da PRODUZIONE MARIAROSARIA
Considerazioni sulla mostra “L’estate del 1945 in Italia: il viaggio di Lina Bo nelle fotografie di Federico Patellani”
Negli ultimi giorni dell'aprile 1945 l'Italia si liberò definitivamente dal nazifascismo. L'insurrezione aveva preso piede quasi contemporaneamente nelle città che formavano il triangolo industriale nel nord del Paese: Genova, Milano e Torino. Per commemorare la fine del conflitto mondiale verrà simbolicamente scelta la data del 25 aprile, primo giorno della rivolta di Milano, capitale organizzativa della Resistenza.
Con la fine della guerra, gli italiani affrontarono l'arduo compito di ricostruire un Paese ridotto a un paesaggio di rovine, come nota il fotoreporter Federico Patellani, in un testo carico di un certo umorismo – “La vita delle macerie” –, scritto a caldo: “Se un viaggiatore mi chiedesse qual è l'aspetto più strano della vita italiana oggi, non avrei dubbi e direi: la vita di macerie […]. I residenti delle città bombardate si sono abituati a vivere in mezzo alle macerie della loro città e hanno saputo approfittarne. Povertà, adattabilità, anche corruzione. Chi, durante i bombardamenti, sotto i bombardamenti – magari rifugiandosi in una cantina pericolante, che al primo soffio d'aria sembrava pronta a crollare sulla testa di chi vi si era rifugiato – poteva immaginare che ogni bomba che esplodeva creava decine di angoli appartati per fidanzati del 1945 o sale d'attesa per donne di strada disoccupate? Chi avrebbe pensato allora che il suo soggiorno al pianterreno, una volta rasa al suolo la casa, si sarebbe trasformato in un dormitorio a cielo aperto per gli indigenti? Il beneducato giovane, la cui casa aveva un bell'androne ad archi, non poteva immaginare che uno di quegli archi – l'unico destinato a restare in piedi – acquistasse l'aspetto di un rudere del Foro Romano; Nemmeno il costruttore di case popolari nel 1915 [avrebbe potuto immaginare] che, trent'anni dopo, nel cortile da lui progettato per i giochi della numerosa stirpe degli operai, polizia e banditi si sarebbero scambiati colpi di mitra. Questa è tutta la vita in mezzo alle macerie. Si fa l'amore e si pratica il banditismo, si gioca il sonno e si gioca a carte. In generale si può dire che oggi, in mezzo alle macerie, si fa quello che si faceva una volta sui prati delle periferie. E si potrebbe anche dire che, oggi, la vera periferia è nel centro della città, in mezzo alle macerie”.
Lo scenario di desolazione che si osservava in tutta la penisola guidava la rivista Domus da Milano per commissionare al fotoreporter un reportage sui danni provocati dalla guerra e sulle condizioni abitative del paese, i cui testi sarebbero a carico dei due condirettore del celebre periodico ideato da Gio Ponti, prestigioso architetto e designer . Nel 1941 Gio Ponti era partito Domus fondare Lo stile nella casa e nell'arredamento, portando con sé i due giovani collaboratori, che però nel 1943 torneranno alla rivista precedente. In Documenti e notizie raccolti in trent'anni di viaggio nel su”, annotava Federico Patellani di aver intrapreso un viaggio verso sud, “alla fine dell'estate del 1945, quando in macchina, in compagnia degli architetti Lina Bo e Carlo Pagani, partii da Milano alle prese con gravissimi dissesti causati da La disperazione tedesca e la lentezza degli Alleati nella fase conclusiva della guerra in Italia e nelle battaglie per la liberazione di Roma”.
Registrando anche, nella stessa pubblicazione: “È la prima volta che scendo al sud, nel dopoguerra, in compagnia degli architetti milanesi Bo e Pagani. La ricognizione dei monumenti distrutti diventa ben presto una ricognizione delle rovine causate agli uomini dalla guerra, soprattutto nell'ultimo anno del lento avvicinamento degli Alleati a Roma. A Valmontone, le ombre delle due torri della Colegiada da Assunção si perdono tra le macerie di un villaggio senza vita. Più della metà dei suoi abitanti trovò rifugio tra le traballanti mura settecentesche del palazzo Doria. Scendendo verso Cassino, spiccano nel paesaggio le piante divelte e i villaggi devastati sulle alture”.
Il reportage, iniziato nel capoluogo lombardo, proseguirà in Emilia-Romagna – Marzabotto (che Pier Paolo Pasolini rievocherà in Saló o i 120 giorni di Sodoma, 1975), una Marzabotto deserta, dopo la strage di civili perpetrata da un reparto nazista, tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944, come rappresaglia per l'appoggio dei suoi abitanti alla partigiani –, dalla Toscana (Firenze; Buonconvento e Radiocofani, entrambe in provincia di Siena) e dal Lazio – Acquapendente (in provincia di Viterbo); Viterbo stessa; Cassino (in provincia di Frosinone) e Valmontone (in provincia di Roma) –, regione in cui finì, quando i tre viaggiatori quasi contemporanei (Patellani era del 1911; Pagani, del 1913; Bo, del 1914) raggiunsero il capoluogo del paese.
È quanto si registra nella mostra “L'estate del 1945 in Italia: il viaggio di Lina Bo nelle fotografie di Federico Patellani”, organizzata da Francesco Perrotta-Bosch e realizzata dall'Instituto Italiano de Cultura de São Paulo dal 10 agosto a settembre 7 ottobre di quest'anno. Nel giardino dell'istituzione è stata allestita una struttura metallica che ha sostenuto le quarantacinque foto esposte ei pannelli esplicativi che contenevano praticamente le stesse informazioni del volantino distribuito al pubblico. La pianta della struttura, cava, ha consentito una visione concomitante di un insieme di opere, consentendo un'interazione simile a quella ottenuta con l'utilizzo dei cavalletti in vetro realizzati da Lina Bo Bardi per la galleria d'arte del Museo di San Paolo. Riferimento intenzionale, allusione involontaria o semplice associazione di idee causata dal montaggio?
Nel tentativo di ricostruire, a quasi otto decenni di distanza, un viaggio così accidentato, lo stesso curatore della mostra segnala alcune inesattezze: “Ci sono dubbi sulla sequenza del percorso: il trio potrebbe essere andato direttamente a Roma o aver visitato alcuni comuni per sud e poi tornare nella città eterna”. La foto “Roma, Campo Marzio – architettura fascista – sede dello Studio d'Arte Palma, pinacoteca di Pietro Maria Bardi” (che non faceva parte della mostra, ma è disponibile sul sito del Museo di Fotografia Contemporanea), in cui Lina Bo è ritratta in compagnia del suo futuro marito e di un uomo non identificato, non serve a chiarire molto, in quanto potrebbe essere stata scattata tra l'8 agosto e il 30 settembre 1945, come annotato nel suo fascicolo. Bo e Pagani conoscevano Bardi “a distanza” fin dai primi anni Quaranta, quando iniziò a collaborare con la nuova rivista diretta da Gio Ponti. Neanche un testo pubblicato nel catalogo della mostra “Patellani Valmontone 1940”, nel 1945, aiuta a sciogliere l'enigma, poiché, non essendo datato, potrebbe essere stato scritto dal fotografo dell'epoca oppure potrebbe essere un'osservazione a posteriori:
Dall'alto della chiesa
visione di valmontone
verso
dalla strada Casilina
che differenza c'è
tra queste rovine
e quelli dei fori romani
visto dal Palatino?
Nessuno, tranne quello
a Roma col tempo
l'erba è cresciuta di nuovo
tra una rovina e l'altra.
Il fatto che non ci siano immagini di Lina Bo a Cassino o a Valmontone, come sottolinea Perrotta-Bosch, non significa che non abbia visitato entrambi i luoghi, in quanto non sempre la mostra presentava documenti fotografici che attestassero la sua presenza durante tutto il viaggio . . Se l'architetto fu ritratto a Milano, Buonconvento, Roma e, pare, ad Acquapendente, lo stesso non accadde in altre località: Marzabotto, Firenze, Radiocofani, Viterbo, Valmontone e Cassino. In questa, Patellani ha visitato sia il monastero benedettino arroccato in cima a Montecassino, sia il paesino ai suoi piedi, che si confonde un po' nel cartella.
Tuttavia, in “La vie dans le cimétière (Cassino e Montecassino)”, testo dattiloscritto del settembre 1945, il fotografo aveva riportato chiaramente le sue impressioni: “Dicono: Cassino e Montecassino sono un solo cimitero. Cinquemilacinquecento anglosassoni laggiù nella pianura tra i meandri del [fiume] Garigliano, quelli che morirono nel tentato assalto frontale al monte. Il villaggio, senza case. Le piste, sul pendio che porta al monastero, con gli innumerevoli scheletri neri degli ulivi. Il monastero ridotto a palcoscenico teatrale in rovina e poi, sulle pendici settentrionali, i duemila polacchi uccisi nella manovra di accerchiamento che diede agli assalitori il possesso del bastione, inespugnabile per lunghi mesi. Le macerie in cima alla collina sono la dimora dei monaci. Le poche celle rimaste sono sepolte sotto minuscole schegge di marmi pregiati e l'imboccatura della scala di accesso emerge inaspettata tra i volti di angeli caduti e decapitati. I monaci, chinati sul terreno, passano le giornate a raccogliere frammenti, a spostare pietre, a rendere più accessibile un passaggio. C'è ancora chi, ogni giorno, rispolvera un altare, diventato una reliquia preziosa quasi quanto quelle che contiene. La sera i monaci camminano lenti tra i sassi, leggono preghiere, e sembrano orsi rinchiusi in una nuova gabbia a cui non si adattano le varianti del percorso, con cui una sorta di viaggio sulla superficie di pochi metri quadrati della gabbia precedente era possibile. Il passo dei monaci non si fida della vecchia abitudine – le pietre, le schegge ei detriti sono troppi – ma accetta la nuova realtà e dà vita a una nuova abitudine. Sui pendii, i tronchi meno anneriti mostrano qualche foglia. Laggiù, in seguito, è apparso un villaggio, Nuova Cassino, fatto di case a un piano, una specie di capannoni in muratura a basso costo, destinati ad accogliere almeno una parte dei senzatetto. Ma non è questa costruzione emergenziale che conta ai nostri occhi. Passeggia lungo i sentieri che i soldati hanno creato passando tra i cumuli di macerie, all'altezza dei soffitti dei magazzini. Troverai persone. Se una casa è a un piano, cosa rara a Cassino, guarda dalle finestre all'altezza degli occhi: è abitata. L'istinto riportò l'animale nella sua tana. La donna che torna portando l'acqua ha sulla testa un mucchio di mattoni intatti, raccolti qua e là tra le macerie disabitate. Nel paesaggio coperto di polvere, la vita tornava lentamente, ribelle e arrabbiata. Insomma, solo i due cimiteri di guerra sono veramente morti”.
Anche la datazione del viaggio non è molto precisa. L'estate boreale va dal 20-21 giugno al 22-23 settembre, quindi, se Patellani riferisse che l'inizio del viaggio verso sud avvenne nella “tarda estate del 1945”, si presumerebbe che avvenne intorno a settembre. Le foto della mostra, tuttavia, mostrano date di altri mesi. L'articolo “L'estate del 1945”, pubblicato dalla rivista A nella sua edizione del 30 settembre di quest'anno, riproduce il testo del volantino e le stesse quattro immagini, oltre a quella che fungeva da manifesto della mostra, aggiungendo però date più precise in tre di esse: se quelle de “L'ombra della chiesa di Santa Maria Maggiore in Valmontone” e “Lina che sale un piccolo burrone in piazza Augusto Imperatore a Roma” hanno un generico 1945, sono datate luglio 1945 a “Lina Bo nel rione Baia del Re a Milano” e “Bambini del quartiere Baia del Re a Milano” (quello del manifesto), e dell'agosto 1945 quello di “Palazzi addossati a una strada di Firenze”. Altre foto della devastazione del capoluogo toscano collocano la presenza di Patellani in città tra il 30 luglio e il 31 agosto, secondo il sito LombardiaBeniCulturali.
“Palazzi addossati a via Firenze”, quando pubblicato sulla rivista A, ha perso il rilievo che gli era stato dato nel cartella, dove, occupando tutto il retro della pagina, funziona come una sorta di manifesto. È un'immagine emblematica per comprendere la traiettoria futura dell'architetto in Brasile, perché, come risalta a chi conosce il suo lavoro e come sottolinea l'autrice del testo, le travi di legno che si incrociano sulla sommità di due edifici in una stretta Rua Florentina rimandano immediatamente al Sesc Pompeia, con i suoi alti camminamenti in cemento armato precompresso che collegano i due grandi volumi costruiti accanto ai capannoni di una vecchia fabbrica, e si può anche aggiungere che le finestre irregolari del prisma maggiore e quelle “disallineate” delle più piccole ricordano i varchi ei buchi aperti dalle bombe nell'edificio che fa da sfondo alla foto di Federico Patellani.
Tornando alla domanda precedente, poiché le date relative al soggiorno a Firenze (agosto) e nelle località a sud di Roma (settembre) sono confermate dagli archivi di altre foto o da una manciata di testi, si può presumere che Federico Patellani conservato nel suo ricordo solo l'ultimo mese di viaggio, forse perché mi trovavo di fronte a una realtà più impattante. Per quanto riguarda l'inizio di questo lungo viaggio, resta da delineare alcune considerazioni in merito ai record milanesi. Come sottolinea Perrotta-Bosch, il 12 luglio Patellani, Bo e Pagani si sono recati nel quartiere Baia del Re e in quei giorni visitavano ancora il baraccopoli, cioè le favelas, per documentare le condizioni di vita nelle aree periferiche.
Apparentemente, il compito è stato svolto in tre fasi e non in due. Il 10 luglio il trio era nelle favelas; l'11 è stata la volta di caso di ringhiera – in cui più casette si affacciano sullo stesso corridoio esterno, con ringhiera, che funge anche da balcone – nella regione di navigli (vecchi canali artificiali costruiti per scopi commerciali), concludendo il sondaggio Baia del Re. Poiché le segnalazioni sono state effettuate in giorni consecutivi, è da presumere che i tre facessero parte dello stesso progetto. La mostra, però, ha dato poca importanza agli abitanti delle baracche, nessuna agli edifici lungo i canali (sceneggiatura del film Rocco e i suoi fratelli, di Luchino Visconti, nel 1960), concentrandosi maggiormente sulla comunità dei nomi esotici.
L'attuale quartiere di Stadera nasce nel 1926 su un grande campo aperto dove l'Instituto Autónomo Casas Populares costruì nel 1886 appartamenti per ospitare famiglie povere, sfrattate o operaie, e residenti delle baraccopoli di Lambrate, Bullona e Crescenzago, alla periferia di Milano, oppure ospitato nel carcere dismesso di via Parini, in zona centrale. Il nome ufficiale del quartiere era 28 ottobre, in onore della marcia su Roma, tenuta nel 1922, in quella data, da migliaia di seguaci di Benito Mussolini, evento che segnò l'inizio dell'era fascista. I primi residenti arrivarono nel 1928, lo stesso anno in cui i milanesi diedero alla località un nuovo nome, Baia di Re (Baía do Rei), per indicare ironicamente una comunità in mezzo al nulla, data la distanza che la separava non solo dal centro della città, ma anche dalla sua periferia. Il soprannome ricordava la sventurata spedizione del Comandante Umberto Nobile, che il 15 aprile 1928 partì da Milano per il Polo Nord con il dirigibile Italia, che, sulla via del ritorno, fece sosta a Kongsfjorden (fiordo o cala reale) , in Norvegia, invece di atterrare, si è scontrato con la superficie ghiacciata.
Sia nei quartieri milanesi che in tutti gli altri luoghi visitati, l'obiettivo di Federico Patellani ha colto rovine e miseria, ma anche la ripresa della vita, dopo le devastazioni causate dalla guerra, la volontà di ricostruire il Paese, da parte di uomini e donne che si abbinavano tra loro nello svolgimento dei compiti più ardui, come descritto nel testo sopra citato “La vie dans le cimétière (Cassino e Montecassino)”, oppure cliccato, ad esempio, sulla foto in cui tre donne di questi stessi rioni portano sulla testa secchi di calce (presumibilmente) o sassi, arrampicandosi su assi inclinate o una scala di legno sul retro, per aiutare due muratori nella ricostruzione di un edificio danneggiato.
Per questo il fotografo si indignò per un commento del colonnello Harold Stevens, uno degli annunciatori delle trasmissioni in corsivo su Radio Londra, dal 13 luglio 1943, che sembrava ignorare la pertinacia degli italiani nel curare le ferite lasciati dal conflitto mondiale: “I miei amici mi chiedono se non mi vergogno a spedire queste foto all'estero e mi rimproverano di essere sempre pronto a documentare la nostra corruzione e, soprattutto, la nostra miseria. Confesso francamente che non mi vergogno e non ho rimpianti per essere rimasto spesso in agguato con la mia Leica. Il nostro Paese e la nostra gente stanno forse vivendo i momenti più dolorosi e miserabili della loro storia. Dicono anche che ce lo meritiamo. Anche così, non si dovrebbe fare lo struzzo. La mia amarezza era profonda, ma non l'ho fatto. In ogni caso, le mie foto dimostreranno qualcosa. Qualche mese fa, durante il suo incarico a Radio Londra, il colonnello Stevens faceva il punto sulla situazione interna nei diversi paesi dell'Europa devastata. In Francia si rinasce – ha detto; in Germania si lavora sodo. In Italia si balla. Chiaramente, il colonnello stava scherzando. L'Italia non balla, per niente”.
Harold Stevens stava certamente esagerando, perché riferiva una mezza verità. Diversi autori italiani hanno fatto riferimento a una certa frenesia che si impadronì del paese, come ha notato ad esempio lo scrittore Raffaele La Capria, riferendosi alla sua città, che, una volta liberata dal giogo nazifascista nell'ottobre del 1943, stava vivendo un “ breve vitalità degenerata”: “Napoli era una città vivissima, esplosiva, carica di una tale febbrile carica di vitalità che sembrava quasi volesse recuperare in pochi mesi tutti gli anni di torpore e di rovine appena trascorsi. Era una vitalità meravigliosa, era come se i napoletani vivessero seguendo il ritmo frenetico del boogie-woogie, che il segnorine dei quartieri popolari sapeva ballare con una varietà di evoluzioni e con un'energia superiore a quella di qualsiasi soldato americano”.
Non era solo il cosiddetto segnorine – il termine era una corruzione di signorina (= signorina), cioè quelle donne che avevano rapporti sessuali con soldati stranieri, in genere prostitute –, ma anche uomini e donne che lavoravano duramente tutta la settimana e cercavano un po' di svago. In questo senso basterebbe ricordare il film Riso amaro (1949), di Giuseppe De Santis, girato nel 1948 nelle risaie piemontesi della pianura padana, dove le mondine e gli uomini impiegati nei lavori stagionali, di notte, dopo un'estenuante giornata di lavoro, trovavano ancora la forza di ballare il boogie-woogie.
In altre parole, lo spettacolo non ha impedito di lavorare con tenacia per riprendere la crescita del Paese, come lo stesso Federico Patellani ha registrato, a gennaio e a fine maggio-inizio giugno 1946, nelle immagini che accompagnano i testi La vita delle macerie e L'Italia ne danse pas. Le due foto del primo servizio – pedoni che rimuovono macerie con una pala e questi stessi operai che spingono una grossa carriola in cui hanno raccolto le macerie –, riprodotte sul sito LombardiaBeniCulturali, ha continuato a mostrare una tendenza attuale sin dal rapporto effettuato in Etiopia ed Eritrea, nel 1935, quando Federico Patellani prestava servizio nell'esercito. Alcune di queste immagini illustreranno un articolo giornalistico del quotidiano milanese L'Ambrosiano. Come ha sottolineato Paola Chiodi: “In questa prima esperienza lo stile narrativo che caratterizzerà costantemente il suo lavoro fotografico è folgorante; un gusto per lo svolgimento della narrazione, derivato anche dalla sua intensa passione per la letteratura”.
E, forse, ancora di più della sua ammirazione per il cinema, al cui esempio dovrebbe guardare la fotografia, senza lasciarsi trascinare dalla tentazione di imitare “composizione e chiaroscuri” della pittura (a cui si era precedentemente interessato), come scriveva In "Il giornalista nuova formula” (1943), aggiungendo: “è necessario raggiungere un certo automatismo, sia nel far funzionare l'apparato, sia nel gusto per l'inquadratura. E, per quanto riguarda la scelta del soggetto, a poco a poco si formerà in noi un istinto fotografico. […] la velocità è la chiave per una buona fotografia moderna; se è giusta la mia aspirazione a realizzare fotografie che sembrino vive, attuali, palpitanti, come sono solitamente i fotogrammi cinematografici, credo sia necessario trovare nel cinema l'ispirazione per la fotografia di oggi. […]. La 'fotografia in movimento' richiede la scelta di un momento narrativo come solo i direttori della fotografia ci hanno abituato a vedere […]”.
Questo dopo aver sintetizzato come la fotografia stesse conquistando spazio sui giornali, passando da mera illustrazione a testi complementari e facendo emergere il fotogiornalismo, grazie anche alle nuove esigenze dettate dal cinema nei lettori: “Preceduto solo dai settimanali sportivi illustrati, era il documentario e il cinema d'attualità imponendo definitivamente il suo gusto e il suo sistema […]. Se allo spettatore piaceva vedere un certo evento o un certo tema illustrato da un nastro commentato dalla voce dell'annunciatore, perché non si potevano produrre giornali con lo stesso criterio, ricchi di materiale fotografico commentato da didascalie e articoli? In Italia, il tentativo è stato effettuato da Tempo e la diffusione raggiunta in Europa dal settimanale italiano conferma la vittoria della formula 'settimanale fotografico' anche in Italia”.
È dal 1939 in poi che, abbandonata la facoltà di giurisprudenza e dedicatasi definitivamente alla sua professione, Federico Patellani inizia a collaborare con il periodico Tempo, contribuendo all'affermazione di un nuovo tipo di fotogiornalismo in Italia, simile a quello praticato da altre riviste: quelle nazionali L'Illustrazione Italiana, Autobus e Oggi; il francese Vu; i tedeschi Berliner Illustrierte Zeitung e Müncher Illustrierte; l'inglese Immagine Post; i nordamericani Guarda e Vita, essendo quest'ultimo il grande modello da imitare. In redazione entra in contatto con personaggi di spicco del panorama culturale italiano: Alberto Mondadori, fondatore e direttore della rivista; Indro Montanelli, caporedattore; gli allora direttori Alberto Lattuada e Cesare Zavattini; i poeti Salvatore Quasimodo e Leonardo Sinisgalli; il designer Bruno Munari, tra gli altri.
Nonostante le funzioni specifiche di ogni collaboratore, il direttore del settimanale ha praticamente preteso che i fotografi fossero anche giornalisti e questi, a loro volta, pagassero per i fotografi, perché immagine e testo si completassero a vicenda, come nel servizio”Minatori di Carbonia”, a firma del giornalista Lamberti Sorrentino, che fu anche autore delle foto, una delle quali stampata sulla copertina del primo numero della rivista, il 1° giugno 1939. Nascono così i fototesti, cioè fotografie reportage in cui l'immagine, non più secondaria rispetto alla scrittura, acquistava risalto, mentre il testo diventava annotazione, di varia lunghezza, sulla foto. Sebbene il termine inizi ad essere utilizzato dal numero otto di Tempo (20 luglio dello stesso anno), da rinviare all'articolo “La cava di Giuseppino”, dall'allora giornalista Domenico Meccoli, in generale, la paternità del fototesto è attribuita a Federico Patellani, che seppe distinguersi nel suo campo di attività, per la qualità delle sue immagini e dei suoi commenti.
In questo nuovo tipo di giornalismo la scrittura poteva o meno essere affidata al fotografo stesso, ma erano vietate le ridondanze: quanto raccontato nelle foto non poteva essere ripetuto nel testo, che non sempre era seguito dai collaboratori, come ricordava Bruno Munari , sottolineando che i fotografi hanno capito meglio cosa significava raccontare attraverso le immagini e come costruirci sopra un testo. E il caso di Patellani era eccezionale perché, sempre secondo il designer, “essendo originariamente un pittore, sapeva bene cos'è un'inquadratura, cos'è un'immagine in relazione al suo spazio”.
Inoltre, nonostante fosse il periodo della magniloquenza fascista, il fotografo aveva forgiato uno stile in cui prevaleva “la semplicità, l'immediatezza, l'assenza di retorica”, nelle parole del saggista e critico Goffredo Fofi: “Federico Patellani resta un rarissimo esempio di un fotoreporter, grazie alla sua capacità di essere insieme un grande fotografo e un grande giornalista, preoccupato di raccontare, con criteri oggettivi, ciò che vede e comprende al pubblico più vasto possibile, con parole e immagini in stretta e reciproca dipendenza. Il suo metodo è l'onestà, l'ostinazione, è l'attenzione alle occasioni che richiedono di essere scoperte, è l'interesse per gli uomini e le loro cose quotidiane, i loro riti, il loro ambiente; è l'umiltà di fronte alla verità, è l'amore per un prodotto ben fatto, è il fatto che ti consideri più un artigiano che un artista, è rispetto per i clienti, ma, prima ancora, per la realtà”.
L'essenzialità delle sue foto in sintonia con la concisione e la concretezza del suo testo sono all'origine, sempre secondo Fofi, di “un modello di giornalismo che sa istintivamente stabilire il giusto equilibrio, sempre, tra identificazione e distanza, tra narrazione e morale, tra semplicità e complessità”. In esso “l'immagine prevale sempre, anche negli articoli più lunghi: l'immagine non può dire tutto, ma è ciò che dice ciò che è fondamentale, e il resto è più informazione che racconto, più prosa che poesia, più complemento del nucleo ”.
Il 1939 è anche l'anno in cui Federico Patellani, insieme a Carlo Ponti, fonda la casa di produzione cinematografica ATA, che finanzierà piccolo mondo antico (1941), di Mario Soldati, di cui Alberto Lattuada fu uno degli sceneggiatori, oltre che aiuto regista. Patellani ha registrato il dietro le quinte della realizzazione, mentre il futuro regista ha fotografato location, set e l'interprete principale, Alida Valli, durante le pause delle riprese. L'incontro tra i tre lombardi (tutti nati in provincia di Milano: Patellani era di Monza; Ponti, di Magenta; Lattuada, di Vaprio d'Adda) è stato ricordato nel 2002 da quest'ultimo, in un testo parzialmente riprodotto da Giovanna Calvenzi: “Ho conosciuto Federico Patellani a Milano, negli anni 1930. Eravamo a Milano e volevamo fare cinema. Io venivo da cinque anni al Politecnico, lui da altre scuole, soprattutto da altre esperienze di vita. Volevamo fare cinema a Milano, con il produttore Carlo Ponti. Ma il cinema, a Milano, non decollava, bisognava andare a Roma. Ci siamo sempre detti: “Dobbiamo scappare da Milano”. Ma io solo fuggii, con Carlo Ponti, dopo l'8 settembre [1943]. Patellani, invece, è rimasto e ha fatto la sua straordinaria carriera di fotografo a Tempo e su tanti altri giornali”.
La collaborazione tra il fotografo e il regista prosegue all'inizio del decennio successivo, quando dirige Alberto Lattuada Il lupo e Federico Patellani è stato assistente alla regia, oltre a scattare foto di scena e location, che poi hanno dato origine al libro Matera1953, firmato da entrambi. Come fotoreporter per la rivista Tempo, Federico Patellani aveva già accompagnato la nascita del film Stromboli e la clamorosa storia d'amore tra Roberto Rossellini e Ingrid Bergman, realizzando una serie di immagini che, in parte, hanno fatto parte dell'articolo “Tormentato amore allo Stromboli” e, sette decenni dopo, hanno dato origine al volume Stromboli 1949.
Prima della fuga di Lattuada e Ponti a Roma nel 1941, Federico Patellani, richiamato nuovamente dall'esercito, si recò in Russia nella squadriglia di operatori di ripresa fotografici e cinematografici, avendo anche girato immagini per la rivista Tempo. A seguito dell'armistizio di Cassabile, annunciato l'8 settembre 1943, quando l'Italia, cessate le ostilità contro gli Alleati, trasformò le forze armate tedesche di stanza nel Paese in truppe di occupazione, il fotoreporter, come migliaia di italiani, fu internato in un campo di prigionia in Svizzera fino alla fine della guerra, esperienza che non ha mai mancato di documentare.
Tornato a Milano, Federico Patellani riprende l'attività fotografica e cinematografica, cimentandosi anche nella regia di documentari. Oltre ai lavori sopra citati, nel 1954-1955 realizza due cortometraggi per la televisione nel sud Italia: Viaggio nella Magna Grecia e Viaggio nei paesi di Ulisse – e, nel 1956, in un lungo viaggio in Messico, America Centrale (Guatemala, El Salvador, Honduras, Nicaragua, Costa Rica, Panama) ed Ecuador, percorre l'itinerario della civiltà Maya, guidando, in collaborazione con lo scrittore Aldo Buzzi, America pagana. Da questo lungometraggio nasce anche, l'anno successivo, un reportage dallo stesso titolo, pubblicato a capitoli dalla rivista Epoca e al libro Io Maya (Milano: Aldo Martello Editore).
Sebbene la sua esperienza nel campo della settima arte sia stata breve, il rapporto del fotografo con le immagini in movimento è stato sempre intenso fin dall'inizio, come già accennato e come testimoniato da Ennery Taramelli: “Più che a un cinema di finzione, Patellani aspira a un cinema documentario, come quella di Flaherty e, anticipando gli esiti realistici della fotografia del dopoguerra, già propugnava, in quegli anni, una visione documentaristica. Il suo interesse principale sembra essere legato ad un'immagine che sia la sintesi narrativa di un fatto o evento colto e restituito nella sua essenzialità. In questo senso la scelta della fotografia come immagine capace di fissare nel gesto istantaneo di cliccare un spaccato di vita, catturato e sorpreso nella sua fragranza di fatto narrativo, avrà la sua performance più autentica nel dopoguerra. Nel 1945, quando Tempo verrà pubblicato ancora una volta sotto la direzione di Arturo Tofanelli, Federico Patellani continuerà ad essere la personalità più prestigiosa della compagine giornalistica. E sarà attraverso le pagine di Tempo che Federico Patellani racconterà l'Italia del dopoguerra, in una serie di articoli che riflettono la devastazione del territorio italiano del dopoguerra, da nord a sud. La scelta di rivolgere la sua ricerca visiva al mondo della stampa e dell'informazione, se lo separa dal mondo della fotografia d'autore, ne fa una personalità di spicco per quella flessione verso la narrazione che caratterizzerà la fotografia del Neorealismo”.
Senza contraddire l'analisi di Taramelli, non si può non osservare che alcune immagini di Federico Patellani sono in grado di suggerire altre chiavi di lettura. Soffermandosi solo sulle fotografie esposte in “L'estate del 1945 in Italia”, si può evidenziare, ad esempio, l'effetto di una luce quasi caravaggesca che irrompe tra le pareti del palazzo Doria-Pamphilj a Valmontone, o dire che la veduta di la dall'alto di questa stessa location con la sagoma delle torri della sede che svetta sulle case semidistrutte, in un sapiente gioco di luci e ombre, sommato all'angolazione prescelta e alla scelta di cosa immortalare, non riescono a suggerire una lettura dell'immagine che vada oltre la mera documentazione fotografica: quella di una minaccia che ancora incombe sul luogo. Lo stesso si può dire di un'immagine di Acquapendente, soprattutto se la posa della donna sdraiata è accostata alla spontaneità dei corpi lasciati a terra durante una pausa dalle fatiche in campagna, in piena estate, nella foto intitolata “Ferragosto” (Comacchio, 1953). , di un altro fotografo neorealista, Pietro Donzelli.
Come sottolineava Eugenio Giannetta nel 2015, commentando una mostra dedicata a Federico Patellani: “Allo scatto crudo del reportage, però, ha saputo mescolare sapientemente la lezione del cinema e una sensibilità artistica inconsueta. Per questo i suoi ritratti non sono solo testimonianze di eventi, ma diventano uno sguardo curioso e particolare sul mondo, raccontato attraverso una potente capacità evocativa, perfettamente rappresentato dalla donna supina davanti alla carcassa di un aeroplano in 'Acquapendente (Viterbo) 1945'. Non è possibile vederne il volto, ma bastano il contesto, la cura dei dettagli, la leggera tensione di una postura quasi innaturale e insieme reale per poter affermare che siamo di fronte a un disegno più grande, grazie al quale la mente è libera di immaginare”.
Le suddette foto riportano la mostra tenutasi a San Paolo, sulla quale ci sono ancora dei restauri da fare. La mostra stessa funziona, per la selezione e soprattutto per la forza della documentazione fotografica, e assolve al ruolo di documentare quanto annunciato nel suo sottotitolo: “il viaggio di Lina Bo nelle fotografie di Patellani”. Lo stesso però non si può dire del testo di presentazione, incentrato sull'architetto e sulla descrizione delle foto, con poche osservazioni fattuali e nessuna spiegazione su Pagani e Patellani, se non che uno era architetto e l'altro fotografo. , e nessun dato sulla pubblicazione del rapporto, che probabilmente non avvenne, perché nel 1946-47 la rivista Domus sospeso le sue attività.
Carlo Pagani poteva almeno essere ricordato, in termini generali, per il periodo in cui visse con Lina Bo. I due si conobbero a Roma, alla Facoltà di Architettura, che lui frequentò nel 1938-1939 e dove lei si laureò nel 1939. L'anno seguente Lina si trasferì a Milano e iniziò a lavorare presso lo studio Bo-Pagani, al civico 12 della Via del Gesù, distrutto nell'agosto del 1943 durante i bombardamenti che devastarono la città. Già allievo di Gio Ponti alla Facoltà di Architettura di Milano, fu Pagani che, nel 1940, presentò il grande architetto a un collega, al quale era legato “da stima reciproca e, probabilmente, da amicizia sentimentale”, secondo a Sara Catalano. La collaborazione tra i due finì nel 1946, quando Lina Bo tornò a Roma, dove avrebbe sposato Bardi.
“La maestria di Federico Patellani, precursore del moderno fotogiornalismo italiano” è stata evidenziata solo da Michele Gialdroni (direttore dell'Istituto Italiano di Cultura di San Paolo) nella presentazione del cartella. Se nel volantino, destinato al grande pubblico, si può rivelare la ridondanza del testo di Perrotta-Bosch rispetto alle immagini, divulgandola anche in Zum – rivista di fotografia, l'autore non si è preoccupato di fornire dati su Patellani, poco conosciuto in Brasile, anche se le sue opere sono già state esposte alla 3a Biennale Internazionale di Fotografia di Curitiba, tenutasi dal 5 ottobre al 26 novembre 2000.
I partecipanti alla mostra “Il neorealismo nella fotografia italiana” erano dieci, ciascuno con dieci opere: Mario De Biasi, Pietro Donzelli, Mario Giacomelli, Nino Migliori, Enrico Pasquali, Tino Petrelli, Franco Pinna, Fulvio Roiter ed Enzo Sellerio, oltre a Federico Patellani, che ha presentato foto sulle condizioni del trasporto pubblico a Milano, nel 1945, quando i passeggeri viaggiavano schiacciati o appesi al pianale dei camion, e su Carbonia, città mineraria fondata nel 1938 per sfruttare le riserve di carbone della Sardegna, i cui abitanti, nel nel dopoguerra, dovette affrontare la crisi del settore. Nove delle immagini catturate durante il rapporto facevano parte dell'articolo "Il dramma di Carbonia”, pubblicato dalla rivista Tempo (n. 5, 4-11 febbraio 1950, pp. 10-13).
Un campione molto significativo, al quale si potrebbero aggiungere, tra molti altri, i nomi di Cesare Barzacchi, Carlo Bavagnoli, Gianni Berengo Gardin, Alfredo Camisa, Mario Cattaneo, Pasquale De Antonis, Plinio De Martiis, Caio Mario Garrubba, Sante Vittorio Malli, Cecilia Mangini, Giuseppe Pagano, Stefano Robino, Giacomo Pozzi-Bellini, Ermanno Rea, Antonio Sansone, Nicola Sansone, Ferdinando Scianna, Roberto Spampinato, Pablo Volta e anche Alberto Lattuada, che si dedicò alla fotografia prima di passare al cinema, avendo pubblicato, in 1941, il libro Occhio quadrato, e, perché no?, da un giovane Michelangelo Antonioni, all'epoca critico cinematografico, che, il 25 aprile 1939, pubblicò sulla rivista Cinema, l'articolo “Per un film sul Po”, illustrato da nove foto da lui stesso scattate, testi e immagini che saranno alla base del suo primo documentario Popolo della polvere (1943).
Alcuni dei nomi citati avevano opere presentate nella mostra “NeoRealismo: la nuova immagine dell'Italia 1932-1960”, tenutasi a New York tra il 6 settembre e l'8 dicembre 2018, presso la galleria arte grigia e alla Casa Italiana Zerilli Marimò. Accanto a circa 175 immagini di oltre 60 fotografi, sono stati esposti reportage (installati nelle vetrine, come nel caso de “Il dramma di Carbonia”), locandine cinematografiche, estratti di film o opere complete – Ossessione (1943) e a terra fantastico (1948), di Visconti, Roma, città aperta (1945), di Rossellini, ladri di biciclette (1948), di Vittorio De Sica, riso amaro, Mamma Roma (1962), di Pier Paolo Pasolini –, e dibattiti, conferenze e catalogo sono stati tenuti da Enrica Viganò, curatrice della mostra, con prefazione di Martin Scorsese e testi di Fabio Amodeo, Gian Piero Brunetta, Bruno Falcetto e Giuseppe Pinna.
Non si può non notare che la datazione è stata ampliata con l'inserimento di un asse dedicato al Realismo durante il Fascismo, quando i mass media erano al servizio della propaganda governativa, nascondendo spesso le vere condizioni politiche e socioeconomiche dell'Italia. Diventa quindi lecito chiedersi quale fosse il significato del termine “realismo” nel periodo fascista e se il prefisso “neo-” si riferisse ad una ripresa dell'aspetto realista delle arti italiane o ad un nuovo sguardo proiettato su una realtà che, liberato dai dettami del regime, si è rivelato in tutta la sua crudezza. Naturalmente, c'erano delle eccezioni, come il rapporto Realizzazioni' del regime: i casoni, realizzato tra il 1936 e il 1937 e pubblicato a Parigi il 22 dicembre 1938, sulla rivista socialista La voce dell'italiano, in cui Eugenio Curiel e Fernando De Marzi denunciavano le precarie condizioni dei braccianti rurali della provincia di Padova (Veneto), che vivevano con i loro animali in misere case di canniccio e fango dai tetti di paglia, contraddicendo così l'apologia della vita di campagna decantata dal governo, o il documentario Il piano delle zitelle (1939), di Pozzi-Bellini, che sfidò anche il status quo portando sugli schermi un gruppo di pellegrini poveri, spettinati e sbrindellati, in una registrazione non filtrata.
Commentando la mostra di Curitiba, Ana Maria Guariglia, sottolineando che il Neorealismo fotografico era dedicato a “documentare la vita di personaggi reali”, ha anche osservato: “Le immagini in bianco e nero non esprimono solo la fame e la miseria del popolo italiano , ma la forza della vita che si apre passo dopo passo nonostante le avversità”, stabilendo, poi, un parallelo con alcuni film dello stesso periodo – da Roma, città aperta a Rocco e i suoi fratelli, attraverso ladri di biciclette, la strada di vida (1954), di Federico Fellini, e l'uomo di paglia (1958), di Pietro Germi, in uno spettro della mostra newyorkese un po' meno esteso di quello che sarebbe il neorealismo cinematografico.
Anche Gialdroni, parlando del viaggio intrapreso nel 1945 dal fotografo e dai due architetti, sottolineerà come l'immagine che si ha di quegli anni sia “dell'Italia ricostruita nel nostro immaginario dal cinema neorealista. Le immagini delle città bombardate e dei villaggi devastati riportano alla mente le storie di Sussurro e Nazione”. Infatti la seconda puntata (Napoli) e la quarta (Firenze) di paisà (1946), di Rossellini, sono ambientate tra le rovine di due città devastate dai bombardamenti. Sono sequenze impressionanti, soprattutto per lo stile quasi documentaristico delle inquadrature, che Rossellini porterà all'estremo Germania, anno zero (1948), dove le peregrinazioni di Edmund, un ragazzo di dodici anni, attraverso Berlino, rivelano tutta la distruzione della città.
Em Il ladro (1946), Lattuada ambienta nello stesso tipo di scenario anche le sequenze iniziali, in cui il protagonista, tornato in treno da un campo di prigionia in Germania, alla fine del viaggio sul cassone di un camion, intravede i segni di guerra, e quella del suo arrivo nel cortile del palazzo dove visse a Torino, quando il suo sguardo percorre tutti i ruderi che rimangono, in una suggestiva veduta panoramica a 360º. Sono film che dialogano con le opere di Federico Patellani che mostrano i danni provocati dal conflitto mondiale, colti in quel viaggio del 1945 e in altre occasioni.
I due ragazzi traballanti, uno dei quali porta sulle spalle un sacco strappato, che Pasquali cattura di spalle in “Bambini, periferia di Comacchio” (1955), sono fratelli dei giovani lustrascarpe (sciuscia, corruzione del termine inglese lustrascarpe), che giravano per Roma coperti di stracci vittime della tempesta (1946) di De Sica. Scattando da dietro uno spazzino milanese che spinge un camion della spazzatura, Spampinato entra NU (1955) ha dato alla sua istantanea lo stesso tono lirico raggiunto da Antonioni quando raccontò il faticoso viaggio degli spazzini romani in un documentario del 1948, NU (Urban Nettezza). Le baracche erette da Totó e dai suoi compagni su un terreno abbandonato a Miracolo a Milano (1951), di De Sica, non sono affatto diverse da quelle registrate da Patellani alla periferia della stessa città nel 1945, dove anche Dino Risi documenta la vita dei senzatetto nel cortometraggio Barbone (1946). Risale al 1953 la sequenza di immagini intitolata “Gigione e Mercuri” (XNUMX), in cui Pinna fotografa una minuscola troupe circense che si esibisce davanti ai passanti a Roma, la strada della vita (1954), in cui Zampanò e Gelsomina, per guadagnare qualche soldo, intrattenevano la gente all'aria aperta.
Anche se Enrica Viganò, in un'intervista a A, ha affermato che “molti fotografi avevano impressa negli occhi la forte poetica dei film neorealisti”, gli esempi sopra riportati dimostrano che non si trattava di una strada a senso unico, ma di un dialogo più articolato tra i due campi, e questo riconoscimento temi che i fotografi neorealisti seppero cogliere si manifestarono in un altro evento ricordato dallo stesso autore: “negli anni Cinquanta i cineasti chiedevano ai fotografi suggerimenti cinematografici e la rivista CinemaNuovo pubblicato in ogni numero un 'Foto-documentario' firmato da diversi fotografi con potenziali spunti per sceneggiature”.
I fotodocumentari, infatti, sono stati ideati dai critici cinematografici Guido Aristarco e Renzo Renzi, regista e membro del comitato di redazione di cinema nuovo, rispettivamente, con l'obiettivo di fornire temi creativi a registi ancora legati al neorealismo, cercando una via d'uscita dalla crisi di quell'aspetto del cinema italiano. Il materiale è stato raccolto nel volume I fotodocumentario del Cinema Nuovo (Milano: Cinema Nuovo, 1955), con introduzione di Cesare Zavattini e tra i suoi articoli spiccano “25 persone” (dallo stesso Zavattini e dal fotografo americano Paul Strand), “Le bellissime” (di Antonio Ernazza e de Pinna), “Borgo di Dio” (del giornalista Michele Gandin e Sellerio, che ha ritratto un quartiere fatiscente di Trappero, un paese alle porte di Palermo), “Invade” (della fotografa Chiara Samugheo e del pittore Emilio Tadini, aggiornando un rapporto di Pinna e dell'antropologo Ernesto De Martino sugli invasati dalla tarantola), “I bambini di Napoli” (di Samugheo e dello scrittore Domenico Rea), “L'operaio del porto” (di Tadini e il fotografo Carlo Cisventi), “Sono tornato a casa così"(da Mangini),"Raccontare la Lucania” (di De Martino e del regista Benedetto Benedetti) e “Fronte della Libertà” (del critico cinematografico Ugo Casiraghi).
In questo scambio tra le due arti, le immagini prodotte dai fotografi sono, in generale, più impattanti, perché catturando momenti fuggenti, si sono poste sotto il segno della registrazione e non della rappresentazione, a cui non sono sfuggiti i film di finzione neorealisti, sebbene , nei momenti in cui prevale un tono documentaristico, sullo schermo appare la nuda realtà. Un caso esemplare è Il tetto (1956), in cui De Sica si sofferma ancora una volta sul dramma di chi è costretto a invadere il suolo pubblico per costruire la sua modestissima abitazione. Dopo la prima notte di nozze nel paese natale della sposa, una giovane coppia torna a Roma in autobus.
La macchina da presa, che accompagnava i protagonisti, li ha lasciati da parte per qualche minuto per mettere a fuoco, non attraverso i loro occhi, ma da sola, i paesaggi che si dispiegavano attraverso uno dei finestrini del veicolo, prima il mare e poi quello urbano. che modella la periferia della città. Tornando al tema centrale di questo articolo, l'idea di una fotografia neorealista subordinata al cinema, dunque, non regge. Come ha sottolineato Fofi: “La fotografia, che, tra gli anni Quaranta e Sessanta del secolo scorso, ha raccontato agli italiani il proprio Paese e li ha aiutati a scoprire la varietà della propria storia e della propria cultura, così da confrontarsi con le prospettive comuni e contribuire a un progetto condiviso, è stata una bella foto. Grandi, almeno, come lo erano, nello stesso periodo, il cinema e la letteratura, e l'indagine tra il giornalistico e il letterario. Diventa necessario, allora, considerare l'opera di Patellani in questo contesto, di cui è parte integrante e di cui finisce per essere uno dei frutti più maturi e belli”.
Di fronte a queste ultime parole di Fofi, è ancora più strano che Federico Patellani non abbia ricevuto alcuna attenzione alla mostra di San Paolo, anche se si capisce che, per il pubblico brasiliano, potrebbe essere più interessante evidenziare la presenza di Lina Bo nel viaggio intrapreso nell'estate del 1945. Con ciò si perse l'occasione per onorare un grande professionista, che continuò a lavorare fino alla sua morte prematura avvenuta nel 1977, all'età di 65 anni, percorrendo diverse altre strade della fotografia, che non erano le oggetto di questo articolo, dove la cosa interessante era concentrarsi sulla sua partecipazione a quel contesto culturale brulicante di idee, che furono gli anni del Neorealismo.
*Mariarosaria Fabris è professore in pensione presso il Dipartimento di Lettere Moderne della FFLCH-USP. Autore, tra gli altri libri, di Neorealismo cinematografico italiano: una lettura (Edusp).
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