivamente l'ordine dell'obiettività, ovvero affermazioni vere su fatti, o anche l'adeguatezza di affermazioni o “stati mentali” in relazione alle cose cui si riferiscono. Tutto ciò che va oltre o non rientra in tale – preventiva e incrollabile – determinazione della verità è, a priori, escluso. Non c'è spazio anche qui per considerazioni e analisi di enunciati performativi, cioè quelli che, nel dominio del linguaggio, non si riferiscono a uno stato di cose, quindi non sono veri o falsi (come ordini, domande, saluti, promesse, ecc.) ecc.).
In una parola, riassume Derrida, il sospetto di Koyré “arriverebbe a qualsiasi problematica che delimitasse, interrogasse o a fortiori decostruire l'autorità della verità come oggettività o addirittura rivelazione (aletheia) "[Xi]. Pertanto, la verità riguarda essenzialmente l'oggettivazione, l'esposizione, la dimostrazione, la presentazione, l'apparizione, la rivelazione o lo svelamento di qualcosa di vero; che quest'ultima sia inseparabile dalla luce, come ciò che viene alla luce, come ciò che risplende per tutti nell'incontro o nell'ordine – nell'“Uno” omogeneo e identico a sé stesso – del gruppo, del collettivo, della comunità, del società. polis[Xii], infine, che il campo della politica è radicalmente dettato dalla logica della fenomenicità, questo è ciò che deve essere delimitato, interrogato, decostruito.
Ma perché si dovrebbe mettere in discussione, delimitare e persino decostruire l'autorità della verità nei termini in cui, attraverso la tradizione, ci è divenuta familiare? appunto, come oggettività o rivelazione? E perché si dovrebbe mettere in discussione il fenomenismo della politica?
La risposta è semplice – e su questo concorderebbero una grande varietà di pensatori che, pur nelle rispettive differenze, furono sensibilizzati dai testi di Marx, Nietzsche e Freud: “la verità, come la realtà, non è un oggetto dato in anticipo. , su cui si tratterebbe solo di riflettere adeguatamente”[Xiii]. Ciò significa due cose: da una parte, è sempre attraverso linguaggi attivi e interpretativi, quindi performativi, che si istituiscono la verità e anche la realtà; così, d'altra parte, proprio perché non è qualcosa di naturale o di immutabile, perché non è mai “un oggetto dato in anticipo”, è sempre necessario interrogare, problematizzare – attraverso linguaggi, a loro volta, sempre e necessariamente performativi –, ciò che qualunque cosa si voglia far passare per “qualcosa”, per fenomeno o oggetto già costituito, dato in sé.
Altrimenti, senza questa problematizzazione – “di tipo pragmatico-decostruttivo” –, segnatamente “nel campo della cosa pubblica, della politica o dei media retorico-tecnologici”, si ricade inevitabilmente nell'una o nell'altra forma di dogmatismo sul “ciò che è” . Una problematizzazione di questo tipo richiede dunque di rompere con il binario – tradizionale, oppositivo – tra verità (ciò che è) e menzogna (l'intenzionale spacciare ciò che non è per ciò che è).
E il pensiero qui cambia. Se, effettivamente, è l'intenzione «che definisce la veridicità o la menzogna nell'ordine del dire, dell'atto del dire», indipendentemente «dalla verità o falsità del contenuto, di quanto si dice» [Xiv], allora non si può mai, a rigor di termini, provare che sia una bugia quando qualcuno dice “ho sbagliato, ma non volevo ingannare nessuno, sono in buona fede”; o ancora: “L'ho detto, ma non è quello che intendevo; in buona fede, in cuor mio, non era questa la mia intenzione, c'è stato un malinteso”[Xv]. Occorre quindi passare dal binarismo “verità/menzogna” all'ambito della veridicità, anche quando ciò che viene detto è una menzogna. Tale è lo spostamento – dalla verità/menzogna alla veridicità – che poi si intende.
Evidentemente qui c'è un rischio, e la domanda che si pone è questa: come rompere con la verità come oggettività o rivelazione?; come rompere con la logica della manifestazione, del “far vedere”, dell'apparire, in campo politico, senza, con ciò, ricadere in ciò che Koyré così giustamente denuncia?
Ancora una volta, ciò che Koyré denuncia non riguarda solo i regimi totalitari di un passato più o meno recente, ma anche l'attuale era democratica di “civiltà di massa”: “La menzogna moderna ꟷ sta in questo la sua qualità distintiva – prodotto in serie e di massa”[Xvi]. Si sarebbe allora dispiegato un nuovo, moderno dispositivo di produzione della menzogna da parte dei regimi totalitari [fino ad oggi, potremmo dire in aggiunta al testo di Koyré]: “Mascherare ciò che si è e simulare ciò che non si è… Questo ovviamente implica: non dire – mai – ciò che si pensa e crede e anche: dire – sempre – il contrario”[Xvii].
Sebbene Koyré non segua la via del superamento del binarismo verità/menzogna, anticipa nel suo testo due aspetti significativi che contribuiscono a una riflessione in quella direzione. Derrida li punteggia così: “In primo luogo, suggerisce “che i regimi totalitari e quelli che in un modo o nell'altro gli assomigliano non si sono mai avventurati oltre la distinzione tra verità e menzogna – distinzione oppositiva e tradizionale – perché hanno un bisogno vitale, perché è al suo interno che mentono (...)”[Xviii]. Quello che succede è che semplicemente capovolgono questa dicotomia, basandola sul “primato della menzogna”.
Come dice Koyré: “la distinzione tra verità e menzogna; l'immaginario e il reale; rimane perfettamente valido anche all'interno di concezioni e regimi totalitari. Solo il loro posto e il loro ruolo sono in qualche modo invertiti: i regimi totalitari si fondano sul primato della menzogna.[Xix].
Questo, tra l'altro, era vero ieri come lo è oggi. Basti pensare, ad esempio, alla “rabbia per essere stati ingannati”, sottolineata o denunciata da George Grosz, che portò Hitler al potere promettendo lo sradicamento della menzogna.[Xx], o la famosa dichiarazione “Odio mentire”, del maresciallo Pétain. Sulla scia di quanto afferma Koyré, Derrida osserva che «più (…) una macchina politica mente, più fa dell'amore per la verità una parola d'ordine della sua retorica».
In secondo luogo, in vista di questa trasformazione radicale della menzogna, nella quale, non più limitata ad un evento di fatto, come risultato di un certo atto mosso intenzionalmente da malafede, essa diventa un processo, iniziando a prodursi per tutti; di fronte a questa trasformazione, pur senza svilupparla, Koyré si pone la domanda – “cosa non fa la Arendt” – se si abbia ancora il diritto di parlare qui di 'menzogna'”[Xxi]. Per Koyré sì, ma per Derrida questa domanda indica la possibilità di fare un passo avanti.
Ancora una volta, un potenziale malinteso deve essere evitato qui. Intendendo portare avanti una riflessione oltre il binarismo “verità/menzogna”, non si propone, con ciò, la celebrazione di un'assolutizzazione della menzogna, o lo sviluppo di un pensiero del simulacro, alla maniera di Baudrillard; in entrambi i casi è già presupposta una logica di occultamento. A questo proposito, e in chiusura, segue una breve osservazione.
In relazione al suddetto rischio: come rompere con la logica della manifestazione, del “far vedere” o dell'apparire, in campo politico, senza ricadere in ciò che Koyré giustamente sospetta e denuncia? Ancora una volta, questo sospetto non dovrebbe mai essere cancellato. Il rischio, però, c'è sempre, e volerlo evitare significa scegliere di rimanere nella stabilità – nell'“Uno” – dello stesso luogo in cui già ci troviamo; soggetto alla forza di “ciò che è”, per usare il termine di Koyré. Contrariamente a questo “luogo”, assumersi una responsabilità etica, giuridica o politica significa, prima di tutto, assumersi tale rischio; esponendoti alla minaccia e al caso allo stesso tempo. Significa, in altre parole, assumere la performatività strutturale, intrinseca a ciò che ci viene presentato come “ciò che è”, così come la performatività di ogni tipo di relazione – comprensione, analisi, interpretazione, riflessione, ricordo, problematizzazione, ecc. . – che abbiamo con “ciò che – 'supposto' – è”. Altrimenti, insistendo a rimanere nel registro di “ciò che è”, “staremmo solo assistendo al dispiegarsi irresponsabile di una macchina programmatica”[Xxii]; programmato per determinare e operare su ciò che è noto o conoscibile.
Quindi, contrariamente a prove o dimostrazioni[Xxiii], “è una problematica di testimonianza, dice Derrida, che qui mi sembra necessaria (…)”[Xxiv]. Ciò significa, per concludere molto rapidamente, che l'universale, il valore per eccellenza della verità, non è un'essenza, una struttura dimostrabile o rivelabile. Certamente, nell'universale, ciò che è insostituibilmente valido per me, nella singolarità unica della mia testimonianza su qualcosa con cui mi relaziono, vale per tutti. Ciò significa che la sostituzione del singolare con l'universale (prima struttura di accoglienza o ospitalità) è già avvenuta; la sostituzione è già «in corso, ha già operato, ognuno può dire, per sé e per sé, la stessa cosa»[Xxv]. Quando qualcuno parla, qualunque sia il suo “luogo” di parola, è già, nell'atto di parlare, simultaneamente superato (ma, si potrebbe anche dire, e paradossalmente, accolto), nell'unicità della sua testimonianza, dalla generalità del linguaggio . ; una generalità strutturale, universale, trascendentale o ontologica.
In questo, che si ripete all'infinito, in questo paradosso di una concomitante sostituzione dell'insostituibile (o, per dirla in altri termini, di un'accoglienza che perde necessariamente ciò che accoglie), l'universale si costituisce come processo infinito di universalizzazione, di una veridicità che si diffonde, che non cessa di inviarsi, nell'efficacia di ogni atto singolare che, da sempre, si perde anche nell'accettazione dell'universale che, tuttavia, la veridicità di ogni atto esige e mobilita; trasferendosi all'infinito, nel tempo e nello spazio, sradicandosi, estendendosi, dislocandosi, rompendosi con se stesso, al di là di ogni situazione particolare, linguistica, territoriale, etnica, culturale, ecc.
In quest'altro registro, che non è quello della dimostrazione o della rivelazione, ma della testimonianza, si anticipa un'altra possibilità etico-politica: quella di resistere e affrontare le costruzioni politico-fantasmatiche che, “con la forza o con l'inganno”, vogliono, a tutti volte, ci obbligano a credere e condividere. Come se fossero già lì, dati conosciuti e conoscibili, finalmente, potremmo sicuramente dire “accolti” nell'universalità dei discorsi. Nessun nichilismo, relativismo o "tutto va bene". Qui è in gioco un altro ordine di fede, condivisione e promessa.
*Paulo César Duque-Estrada Professore presso il Dipartimento di Filosofia del PUC-Rio.
Riferimento
Paulo César Duque-Estrada. Studi etico-politici su Derrida. Rio de Janeiro, Mauad X, 2020, 120 pagine.
note:
[I] Alexandre Koyré (1882-1964). Filosofo di origine russa. Ha studiato sotto Husserl a Gottinga, in Germania. Era un insegnante a École Pratique des Hautes Études a Parigi. Durante la seconda guerra mondiale visse a New York, dove insegnò Nuova scuola per la ricerca sociale. È stato professore in visita presso diverse altre importanti istituzioni, come ad esempio Harvard, Yale, Università di Chicago, Johns Hopkins. Autore di diversi libri, è conosciuto principalmente nel campo della filosofia della scienza.
[Ii] Il testo del 1943 fu pubblicato a New York, sulla rivista Rinascimento. Il testo in inglese è stato pubblicato sulla rivista Record ebraico contemporaneo. L'articolo è stato ripubblicato in Francia, nel 1993, dal Collège International de Philosophie, con il titolo La funzione politica della mensa moderna. Trans. Andrea Bieri. La funzione politica della menzogna moderna. Anamorfosi: Journal of Modern Studies, v.3, n.1, 2015.
[Iii] Testo di una presentazione tenuta nel 1993 alla New School for Social Research in occasione di un ciclo di conferenze in onore di Hannah Arendt. Pubblicazione brasiliana in Studi Avanzati, São Paulo, v.10, n.27, mag/ago. 1996.
[Iv] Dovremmo dire – invece di “desiderio di verità” – “valore di veridicità”, poiché l'opposto della menzogna non è la verità, ma la veridicità. “Nella sua forma prevalente e universalmente riconosciuta, la menzogna non è un fatto o uno stato, è un atto intenzionale, una bugia – non esiste il mentire, esiste questo dire, o questo senso-dire che si chiama mentire: mentire sarebbe rivolgersi a qualcun altro (...) una o più affermazioni, una serie di affermazioni (constative o performative) che il bugiardo sa, in coscienza, nella consapevolezza esplicita, tematica, attuale, che formano affermazioni in tutto o in parte false (…)”. Invece si può dire il falso, giudicandosi, “in buona fede”, che si ha ragione; tale non sarebbe mentire, ma piuttosto errare. È, quindi, il Intenzione “che definisce veridicità o falsità nell'ordine di raccontare, dell'atto del dire”, prescindendo dalla “verità o falsità del contenuto, di ciò che è idem. La menzogna dipende da ciò che viene detto e da ciò che si intende, non da ciò che viene detto”. Citando Agostino, “… non si mente quando si enuncia un'asserzione falsa che si crede vera e (…) si mente quando si enuncia un'asserzione vera che si crede falsa. Perché è per intenzione (ex anime sui) che si deve giudicare la modalità degli atti”. È in questa prospettiva che Derrida mette in discussione, in Arendt, sia l'idea di una storia della menzogna sia l'argomentazione che, in questa storia, con l'espansione della propaganda a livello governativo e la moderna manipolazione dei fatti, la menzogna avrebbe subito una mutazione, divenendo egli stesso “completo e definitivo”, come produzione sistematica di menzogne agli altri ea se stesso in campo politico. Qui ci occuperemo tangenzialmente di questa questione, e ci rivolgeremo direttamente alla – tradizionale, metafisica – della verità, poiché, nella valutazione di Derrida, sembra ancora costituire l'orizzonte ultimo dell'argomentazione della Arendt: “Ciò che probabilmente dovrebbe essere sospettato con qualche inquietudine in questa nozione di menzogna assoluta, è ciò che suppone ancora di conoscenza assoluta né elemento che resta quello della coscienza in sé riflessiva (...). Se la menzogna assoluta deve essere esercitata nella coscienza e nel suo concetto, corre il rischio di rimanere l'altra faccia della conoscenza assoluta”. È così che Derrida propone di spostare e complicare il “sé” dell'argomentazione della Arendt, “in un'ipseità più originale dell'io (individuale o collettivo), un'ipseità di enclavi, un'ipseità divisibile o scissa. Cfr. Derrida, Jacques. Storia delle bugie: prolegomeni. Operazione. cit.
[V] Derrida, Jacques. File non corrispondente: un'impressione freudiana. Rio de Janeiro: Editora Relume Dumara, 2001.
[Vi] Derrida, Jacques. Storia delle bugie: prolegomeni. Operazione. cit., 25.
[Vii] Ibid.
[Viii] Koyré, Alexandre. La funzione politica della menzogna moderna. Op.cit., p. 74.
[Ix] Ivi, p.16.
[X] Derrida, Jacques. Storia delle bugie: prolegomeni. Operazione. cit., p.15.
[Xi] Ivi, p.16.
[Xii] Per le sue enormi e travolgenti implicazioni economiche, etico-politiche, diplomatiche, giuridiche, militari, tecnico-scientifiche, qui impossibili da trattare, lo slogan “Prima americana”, di Donald Trump, a parte il suo carattere patetico e caricaturale, è forse la figura recente più inquietante, il tremore più potente e minaccioso, di quanto qui si tratta.
[Xiii] Derrida, Jacques. Storia delle bugie: prolegomeni. Operazione. cit., p.16.
[Xiv] Vedi n. 259.
[Xv] Derrida, Jacques. Storia delle bugie: prolegomeni. Operazione. cit., p.2.
[Xvi] Koyré, Alexandre. La funzione politica della menzogna moderna. Operazione. cit., p.73.
[Xvii] Ivi, p.80.
[Xviii] Derrida, Jacques. Storia delle bugie: prolegomeni. Operazione. cit., p.17.
[Xix] Koyré, Alexandre. La funzione politica della menzogna moderna. Operazione. cit., p.74.
[Xx] Guerriero, Antonio. Mentire come vocazione. Opinione pubblica, 25 settembre 2015.
[Xxi] “Si potrebbe concludere – e talvolta si conclude – che i regimi totalitari sono al di là della verità e della menzogna”. Koyré, Alexandre. La funzione politica della menzogna moderna. Operazione. cit., p.74.
[Xxii] Derrida, Jacques. Storia delle bugie: prolegomeni. Operazione. cit., p.16.
[Xxiii] Non si tratta di rifiutare il valore e anche l'esigenza della prova e della dimostrazione, ma piuttosto di percepire la sua limitazione all'ambito della verità come rivelazione o adeguatezza a “ciò che è”, cioè alla verità astratta da ogni dimensione performativa, o, nel linguaggio di Koyré, quanto c'è di “pragmatismo” e di “attivismo” come elementi esterni, estranei alla verità stessa. È interessante notare, a questo proposito, quanto dice lo storico Federico Finchelstein, alla domanda: “I politici ispirati dal fascismo mentono più degli altri politici?” Nella sua risposta, facendo eco all'argomentazione di Koyré, Finchelstein risponde: “Sì, i politici fascisti tendono a mentire di più, ma non si tratta solo di mentire di più. Credono alle proprie bugie. E, anche se vedono che queste bugie non corrispondono alla realtà, credono che queste bugie siano al servizio di una verità, che è la verità del leader e dell'ideologia. Una verità radicata nella fede e nel mito piuttosto che nell'osservazione empirica. Disponibile in: . Anche qui, senza annullare la veridicità della risposta di Finchelstein, resta arginata una questione: se “non si tratta solo di mentire di più”, se i politici fascisti “credono alle proprie bugie”, se credono di essere “al servizio di una verità”, che è “la verità del leader e dell'ideologia”, allora è qualcosa di più complesso, non ridotto alla semplice diagnosi di una menzogna. Occorre un affinamento critico che, in maniera inevitabile, dovrà passare attraverso la problematizzazione del paradigma stesso della verità come adeguatezza o rivelazione – e anche, per estensione, del fenomenismo del campo politico – per avanzare nell'affrontare le minacce e le sfide, ciascuna sempre più urgente, dell'oscurantismo, del fanatismo, del dogmatismo, dell'autoritarismo, del reazionarismo, del fondamentalismo, del fallocentrismo, del razzismo, ecc.
[Xxiv] Ibid.
[Xxv] Derrida, Jacques. Il monolinguismo dell'altro. Oporto: Campo das Letras, 2001.