da TESSUTO MARIAROSARIA*
Considerazioni sulla ricezione dell’opera del cineasta italiano
L'interesse per l'opera di Federico Fellini è stato intenso e costante in Brasile. Basterebbe ricordare che il cineasta ha lasciato il segno anche nel nostro linguaggio. Infatti, come in italiano, anche in portoghese l'aggettivo “felliniano” è dizionarizzato, e viene utilizzato anche per riferirsi a situazioni e personaggi caricaturali o grotteschi, o ad atmosfere suggestivamente oniriche, che rimandano a caratteristiche dei suoi film, di Irene Ravache registrato da Walter Porto, e che è stato recentemente il nome scelto dal Grupo Editorial Record per una nuova etichetta, Amarcord, focalizzata su "narrazioni insolite", secondo lo stesso editore.
Il sostantivo “paparazzi” (più comune dell’originale “paparazzi”) – derivato dal cognome di un fotografo La dolce vita (La dolce vita, 1959) – cominciò a designare, anche tra noi, un fotoreporter alla ricerca di fatti sensazionalistici sulle celebrità, come riportato in “Fellinianas”. Il titolo del film E la nave va (E la nave va, 1983) è diventata un'espressione ampiamente utilizzata per indicare che la vita segue il suo corso.
Ci sono ancora altre tipologie e momenti Felliniani rimasti nell'immaginario dello spettatore comune: Alberto (Alberto Sordi) da L'accoglienza (I vitelloni, 1953), quando regala una banana e si fa beffe dei pedoni che stanno rifacendo il manto stradale; la prostituta protagonista (Giulietta Masina) di Le notti di Cabiria (Le notti di Cabiria, 1957), come vedremo più avanti; la strada della vita (la strada, 1954), che scatenò una grande commozione, durata tutta la giornata, come confessa, in Verde tropicale, Caetano Veloso; Amarcord (Amarcord, 1973), con tutto il suo “inventario delle emozioni”, secondo la definizione di Irene Ravache riportata da Walter Porto.
Dal punto di vista della critica cinematografica, sebbene negli anni Cinquanta non mancassero articoli sulla filmografia di Fellin, fu nei due decenni successivi che l'interesse si fece più accentuato. L'anno 1950 è emblematico, come nel festival Storia del cinema italiano, organizzato dalla Cinemateca do Museu de Arte Moderna (Rio de Janeiro) e dalla Cinemateca Brasileira (São Paulo), la sessione di apertura dell'edizione di Rio ha mostrato L'abisso di un sogno (Lo sceicco bianco, 1952), mentre si proiettava la sessione di chiusura dell'edizione di San Paolo La dolce vita. Tra il 1970 e il 1972, la casa editrice Civilização Brasileira – nella collezione Biblioteca Básica de Cinema, diretta da Alex Viany – pubblicò sei sceneggiature del regista: Lo sceicco bianco, La strada, La dolce vita, L'accoglienza, 81/2 (81/2, 1963) e il tradimento (La bottiglia, 1955).
Un'altra occasione decisiva è stata l'edizione del Fellini visionario, che, sebbene si sia fermato solo a La dolce vita, Otto e mezzo e Amarcord, può essere considerato un buon paradigma per stabilire come è stato accolto il lavoro del cineasta italiano in Brasile. Per illustrare le sceneggiature dei tre film selezionati, che Carlos Augusto Calil considera i migliori del regista, il volume ha riunito testi del passato (di Francisco Luiz de Almeida Salles, Roberto Schwarz, Gilda de Mello e Souza e Glauber Rocha) con altri opere recenti e contemporanee (di Luiz Renato Martins e dello stesso Calil), che offrono una piccola panoramica di come l'opera del regista è stata letta dagli autori brasiliani.
Fellini visionario Si è offerta inoltre la traduzione delle tre sceneggiature sopra citate e di quattro blocchi di dichiarazioni del regista – tratte da periodici italiani e francesi, da comunicato stampa e un programma televisivo –, in parte contraddicendo i suoi stessi obiettivi, poiché alcuni dei testi saggi scelti si discostavano dalla corrente principale della critica brasiliana, in gran parte guidata dalle interviste dell'autore sui film stessi. Mettendo il lettore faccia a faccia con il regista, prima di affrontare riflessioni critiche nei suoi confronti, il libro non ha mancato di condizionare la comprensione dell'opera di Fellin.
Ampliando la gamma degli autori citati dall'organizzatore di Fellini visionario – Antônio Moniz Vianna, Alex Viany, José Lino Grünewald, Sérgio Augusto, Paulo Perdigão, Jean-Claude Bernardet, Maurício Gomes Leite e Telmo Martino, oltre a quelli già elencati –, Paulo Emílio Salles Gomes, Ronald F. Monteiro, Luiz Raul Machado, Guido Bilharino, Kátia Peixoto dos Santos, Euclides Santos Mendes, João Eduardo Hidalgo, Julia Scamparini Ferreira, Carolina Bassi de Moura, Rafaela Fernandes Narciso, Mariarosaria Fabris, Mateus Araújo Silva, Sandro Fortunato, Luiz Zanin Oricchio, Cássio Starling Carlos , Pedro Maciel Guimarães, Ismail Xavier, Renato Janine Ribeiro, Mariano Torres, molti dei quali costituiscono i riferimenti di questo articolo. Nonostante questa espansione, i due momenti cruciali sopra menzionati serviranno da guida nel tentativo di realizzare una piccola retrospettiva sulla ricezione della filmografia di Fellin tra noi, basata principalmente su autori di San Paolo e Rio de Janeiro.
Negli anni Sessanta e Settanta la critica mise in luce l'esistenza di un Fellini prima della sua affermazione come regista autoriale. Per Antônio Moniz Vianna il suo nome, come sceneggiatore, “è associato ai titoli più significativi del neorealismo rosselliniano, nonché ai migliori saggi di Pietro Germi e Alberto Lattuada” e, come attore, ancora con Roberto Rossellini, in Il miracolo ( 'Il miracolo”) – secondo segmento di Amore (L'amore, 1948), quando un tema già presente nell'episodio romano di paisà (Nazione, 1946), che, secondo Moniz Vianna, in un altro testo del 1960, “sembrerebbe dominante in tutta l'opera di Fellin: la mancanza di comunicazione tra le persone”.
Questa incapacità comunicativa comporterebbe l’isolamento, caratteristica che si rafforzerebbe la strada della vita, il tradimento e Le notti di Cabiria, “componenti di una 'trilogia della solitudine'”, come ha sottolineato Sérgio Augusto (1972), o, per dirla con Ronald F. Monteiro, “film mistici”, perché, per il cineasta, sempre nelle parole di Sérgio Augusto (1971 ), «l'angoscia morale pesa più dei fallimenti sociali, la dialettica non compensa le grazie dell'anagogia».
In un articolo del 1960, Paulo Emílio Sales Gomes seguì questa stessa linea, stabilendo anche “una profonda parentela” con il già citato “Il Miracolo”. Non diversa è l'opinione di Almeida Salles (1994), che in sede di revisione La dolce vita, all'epoca dell'uscita in Brasile, e riferendosi anche ai tre film precedenti, scriveva: “Il sacro secolarizzato è la dimensione stessa dello sguardo di Fellini e posto sulle cose e sugli esseri dà loro un senso di segno che trascende il documento grezzo. "
In un panorama culturale che tendeva all'analisi dei problemi sociali, Fellini emergeva come una sorta di fuori dagli schemi, per essersi concentrato sui tormenti esistenziali, che portarono a mettere in discussione la sua appartenenza al neorealismo che ancora dominava la scena cinematografica italiana quando cominciò ad affermarsi come autore. Se, quando si presenta l'itinerario L'accoglienza, Alex Viany ha affermato che il regista è rimasto “consapevolmente affiliato al movimento neorealista”, concentrandosi su L'abisso di un sogno, il critico aveva scritto: “I suoi rapporti più profondi con il neorealismo iniziarono con il punto zero del movimento, Roma, la città si stringe (roma città aperta), nel 1945”.
Prima di lui, Moniz Vianna, in catalogo Cinema Italiano, aveva già posto il problema rilevando che: “Neorealista o disertore, l'importante in Fellini è la trasfigurazione della realtà attraverso la poesia […]. la strada completa la trasfigurazione del neorealismo attraverso la poesia o, come osserva un critico francese, si inserisce in un ambito particolare del movimento attraverso un «orientamento verso un reale meraviglioso», lo stesso assunto da Miracolo a Milano [Miracolo a Milano, 1951, di Vittorio De Sica] e La foresta [Il cappotto, 1952, di Lattuada], strani compagni”.
Anche Almeida Salles, in Cinema e verità (1965), indicava un reale che, in Fellini e in altri cineasti, “non è più il reale del cinema credibile, né quello del neorealismo. È un reale trascendentalizzato. Un reale, quindi, che, attraverso la sottile partecipazione dell’artista, diventa verità del reale.” Sebbene considerasse Fellini “fuori dal neorealismo”, Viany, nella presentazione della sceneggiatura La dolce vita, seguirà lo stesso percorso di Almeida Salles, sottolineando che, per il cineasta, “i fatti della vita acquistano esperienza e validità solo quando passano attraverso il filtro della sua immaginazione fantastica, quando sono colorati dalla sua inesauribile fantasia”.
E se José Lino Grünewald ha definito il regista “un antineorealista, non un controverso antagonista (ex vi ammirazione per Rossellini), ma come diversità di esperienze e di tendenze”, Monteiro ricorda che stava “progressivamente sostituendo le influenze neorealiste con deliri onirici e barocchi. Fellini non è mai stato un realista: il suo naturalismo temperato da umanesimo sentimentale non è mai andato oltre l’esteriorità della cronaca”. Anche l'“atmosfera provinciale” e i paesaggi delle prime opere non erano reali: “Erano semplici proiezioni”.
L'accento sul legame di Fellini con il neorealismo si è indebolito nel tempo, ma nuovi ricercatori, come Euclides Santos Mendes e Julia Scamparini Ferreira, hanno ripreso la questione nei loro lavori accademici, senza novità rispetto agli autori precedenti e senza convincere nella loro difesa. di un Fellini neorealista. Nel frattempo, Mateus Araújo Silva ha sottolineato come, in Le notti di Cabiria, il regista riuscirà forse a superare “l'orizzonte neorealista (cui fu vicino come sceneggiatore)”, in un percorso che “accentuerà sempre più negli anni la dimensione dell'immaginario e investirà nella deformazione, attraverso la memoria o immaginazione, della realtà vissuta o osservata”.
Come sottolineano alcuni critici, il cineasta italiano, però, ha parlato anche con altri registi. Se Moniz Vianna, nel 1963, si distinguesse 81/2 “un certo intellettualismo che l’autore – in un certo senso l’anti-Bergman, l’anti-Antonioni, l’anti-Resnais – usa qui come se satirizzasse e correggesse allo stesso tempo gli autori citati”, ha sottolineato Guido Bilharino nel film “l'influenza del cerebrale Bergman di fragole selvatiche (Smultronstallet, 1957), che, due anni prima, incantò e sconvolge il mondo” E, come era prevedibile, il rapporto con Charles Chaplin si ritrova anche nell’opera di Fellin. Per Grünewald: “Fino a quando Le notti di Cabiria (compresi lavori notevoli come il Sceicco bianco, I vitelloni, la strada e La bottiglia), si poteva denotare l’influenza diretta, evidente e confessata del lirismo di Chaplin”.
La presenza del “vagabondo”, sempre secondo Grünewald, era evidente nel “semplice ed emozionante accompagnamento melodico” di la strada della vita e nella caratterizzazione della sua protagonista – “Gelsomina, Carlitos in gonne” –, nella quale però Pedro Maciel Guimarães troverà “l'equivalente europeo delle fragili e clownesche ragazze dei film di Chaplin”. Parlare di Charles Chaplin significa anche parlare di circo nella filmografia del cineasta italiano, come ha fatto Kátia Peixoto dos Santos nella sua ricerca post-laurea, analizzando la strada della vita, I pagliacci (Io clown, 1970) e Zenzero e Fred (Zenzero e Fred, 1986).
Anche Rafaela Fernandes Narciso, nella sua tesi di Master, ha analizzato, da la strada della vita, il ruolo dell'estetica clownesco nella filmografia del regista. Andando oltre questi aspetti più evidenti, Monteiro ha evidenziato come la struttura stessa delle opere di Fellini, fin dall'inizio, risenta dell'attrazione del regista per gli spettacoli popolari: “la costruzione frammentata delle sceneggiature di Fellini si avvicina alla composizione in bozzetti di mostrare attraverso le sue creazioni circo: ogni episodio ha il suo colpo di fulmine; L'impatto dei film nasce sempre dall'organizzazione delle curve ascendenti della drammaturgia in ogni episodio isolato. Di conseguenza, la conclusione deve contenere il climax”.
Fu in questo senso che Viany si classificò L'accoglienza di “film di cronaca, fatto di episodi un po' sconnessi, legati ai personaggi centrali, all'ambiente e al tema”. Cássio Starling Carlos preferiva vedere, in questa “struttura episodica, breve, frammentaria e seriale” – che, in Fellini, venne a sostituire la “tradizionale progressione drammatica” –, una certa somiglianza con la struttura “dei fumetti da lui divorati come un bambino". È in nome di questa “tecnica narrativa” (secondo Monteiro) che, nella sequenza finale dei film di Fellini, si accentua il dramma – basti pensare alla trilogia della solitudine, con Zampanó, che, desiderando Gelsomina , “si inginocchia sulla spiaggia, solo, di notte, con il mare e le stelle, e le lacrime gli rigano il volto”,
Augusto, “il bidonista che agonizza, solo, sul ciglio della strada dove, senza udire il suo ultimo sussurro, passano i contadini che si svegliano all'alba, senza udire il suo ultimo sussurro”; Cabíria e il suo “miraggio che, una volta disfatto, la getterà a terra, quella terra che Fellini usa sempre come fondamentale elemento di purificazione” (secondo Vianna in Cinema Italiano) – oppure si annodano i fili sciolti della frammentazione narrativa, come nel circolo circense che si chiude Otto e mezzo, quando Guido, sul set trasformato in un maneggio, inizia a dirigere lo spettacolo, di cui, insieme ai suoi personaggi, farà parte anche lui.
i personaggi di Otto e mezzo può essere considerato una sorta di sintesi delle tipologie che popolano l'universo Felliniano, con le quali il cineasta intrattenne un rapporto non sempre cordiale. Sales Gomes, nel 1956, sottolinea come Fellini, in Donne e luci (Luci della varietà, 1950) e L'abisso di un sogno, “giocava con i suoi personaggi, li prendeva in giro, a volte senza pietà”; ma, a poco a poco, cominciò a rivolgere loro uno sguardo più comprensivo, già nella seconda opera citata e ancora in L'accoglienza e la strada della vitamentre dentro il tradimento si avvicinava alle sue creature con una “disperata pietà” – sentimenti assenti Casanova di Fellini (Il Casanova di Federico Fellini, 1976), quando il regista notava, secondo le parole di Bilharino, il “permanente vuoto esistenziale” del protagonista.
Em il tradimento, secondo Sérgio Augusto, “il bestiario Felliniano – farândola dei semplici e dei folli – trovava una habitat familiare”, fatto osservato anche da Glauber Rocha, in un testo scritto intorno al 1977, in relazione ai film della prima fase, in cui le storie “si svolgono in luoghi poveri popolati da gente mezza affamata, folli Felliniani vagano in un orizzonte di miseria, ma non conoscono la realtà, sono il sogno, la bellezza che Fellini crea”.
Ed è sempre Sérgio Augusto (1971) a sottolineare che André Bazin fu “il primo a definire Homo Felliniano come 'un modo di essere', l'opposto del carattere nel senso sassone carattere”. Il suo commento fa eco alle osservazioni fatte da Roberto Schwarz nel 1965 a proposito Otto e mezzo: “Quando fa il film, il regista comincia dagli attori che ha a disposizione, e non dai personaggi immaginari. […] Guido parte dalle sue ossessioni e cerca negli attori similitudini con esse; Ma tra visione e attore c’è un divario incolmabile”. L'autore sottolinea inoltre che, nell'opera, nulla autorizzava l'identificazione tra il personaggio principale e il regista, nonostante le visioni di Guido fossero state filmate da Fellini.
Con ciò Roberto Schwarz smentisce la componente autobiografica rilevata, con restrizioni o meno, da diversi autori nella filmografia di Fellin. Nella ricezione brasiliana, la questione delle dichiarazioni del regista sul proprio lavoro è piuttosto problematica, dato che nelle principali biblioteche, anche quelle specializzate in cinema, abbondano libri come tariffa un film (Fare un film, 1980) o come quelli che raccolgono, in più lingue, le innumerevoli interviste rilasciate da Fellini, scritte da Camilla Cederna, Charlotte Chandler, Rita Cirio, Costanzo Costantini, Goffredo Fofi & Gianni Volpi, Giovanni Grazzini, Tullio Kezich, Damien Pettigrew , Christian Strich e Anna Keel ecc.
Se Luiz Raul Machado sottolinea con enfasi che il lavoro del regista “si mescola con la sua vita in modo unico”, Calil classifica il “narratore che dice io, travestito da alter ego di Guido o Marcello” come “uno degli artifici più riusciti di Fellini”; mentre Moniz Vianna e Mariarosaria Fabris si chiedevano quale personaggio o personaggi la regista avrebbe incarnato, Julia Scamparini Ferreira, partendo da caratteristiche che avrebbero plasmato l'identità italiana, ha inserito in questa domanda il lavoro di Fellin, a suo avviso autobiografico in senso lato per il recupero di una memoria collettiva.
A sua volta Luiz Renato Martins, seguendo Roberto Schwarz, ha sfidato il mito dei ricordi personali, siano essi in Conflitto e interpretazione in Fellini: costruzione della prospettiva del pubblico, libro dedicato a La Roma di Fellini (Roma1972), Amarcord, Prove d'orchestra (Prova d'orchestra, 1978) e La città delle donne (La città delle donne, 1980), sia in un altro testo su Amarcord, in cui affermava che la voce verbale in dialetto romagnolo (mè a m'acòrd = Ricordo), da cui deriva il titolo del film, “indica la trasformazione delle esperienze soggettive in rappresentazioni oggettivate sotto lo sguardo pubblico. Apre così il dialogo e stabilisce l'esposizione del passato in un contesto plurale”.
Altro aspetto legato alla questione dei personaggi sono le donne Felliniane che tanto popolano l'immaginario maschile. Prova di ciò è la canzone “Giulietta Masina”, che Caetano Veloso dedicò a Cabíria; una foto di Luiz Teixeira Mendes, “Noites de Cabíria – a homage to Fellini” (2017), in cui, in un angolo del quartiere bohémien di Lapa (Rio de Janeiro), il trasformista Juju Pallito Azaranys reincarna il protagonista del film; il libro Le donne di Fellini Anni '1950 – da Liliana a Cabíria, di Sandro Fortunato, per il quale “non possono essere visti come semplici personaggi. […] Sono più che semplici stereotipi, sono complessi. Pieno di dettagli, umano e vero. Ecco perché sono così vicini e affascinanti”. Una visione che coincide con quella di Machado quando affermava che per Fellini le donne sono “un punto di riferimento fondamentale: alter ego così profondamente diverse da nascere come complemento obbligatorio affinché l'uomo sia veramente umano”: dalle madri alle prostitute, passando per le amanti, le donne irraggiungibili, le giovani donne che “annunciano una possibile redenzione”.
Ben diverso il giudizio di Gilda de Mello e Souza, in “Il salto mortale di Fellini”, scritto tra il 1968 e il 1979, in quanto sottolineava che il regista non capiva le donne: riusciva “quando disegna personaggi marginali, cantanti di café-concert (L'accoglienza), ritardato mentale (la strada della vita), prostitute (Le notti di Cabiria)”, non è riuscito nel tentativo di analizzare “una psicologia femminile normale”, come in Giulietta degli spiriti (Giulietta degli spiriti, 1965). Per quanto riguarda le figure femminili di Otto e mezzo, per l’autore, non erano nemmeno “personaggi”, né “tipi fondamentali, cioè La Moglie (Luisa), L'Amante (Carla), L'Eterno Femminino (Claudia); perché il ventaglio delle possibilità femminili […] si riduce alla fondamentale opposizione delle due facce dell'eros, alla duplicazione pura e impura dell'amore, incarnato nella madre e in Saraghina”.
Nonostante abbia dedicato poche opere all'opera di Fellini, Dona Gilda può essere considerata la sua migliore interprete in Brasile, per la sua raffinata analisi cinematografica, cosa rara nelle opere sul regista. Quando ci si avvicina Otto e mezzo, è riuscita a dimostrare, più di altri autori, perché il film “è fantastico svolta punto” (come la definì Machado) della traiettoria Felliniana. Per Gilda de Mello e Souza quest’opera potrebbe inserirsi “nell’avanguardia della narrativa contemporanea” – in particolare nel nouveau romano e le opere cinematografiche ad esso collegate: Hiroshima amore mio (Hiroshima amore mio, 1959) e L'anno scorso a Marienbad (L'anno scorso a Marienbad, 1961), di Alain Resnais, e fragole selvatiche –, così come Fellini aveva costruito “una narrazione libera, sciogliendo l’intreccio lineare in una certa atemporalità”. Di conseguenza, il cinema cessò di essere “l’arte del tempo presente”, poiché ciò che venne imposto fu “il tempo soggettivo di Guido”, il cui pellegrinaggio temporale “va dal reale all’immaginario”. Lo spazio, anch'esso ampliato, si avvicinava a quello della “pittura barocca, prescindendo dalla prigione della cornice”. In questo modo “l'immagine […] ha come campo l'ampiezza dello schermo”.
La conoscenza delle arti visive dell’autrice la porta a immaginare “un senso scenografico, che ricorda molto Salvador Dalí” (1971) in Giulietta degli spiriti, rispetto al quale Julio Augusto Xavier Galharte suggerisce un altro parallelo con il Surrealismo, questa volta con René Magritte, per il fatto che i personaggi sono ritratti di schiena come nelle opere del pittore belga. Nella sua analisi di Il Satyricon di Fellini (Fellini-Satyricon, 1969), era accompagnata da Bilharino, per il quale, nel film, “innumerevoli inquadrature e scene spiccano […] anche per il loro puro aspetto cromatico e pittorico, eccezionalmente concepite ed elaborate”.
Secondo Dona Gilda, “ambientando la ricerca sul colore nel dipinto di Ercolano e Pompei, quindi, in un dipinto contemporaneo all'opera” omonima di Petrônio (60 d.C. circa), da cui Fellini si era ispirato, ha reso “ammirevole la trasposizione che Egli opera dallo spazio pittorico allo spazio filmico, la trasposizione che fa dal codice della parola al codice dell'immagine”.
Una lezione di cui Luiz Fernando Carvalho ha dimostrato di aver approfittato, quando ha dichiarato: “La mia motivazione nel cinema si sta spostando da uno stato all'altro. […] Si va oltre la mera costruzione tecnica di un film solo se si è capaci di generare una favola, un sogno” – parole registrate da Carolina Bassi de Moura, ricercando gli sviluppi delle idee Felliniane anche in Tim Burton, Jean-Pierre Jeunet, Guillermo del Toro e Rob Marshall.
A questi nomi si potrebbero aggiungere quelli di Woody Allen, che, nel Memorie (Ricordi di polvere di stelle, 1980), ha reso omaggio a Otto e mezzo (secondo Oricchio); Pedro Almodóvar, da La Agrado de Tutto su mia madre (Todo sobre mi madre, 1999) avrebbe una funzione simile a quella de La Gradisca in Amarcord (secondo Hidalgo); Selton Mello con il suo Il pagliaccio (2011) e Il film mio vida (2017),, con cui non mancherebbe di avere un certo legame I pagliacci e Amarcord, rispettivamente; Taron Lexton, che nel film Alla ricerca di Fellini (Alla ricerca di Fellini, 2017), ha cercato di ripercorrere i vari momenti della filmografia del regista italiano, e “a volte il tono è più neorealista, altre volte è più onirico – e compaiono continuamente riferimenti a personaggi e scene dei suoi film” (secondo Miranda ).
Secondo me andrebbe citato anche David Lynch, per la sovrapposizione tra il reale e l'onirico; Di Ingmar Bergman Per non parlare di tutte queste donne (Per att inte tala su tutto questo kvinnor, 1964), in cui faceva la parodia Otto e mezzo; Martin Scorsese da Percorsi pericolosi(Strade cattive, 1973), con cui dialogava L'accoglienza; Bob Fosse dall'opera teatrale (1966) e dal film (1969) Carità, amore mio (Sweet Charity), a cui si fa riferimento Le notti di Cabiria; Il fondo del cuore (Uno dal cuore, 1982), di Francis Ford Coppola. Questo, dentro Segreti di famiglia (Segreti di famiglia, 2009) e Alejandro González Iñárritu, in Bardo, falsa cronaca di alcune verità (Bard, falsa cronaca di una manciata di verità, 2022), hanno svolto i propri Otto e mezzo, ampliando così il quadro della riflessione della critica brasiliana sull'opera di Fellini in un contesto cinematografico globale.
A parte Luiz Fernando Carvalho e Selton Mello, non sembra esserci stato un dialogo più profondo con altri cineasti brasiliani: l'evocazione Felliniana in Giorno top giralo (1989) e Quello grande circo mistico (2018), di Cacá Diegues, l'esercizio di rileggere∕filmare Su notti di cabiria (2007), e i titoli di la strada della vita (1980), di Nelson Pereira dos Santos, e mi ricordo (2005), di Edgar Navarro, sono piuttosto omaggi al regista italiano, come quello tributatogli anche da Caetano Veloso nel film Cinema parlante (1986) e sull'album Omaggio a Federico e Giulietta (1979), nella già citata “Giulietta Masina” e, soprattutto, in “Trilhos Urbanos”, in cui recupera certe atmosfere dei primi lavori del cineasta, come rivela in Il mondo non è chato: “Ero sicuro di cantare anche 'Trilhos Urbanos', perché era necessario mettere tutto nella prospettiva della mia infanzia a Santo Amaro, dove vidi per la prima volta i film di Fellini e dove questa sensazione di recupero metafisico del tempo perduto che è simile alla sensazione che provo in questi film”.
Nel teatro e nella letteratura questo dialogo era presente, anche se timidamente. L'albo dei fumetti Felliniani Il viaggio di G. Mastorna detto Fernet (con disegni di Milo Manara) è stato trasformato in pièce da Marcelo Rubens Paiva Il viaggio (2012), mentre il successo di Broadway Nove (1982), di Maury Yeston e Arthur Kopit, vinse le tappe brasiliane nel Nove – un musical Felliniano (2015). Se il poeta Manoel de Barros, in Ritratto dell'artista quando cosa (1998), riferito esplicitamente al cineasta – “Un giorno mi chiamarono primitivo:/ Ho avuto un'estasi. / Proprio come quando chiamavano Fellini clown: / E Fellini era estasiato” – come ha riferito Galharte, Cristóvão Tezza ha fatto dell’opera di Fellini un esempio di “cinema fortemente autoriale”, poiché “non distinguiamo più un film da un altro; l’opera diventa linguaggio.”
A sua volta Luiz Ruffato attribuisce al successo ottenuto nel 1974 l'intenzione di diventare scrittore: “Quando decisi di scrivere i miei primi racconti, alcune premesse Felliniane, esposte in modo più oggettivo in Amarcord, ha guidato le mie scelte. La forza della memoria. L'importanza della banalità quotidiana. La frammentazione del discorso. Il clima onirico come risorsa per esacerbare il reale. Il tutto compreso dalle sue parti. E, soprattutto, rispetto per i personaggi, ritratti nella loro dignità più profonda”.
Il lavoro del regista è stato anche oggetto di mostre come Figurati – Retrospettiva Federico Fellini (San Paolo, 2004); Delirio Felliniano (Salvador, 2015), un'altra retrospettiva della sua filmografia; Circo Fellini (San Paolo, 2005), quando furono esposti una serie di suoi disegni; Tutto Fellini (Rio de Janeiro-San Paolo, 2012), che ne ha mantenuto vivo il ricordo, così come il film di Ettore Scola Che strano chiamarsi Federico (Che strano chiamarsi Federico, 2013), un grande successo di pubblico in Brasile, che ha permesso ai suoi amanti di perdersi il suo fantastico universo.
*Mariarosaria Fabris è professore in pensione presso il Dipartimento di Lettere Moderne della FFLCH-USP. Autore, tra gli altri libri, di Il neorealismo cinematografico italiano: una lettura (edusp).
Versione riveduta del testo omonimo pubblicato negli Atti del 7° Seminario Nazionale Cinema in Perspective e XI Academic Film Week, Curitiba, 2018.
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note:
[1] Suggerimento del prof. Luiz Carlos Sereza, nel dibattito seguito alla presentazione di questo lavoro al seminario del 2018.
[2] Girato nel 2° semestre del Corso di Formazione Superiore presso Audiovisual-USP. Dall'estratto a cui si accede youtube la paternità non è stata dichiarata.
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