Garrincha, gioia del popolo

Maria Bonomi, L'acrobata, Litografia su carta a mano, 30,00 cm x 30,00 cm, 2000.
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da AIRTON PASCHOA*

Considerazioni sul primo lungometraggio di Joaquim Pedro de Andrade

“Divertente, spontaneo, irrilevante, con un'innocenza che non nascondeva l'istintiva bravura di Macunaíma — nessun modello sarebbe più adeguato di questo, per sedurre un popolo che, guardandosi intorno, non riusciva a trovare gli eroi seri, i santi miracolosi di cui ha bisogno nel mondo giorno per giorno” (“Mané e o soson”, Drummond).

Il primo lungometraggio di Joaquim Pedro de Andrade, Garrincha, Allegria do Povo, del 1963, riassume una breve ma già ricca traiettoria cinematografica, densa di implicazioni e impasse, sia personali che più generali, – una distinzione spesso difficile da precisare, che il progresso sociale ha accelerato i tempi, proponendo domanda dopo domanda e costringendo la sinistra artisti e intellettuali ad impegnarsi in una riflessione permanente, nel tentativo di stare al passo con l'agitata situazione politica del Paese, quando non per intervenire in maniera decisiva nel suo corso storico.

Si può dire che, per l'effervescenza dei primi anni Sessanta, abbondantemente segnalata e documentata, concorrano quelle “tre coordinate storiche” che sono alla radice del Modernismo europeo di inizio Novecento, secondo Perry Anderson:, l'orizzonte della rivoluzione sociale, l'emergere di innovazioni tecniche e l'opposizione all'accademismo artistico, tutti presenti in quei giorni passati... ecco, Vera Cruz, oltre all'Atlântida delle chanchadas, e attribuiamo la novità tecnologica, al da un lato, allo sviluppo degli anni '50 e, dall'altro, alla ricezione del neorealismo in Brasile, che ci ha insegnato a fare cinema tecnicamente povero, – una rivoluzione tecnologica al contrario, ma infinitamente progressiva.

In questo senso non stupisce la carriera di Joaquim Pedro de Andrade, che con appena due o tre cortometraggi e un lungometraggio riuscì in quattro anni a toccare le questioni più spinose dell'epoca. Era come se, per quanto paradossale possa sembrare, l'unica cosa rimasta all'artista serio e riflessivo fosse immergersi nel calderone del tempo. Così, se i loro primi progetti non si vergognavano di essere spudoratamente familiari, innescando circoli e gusti personali, parenti, amici, libri, iniziarono anche ad aprirsi un orizzonte sociale, per fortuna, più ampio di quello della buona famiglia brasiliana, come può essere visto, per esempio, n'Il Maestro di Apipucos in'Il poeta del castello, entrambi del 1959, con la sua Bandeira popular e la sua Freyre de casa-grande. Il prossimo cortometraggio Coro de Gato, del 1961, approfondisce la vena scoperta, quasi per naturale vocazione, nella capacità di coniugare pensosamente poesia e politica, un po' cifrata nell'omaggio al padrino e poeta di Pasárgada.

Ma è Garrincha, infatti, il film più complesso della cosiddetta prima fase del regista, una sorta di riassunto (riassunto?) ingigantito delle sue conquiste e dei suoi cavilli. Quarant'anni dopo, possiamo ridurla a una domanda ea una risposta perplessa, sentita come impossibilità di concepirla unica, o univoca, in un'unica direzione.

Tra segni iniziali e segni finali, come staccata dal corpo del film, l'apertura offre allo spettatore una frase di cui seguiamo lo svolgersi, ora da una parte, ora dall'altra, sospesi, un po' sconcertati (joão?) , ma cercando di evitare i palleggi più sconcertanti. Retorica? NO. Che il film inizi proprio così, con le foto di Garrincha (nella prima insegue un cane nel campo), mosse velocemente, a destra, a sinistra, avanzando e indietreggiando, nello stile del giocatore, fino al punto di quasi guadagnare movimento. Che altro sarebbero, del resto, le fotografie, sembra dirci la loro animazione, se non fotogrammi perduti alla cui vita il cinema deve ancora una volta restituirle?

Dopo essere stato dribblato dal cane, seguiamo il giocatore, a ritmo di batuque, nell'atto di grandi giocate, finché non inizia a essere braccato dagli avversari, venendo picchiato dal cane. Concludendo la serie di foto delle giocate, vediamo il giocatore sdraiato, che cade, il viso contorto dal dolore sotto il ginocchio dell'avversario. Per fortuna lo abbiamo presto ritrovato recuperato, sempre in foto commoventi, in una situazione apparentemente meno imbarazzante, abbracciato prima il presidente Juscelino Kubitschek, tra gli applausi, poi il presidente João Goulart, e da quest'ultimo ricevendo un piatto di cibo (buchada?) , sotto la faccia disgustata di un terzo (coprendosi il naso con le mani) e accanto a un ragazzo che si lecca le labbra: “Se fossimo 75 milioni di Garrincha, che paese sarebbe questo, più grande della Russia, più grande degli Stati Uniti. (Nelson Rodriguez)

Insieme alla frase, interrogativo? esclamativo? pietoso? lascia il posto all'esaltazione del samba “Brasil glorioso”,, dall'Escola de Samba da Portela, svelando un paesaggio molto brasiliano: adulti e bambini che giocano a calcio, sulla spiaggia, per strada, sui campi di periferia, finché i titoli di coda ricominciano e finiscono, ora a ritmo di telescrivente, che si aprono e si chiudono foto di Garrincha, di fan vocianti, quasi a proclamare in prima pagina al mondo la scoperta di questo glorioso Brasile, sospeso sopra la Guerra Fredda, “più grande della Russia, più grande degli Stati Uniti”.

In questa sigla, di circa 2'30, affiancata dai titoli di coda, è chiaramente evidenziata la frase (in effetti?) del drammaturgo che, sistemata in una locandina, sembra, a sua volta, proporre maliziosamente il film al pubblico (buchada? ), in una sorta di provocazione che risuonerà in tutte le sequenze.

La risposta del film, anticipata, è già insinuata nell'espressione contraria del cittadino (governatore? consigliere?), la cui smorfia di disgusto è colta close, nessuno zoom fulminante, ancor prima di trovare l'oggetto dell'avversione. Una volta servita la buchada, l'attenzione si abbassa su un'espressione opposta e più piccola, di un ragazzo che si lecca le labbra. Al contrario, quindi, la vista della buchada ora sembra appetitosa... almeno per i bambini. Dico alla buchadinha di far mangiare la bambina? O un promemoria che il futuro del paese dipende davvero da un glorioso Brasile?

In ogni caso, respinta a titolo definitivo, in anticipo, la seguente sottosequenza fornisce la causa della tremenda mancanza di istruzione: il filmato dell'intera città non starebbe colpendo la palla indicando che siamo già, sì, un popolo di garrincha? E anche mezzo cieco, rischiando di essere investito per aver inseguito una palla? Sì, una nazione di garrincha! e non proprio glorioso, come attestano le immagini del popolo.

Porsi la questione dell'apertura,, Siamo scesi negli spogliatoi del calcio e abbiamo partecipato, insieme a Garrincha e agli altri giocatori del Botafogo, al riscaldamento pre-partita. Usciamo dagli spogliatoi ed entriamo, insieme alla folla, nel “tunnel” che porta al generale. Poco dopo, la squadra del Botafogo si prepara ad entrare in campo, attraverso il tunnel. Il parallelismo dei tunnel delimita già il campo di comunione tra tifosi e giocatori, tifosi e fuoriclasse, tra la gente e la sua “gioia”.

Prima della Comunione, però, la sequenza si protrae tra la folla, accompagnando la lunga ansia del faccia a faccia. Sono tifosi che si presentano alla bocca del generale con le spalle spellate, la maglia abbassata, sicuramente afferrata dalle guardie giurate, mentre saltano oltre le mura dello stadio, in attesa, sempre in attesa della “gioia”, notte e giorno, pioggia o brillare, tenendo d'occhio nell'altro tunnel, dove anche gli atleti aspettano di entrare. Sul campo, cameramen, membri della Federazione, giornalisti, restano tutti in attesa. Il film non ha fretta, né ha pietà dello spettatore. I giocatori finalmente entrano in campo, i giornalisti corrono, intervistano i giocatori, e viene intervistato anche il fuoriclasse, quando la narrazione lo introduce poeticamente: “

Garrincha è il nome di un allegro uccello color terra. Questo film vuole mostrare, tra l'altro, che chi ha soprannominato Manoel Francisco dos Santos de Mané Garrincha conosceva sia il ragazzo che l'uccello, ed era un poeta”.

Il lirismo, in un testo probabilmente dominato da Armando Nogueira (accompagnato da Barretão e dal regista), è da tribuna, come si intuisce, tipico della nostra cronaca sportiva, ma non deve oscurare la nascita della narrazione mitica.

Una volta iniziato il gioco, anzi i giochi, si attende, tra la folla impaziente e apprensiva, l'esplosione di genio del divo. E l'attesa è lunga. L'asso, fermo, infreddolito, si trascina a stento in campo. Carica con calma un lato, cammina un po', si ferma. Comincia a correre, ancora senza palla, chiamando in causa il gioco, ricevendo palla, correndo con essa, ma sbagliando, provando i famosi dribbling, inutilmente. La folla, impaziente, manifesta, urla, impreca, incoraggia e poco a poco Garrincha comincia a rispondere ai loro appelli. Rinascono le finte, le partenze, i freni, e fanno rinascere la gioia del popolo, che comincia a delirare con la danza dell'idolo. Di volta in volta le foto, quando irrompono nel mezzo del film, invertono il loro significato iniziale: funzionano allora come fotogrammi congelati, istanti magici e catturati magicamente dallo scorrere del tempo.

Garrincha invece è braccato in campo, subendo fallo su fallo, uno più duro dell'altro, al punto che un tifoso viene colto in piena “porca merda”. Garrincha abbassa il calzino, si passa la mano sullo stinco ferito, e lo stesso tifoso non reprime la “santa merda”. Anche congelate per l'immortalità, le foto ora sembrano assomigliare alla mortalità dell'idolo.

Finalmente, molti minuti dopo, arriva il primo gol, due, tre, quattro, una pioggia di gol, fino al decimo, calorosamente celebrato da Garrincha, che, vibrando in campo, si mescola ai tifosi. Come per rispondere agli appelli del pubblico, e riprendendo la sua condizione sovrumana, il fuoriclasse è riapparso con dribbling sconcertanti, mosse geniali, gol casalinghi. L'euforia si impadronisce dello stadio, la folla invade il campo, altra impresa gloriosa, e l'idolo, sotto forma di coppa, viene portato in braccio al popolo, consacrando la comunione. La nazione e il suo simbolo, il popolo e la sua bandiera, non sono che un solo corpo e un solo spirito.

La lunga sequenza che abbiamo appena descritto, dallo spogliatoio alla conquista della coppa, circa 11 minuti, è tutta ritmica, ritmica ascendente verso l'apoteosi finale. In esso viene presentato non solo Garrincha, ma anche la sua gente, il cui volto riflette i progressi dell'asso. E la sequenza, praticamente muta, eccelle nel riprodurre il gioco di luci e riflessi che si svolge tra loro, con l'idolo che risponde alle preghiere popolari. Apoteticamente carichi, non possiamo fare a meno di pensare che, davvero, se fossimo un popolo di garrinchas... Allo stesso tempo, gli scatti dei fan, in piccoli gruppi o individualmente, con la loro bruttezza, a volte comici, a volte commoventi, sembrano andare nella direzione opposta. Il glorioso Brasile? con questa gente? queste persone umili, che ti fanno venire voglia di ridere e piangere? queste migliaia, milioni di sdentati, malnutriti, indigenti?

Il drammaturgo, forse infastidito dall'involontaria idiozia, potrebbe obiettare,, che questo non è ancora un popolo di garrinchas. Ma davvero non lo siamo più? come insiste il film. Come se non bastasse tutta la città per giocare a pallone, la sequenza avverte, nella lunga attesa dello scatto di genio, attenta ai passaggi sbagliati, ai dribbling frustrati, ai tiri scarsi, che Garrincha non è sempre Garrincha, che la bandiera ha anche il suo giorno di mezzo bastone… Bene o male, l'umanità del mito riappare in lei, mani sui fianchi, ferma, congelata, quasi ignara, gambe storte, cammina da una parte all'altra, lentamente, iniziando a correre , fare le cose per bene, provarci, fallire e soffrire nel processo, carne ai garofani nemici.

Retorica? NO. Quella terza sequenza si apre con Manoel Francisco dos Santos, a malapena rivolto verso la telecamera, che testimonia umilmente del suo status di divinità nazionale. L'affermazione, triste, triste, fa pensare meno all'“uccellino felice, color della terra”, che alla rondine del suo poeta omonimo…, Inchiodato al muro (crocifisso?), Garrincha sembra riprodurre il tradizionale sermone di un condottiero sulla nobile missione di far felice il popolo, una missione (passione?) che Sua Alegria, anche “un po' faticosa della vita di un idolo” , deve “sopportare (…) perché la gente lo vuole, e per loro è bene”.

La sola occorrenza della parola “povo”, prima che Garrincha concluda la sua affermazione, cambia quasi miracolosamente lo scenario. Contempliamo la città e il suo movimento dall'alto, i suoi tram, le sue auto, la sua gente in fermento. Il documentario, scandisce la narrazione ancora, procede, con la telecamera nascosta, a una prova della “popolarità di Garrincha”. Così, uscendo dalla Banca Nazionale del Minas Gerais, dove si reca “una volta alla settimana per questioni finanziarie”, la star si ritrova ben presto circondata da fan, inglobati nella massa popolare, “senza comprendere il processo di identificazione”. La narrazione ovviamente non riesce a capire come il fuoriclasse sia stato riconosciuto dai passanti in città, ma la scena di Garrincha nella VW, isolato in mezzo alla folla, non arriva al mistero della transustanziazione, vestito com'era in bianco, e nel quasi in procinto di essere allevato nel calice del popolo, riedita la stessa adorazione del prato. Più che nella “macchina del popolo”, Garrincha aleggiava trasportato tra le sue braccia.

Gloria a parte, Mané mantiene la stessa semplicità di una culla (mangiatoia?), e la quarta sequenza ricostruisce il suo umile modo di vivere a Pau Grande, sua città natale, – nata ai piedi delle montagne di Petrópolis e della fabbrica di tessuti inglese, – dove arriva su un Maggiolino VW, finalmente liberato dalle orde di fedeli, e viene accolto in seno alla famiglia, composta da una donna, sette figlie (“sette bave di destino”… oh! “quando aspetta un maschietto con gambe arcuate”), con cui ama ballare Nat King Cole, e lo speaker mainá, che ogni tanto chiama, cerca di chiamare la star, “Mané Garrincha”, oltre a invocare sempre ironicamente una delle sue rivali sul tono, “Vasco”. La casa di Garrincha – quando non diventa “attrazione turistica” durante i Mondiali o “centro politico” durante le elezioni, “quando si presentano candidati che cercano di sfruttare la popolarità del giocatore”, – si differenzia poco dalle altre case del mondo lavorativo villaggio di classe, se non forse per l'aria di casa dei miracoli, con le pareti della stanza imbandite di gagliardetti, ritratti, medaglie, trofei, una specie di ex-voto, insomma a conferma del suo status di meta di pellegrinaggio nazionale .

Ma sembra che sia fuori casa, se si deve credere alla narrazione, che il nostro eroe si svolge, giocando a piedi nudi, solo in calzoncini sul campo in terra battuta, con i suoi amici d'infanzia, Pincel e Suíngue, giocando “come ragazzi – felici e senza impegno". Dopo la partita di calcio al Maracanãzinho, guardata dai bambini sulle colline circostanti, è l'ora di un “bicchiere di birra” (coca-cola, ecco cos'è!), pagato dai perdenti al “bar della città”.

Dalla “vita dei ragazzi poveri” alla vita dei semplici poveri, come i tessitori nella fabbrica inglese, dove lavorano ancora i suoi amici d'infanzia, come si vede, si è salvato solo Garrincha, “un cattivo lavoratore”, capace di “dormire tra il rumore infernale delle macchine”.”, ma la cui escalation di gol lo ha salvato dalle dimissioni programmate settimanalmente, sempre secondo la narrazione, e lo ha portato alle vette di un altro mito nazionale e popolare, il presidente Vargas, alla sede di Esporte Clube Pau Grande.

Dal piccolo paese alla grande città, dal dilettantismo al professionismo, con il suo intenso carico formativo, a suon di Bach, nel film (voglia di evasione?), e nel suo regime di concentrazione carceraria, come ci mostra la quinta sequenza, rimaniamo di fronte all'uomo semplice, allegro e color terra (colore locale?), sempre pronto a provocare collegialmente i suoi colleghi ; dell'uomo le cui “glorie di campione continuava a conservare in un luogo modesto e non erano capaci di alterare la semplicità della sua vita”; dell'uomo che non dimenticava mai le usanze popolari, mangiare a bocca aperta, asciugarsi la bocca con un asciugamano, i denti con l'unghia... così ingenuo (naturale? colore della terra?) che non se ne accorgeva nemmeno della propria eccezionalità fisica, del “ginocchio sulla raffica”. Fu solo “leggendo il giornale”, ricorda la narrazione, che venne a sapere che “aveva le gambe storte”.

Studiato e trattato come un “caso”, secondo il dott. Nova Monteiro, nella sesta sequenza, in cui il chiaroscuro di luci precarie, forse imitando involontariamente i fumi della Scienza, l'asso storto è tanto ecumenico quanto il popolo che incarna, non disprezzando un buon guaritore, né la compagnia del santo guerriero, con cui l'asso, a cavallo nel letto, condivide la room , – in una strana inquadratura, con la macchina da presa dietro (sul retro?). È così, come attesta la settima sequenza, con l'arruda di Garrincha e Dona Delfina, con tutti gli attaccati alla radio e al credo nazionale, dai presidenti ai prigionieri, per non parlare della delegazione, che il Paese arriva in Cile, per ri- modifica l'impresa di 58, “sulle ali della superstizione”.

E si arriva all'epopea del 62, nella piena cosmogonia del calcio, con i suoi dei e i suoi feticci, che dalla superstizione alla selezione è una magia. L'ottava sequenza proclama forte e chiaro le imprese di Garrincha, addossandogli quasi esclusivamente la colpa del secondo mondiale, tranne che in finale, contro la (ex) Cecoslovacchia, quando Garrincha si ammalò (Pelé si era già ritirato nella seconda partita, per stiramento all'inguine) concesso se ha confermato l'assemblea nazionale.

Nella nona sequenza, bi rialzata, si passa ai festeggiamenti, nelle piazze e nei palazzi. L'euforia dei giocatori, la gioia della gente, e viceversa, i due volte campioni viaggiano su un'auto scoperta, come diretti agli omaggi ufficiali, a un banchetto con politici e autorità. Infine, le foto dell'allora governatore di Guanabara, Carlos Lacerda, che consegna sorridente a Garrincha il premio promesso, il mainá, come aveva annunciato, se avesse portato all'asso il secondo mondiale in Cile.

Il documentario su Garrincha potrebbe finire qui, e in un certo senso chiude gloriosamente Garrinchiada. Nella sequenza successiva, la penultima, è il fenomeno calcistico che entra in campo. Ma in un ingresso quasi ingiusto. Come spiegare altrimenti l'irruzione del 1950? O comprendere il passaggio – ingiustificato – della narrazione ancora, che cosa di buono o di cattivo aveva cucito insieme le immagini, non importa quanto aerei fossero i ponti?, Così, la nomina poetica di Garrincha (primo blocco) è seguita dai suoi successi e dalla sua popolarità (secondo blocco), fama che, a sua volta, non è stata in grado di cambiare la semplicità della sua vita da Pau Grande (terzo blocco), che ha commosso nella grande città dieci anni fa, quando venne ad allenarsi al Botafogo (quarto blocco), dove lo ritroviamo sottoposto alla vita professionale, ai rigori della concentrazione, sotto le prescrizioni del Reparto Medico, che attesta l'eccezionalità dell'asso (quinto blocco), che non si limita a riporre fiducia nei medici, ha le sue preghiere private, credenze e superstizioni che condivide con l'intera nazione (sesto blocco), compresa la delegazione arrivata in Cile per provare il bi (settimo blocco bloccare). Dal settimo all'ottavo...

I giocatori brasiliani, pochi istanti prima dell'inizio della partita, hanno sentito il generale Mendes de Morais, allora sindaco del Distretto Federale, concludere il suo discorso: “Ho fatto il mio dovere, costruendo questo stadio. Ora realizzi il tuo vincendo la Coppa del Mondo!

Siamo così passati naturalmente dall'euforia del 62 all'euforia fugace del 50. Cosa è successo? Come sancire la svolta cronologica verso il passato, e quella politica verso la spiegazione del fenomeno calcio (nono blocco)?

Il salto era rischioso... ma ne valeva la pena. Perché?

Si dà il caso che, pur rifiutando l'idiozia di Nélson Rodrigues, il film non avesse un nemico insidioso: il fascino esercitato dal personaggio, dalle immagini del mito nazionale e popolare, e che il documentario, con tutta la sua avversione per la buchada, aiutasse giustificare. Come se la storia del ragazzo eccezionale che sbuca dal nulla, dal Maracanãzinho de Pau Grande, e raggiunga la gloria urbi et orbi, con il paese che vince il secondo campionato del mondo, senza cambiare minimamente la sua naturalezza, il film, in assenza di immagini originali, animava ancora le foto d'archivio con il suo montaggio innovativo. Risultato: il fascino non poteva che crescere nel corso delle sequenze, ea dismisura, al punto da sembrare vacillare la risposta negativa del film alla buchada di Rodrigues.

È davvero che se fossimo un popolo di garrincha...? Ingoiare il cespuglio? Impossibile! Allora come resistere alla magia delle immagini, all'impresa, cinematograficamente registrata, della biepica, ancora viva negli occhi e nel cuore dei brasiliani? Ancor di più, come resistere all'umanità del mito, registrata dal documentario stesso, e impressa nel volto della gente? Come spezzare finalmente questo cerchio, questo nodo di rifiuto e fascinazione, di seduzione e avversione, anchilosato nei nervi stessi del tema?

La risoluzione dei problemi era necessaria...

Nella penultima sequenza, i palloncini si alzano e proclamano “Viva o Brasil” su un poster; Maracanã è tutta festa; Il generale Mendes de Morais pronuncia il suo fatidico discorso, inizia la decisione, e subito il secondo gol per l'Uruguay… Silenzio. Il portiere Barbosa si rialza lentamente, e un solo cuore batte all'unisono il lutto nazionale. In questo momento, il film sfrutta una retorica comune nel calcio. L'analogia con la guerra, però, suona più intrigante: “Il calcio esercita un potere sulle emozioni delle persone che può essere paragonato solo al potere delle guerre – porta un intero paese dalla più grande tristezza alla più grande gioia”.

Quello che vedete, però, è un paese sprofondato nella depressione più profonda.

Che lezione prendere? Se ne siamo usciti con la guerra, beh, possiamo uscire dalla depressione anche con il calcio! La lezione politica, della manipolazione di massa, è classica, e ciò che fa la sequenza è tradurre in immagini potenti il ​​termometro variabile degli agglomerati umani (fascisti? barbari? primitivi?), le cui manifestazioni possono salire e culminare nella violenza, o cadere (in aumento) alla beatitudine.

Spiegare il fenomeno di reazioni così estreme sulla scala delle emozioni umane, spiegare il “potere” che esercita sulle folle, a volte entusiasmandole fino alla ferocia, quando lo stadio diventa un circo romano, a volte eccitandole fino all'estasi, sotto l'organo di Frescobaldi, quando lo stadio diventa un tempio, e i guerrieri sembrano convertirsi in devoti, la narrazione chiama in causa due teorie, una psicoanalitica e l'altra psicosociale, due teorie anche a loro modo estreme: quella meno sensata, che paragona il pallone al “seno o grembo materno”, giustificando così “l'ardore della contesa” per il suo possesso, — oggetto del desiderio che poteva sfociare in una guerra cieca, come si vede nelle scene di battaglia campale, — al “più sensato”, ovvero: “la gente usa il calcio per spendere il potenziale emotivo accumulato da un processo di frustrazione nella vita di tutti i giorni”.

Adottata dal film, la teoria psicosociale accusa la sublimazione della violenza attraverso il calcio, l'istante in cui ritorna l'organo pacificatore e contempliamo l'estasi quasi mistica dei tifosi fedeli. Da un (violento?) temporale, la cinepresa coglie, per contrasto, la malnutrizione sputata sui volti di due giovani, uno bianco e uno nero, i corpi magri che si alzano e si abbassano dolcemente (tasti? suonati? manipolati?), anticipando il futuro "glorioso".

Da questo punto di vista psicosociale, il Brasile glorioso dei garrincha dipende ovviamente dal Brasile frustrato della vita quotidiana; la gioia della gente, la tristezza della gente. Triste la gente?! La tua unica gioia è il calcio? Questo possono indicare le inquadrature finali della penultima sequenza, che mostrano la fine della partita, con gli ultimi tifosi e venditori che se ne vanno, i giornali che volano, lo stadio che si svuota malinconico. Il tifoso, guardando desolato il campo vuoto, anche voltando le spalle, dissimulando, quando si accorge di essere ripreso, timbra la sensazione generale di fine partita, ritorno alla “realtà”, parola la cui menzione arriva veloce e sintomatica giù alla telecamera, inquadrando l'ingresso, buio, del “tunnel” del generale. Buco nella realtà? Buco della realtà? Il film sembra mettere in guardia sui limiti di questo glorioso Brasile di artigli, che si gonfia e si sgonfia sempre, giorno dopo giorno, invariabilmente e inevitabilmente.

Se il film finisse lì, in un altro possibile finale, e certamente finisce il documentario sul calcio, rimarremmo sul piano tradizionale della critica all'alienazione, all'uso politico del calcio, ecc., al rifiuto puerilmente comunista dell'idiozia di Nélson Rodrigues. Ma no. Il film si conclude con il ritorno della gente e della sua gioia, che arrivano in treno, autobus, camion, invadendo il Maracanã, quasi facendolo salire e roteare, come un immenso pallone...

Lunga vita al glorioso Brasile!? Cosa sarebbe successo? Il film ha ceduto una volta per tutte al mito, tramortito dalle immagini attivate? Hai ingoiato la rodriguista buchada?

Il ritorno del film al suo fascino problematico, senza rinunciare alla sua prima reazione, ripropone la complessità del tema.

Il glorioso Brasile è un mito. E questo mito, codificato nella roba del drammaturgo, deve essere, come tutti i miti, opportunamente demitizzato. Fino ad allora siamo tutti d'accordo. Ma non è anche Garrincha un mito? Le tue macunaimiche “astuzie” non rendono sospettoso il tuo umile ritratto? La “gioia del popolo” non nega forse il calvario che le sue parole, la sua espressione da sudario alludono? Sì, non ci sono dubbi. Il film stesso, per inciso, cifra la traiettoria della mitizzazione. Rispetto alla prima e alla seconda sequenza, praticamente “mute”, nelle due successive, “parlate”, — dalla prova di popolarità di Garrincha, compresa la sua testimonianza, al suo attestato diciamo di umiltà in patria, domina la narrazione verbale, cucendo insieme le immagini, comandando, per così dire, buona lettura. A parte il lirismo, vale la pena notare l'antica risorsa mitica, fondata sull'immobilizzazione del tempo. Con il pretesto di camminare dal presente al passato, si lascia uno schizzo e si finisce in un altro, lo stesso, appunto, congelato, accanto a un altro mito, Getúlio Vargas, sul muro del locale. Congelati, così, nel tempo e nello spazio, e come finalmente riuniti, il padre e il figlio dei poveri...

Da un'altra angolazione, però, Garrincha non rappresenta allo stesso tempo l'affermazione nazionale, l'affermazione del genio del popolo brasiliano?, Non porta quel pizzico di improvvisazione, spavalderia, buffoneria... di brasilianismo, insomma, riconoscibile in altri "geni" della terra, come Villa, Oswald, Glauber, Darcy, ecc.? Sì, sì... Per di più: non rappresenta anche l'affermazione popolare? Non è Garrincha Mané, cioè l'uomo modesto, l'uomo umile, l'anima semplice, la rondine che, giocando e giocando, passò la sua vita pigramente, pigramente? E non è Mané, la bandiera del popolo? L'affermazione delle sue possibilità quasi illimitate? della sua vitalità quasi incomparabile? Un mito progressista, dunque! un mito di sinistra!

Mito di sinistra!? Ma ogni mito, come il “discorso non politicizzato”, non è “essenzialmente” di destra?,

Per le gambe di Garrincha! Se appunto, per sfuggire alla forza delle immagini, al fascino del mito, il film aveva azzardato il salto narrativo, problematizzando il calcio, ora ha ceduto, amaramente, problematizzando la problematizzazione… rinunciando al gioco.

A quanto pare sì, a quanto pare il finale sembra dimostrare il motivo dell'idiozia di Rodrigues, come se, stremato dalla partita, dai tanti capovolgimenti in tabellone, il film nei minuti finali lasciasse definitivamente il posto alla rimonta dell'avversario... Ovvero, se l'arrivo allo stadio fosse solo l'arrivo allo stadio. Ma no. Guidati dalla trama di samba naturalmente allegorica della scuola di samba Império Serrano, “O Império Desce”,, anche l'invasione popolare del Maracanã rappresenta la Rivoluzione. Così, sotto la chiamata rivoluzionaria a scendere dalla collina, ciò che intravediamo è il popolo che si impossessa con effusione del nostro Palazzo d'Estate.

Non riguarda nota bene, dal famoso jeremiada comunista. Ah, se solo quella forza, tutta quella unione fosse destinata ad un altro obiettivo! Perché la figurazione non ha nulla di cui lamentarsi. Invece il documentario finisce davvero in una festa, e in una festa rivoluzionaria! (COMEL'uomo di Brazilwood? Ma mancano altri cinquecento anni!) Cosa significherebbe rappresentare la Rivoluzione in questo modo, festosamente? Un modo per nazionalizzarlo? Rivoluzione brasiliana? Pur ambigua (dialettica?), è stata la risposta definitiva che il film ha offerto al glorioso Brasile dell'idiozia di Rodrigues.

Utopia, idiozia gioaquiniana? credi che la rivoluzione, con o senza milioni di garrinchas, passerebbe anche dal calcio?

Più che discutere dell'eventuale efficacia o innocenza della rappresentazione, quando avvicina il calcio, come festa popolare e nazionale, alla Rivoluzione stessa, allora all'ordine del giorno, è importante riconoscere la posizione ardita del film, capace di riconoscere il potenziale di emancipazione nelle forme stesse dell'alienazione.

Ma non è tutto. Il nastro si conclude, infatti, con la classica foto di Garrincha che dondola nelle reti. Così, congelato in una palla nell'ultima inquadratura, cioè in “seno o grembo materno”, il film riconosce anche la forza politica del mito, di qui la preoccupazione di tutti per la sorte dell'idolo, il cui possesso è così ardentemente contestato, sia a destra (Carlos Lacerda, Nélson Rodrigues) che a sinistra (Jango, Joaquim Pedro).

Consapevoli del mito e della disputa politica sulla sua proprietà, potremmo andare un po' oltre e approfondire l'impasse invisibile. Ammettendo il mito, come separarlo dal popolo, una volta radicata l'identificazione? Come separare dal popolo la sua gioia, la sua bandiera? Anche il mito: le persone!? E ogni mito non deve essere demitizzato!?

In questo caso, il volto dell'avversione, nel bel mezzo dell'esplorazione di Jango sulla celebrità della star, potrebbe essere letto in un'altra chiave, essendo una condanna piuttosto diretta del populismo, una prigione in cui la gabbia del mainá, sempre erutta in associazione con politici, sia a La casa di Garrincha o dopo la festa del bi. Detto questo, il tormentone del mainá, “Vasco”, potrebbe allora alludere all’avventurismo populista e alla sua scoperta dell’America, i vantaggi incomparabili di catturare, come un uccellino, un mito popolare e nazionale, il cui assedio politico è visibile quando il cerchio si chiude. concentrarsi sulla gabbia, e Garrincha, chinandosi per vedere l'uccello, appare, finalmente catturato.

Ebbene, la critica era rivolta al populismo di destra, si potrebbe obiettare, al populismo di Lacerda... vista questa mini-allegoria dell'uccello color terra inghiottito, voglio dire, ingabbiato dal corvo color oliva. Dobbiamo distinguere, ora! il populismo di sinistra e di destra… Ma che dire di Jango, che condivide la buchada con Garrincha? Non ha anche approfittato della popolarità della star? Senza dubbio. E Jango non era sostenuto dalla sinistra? Non erano, tra l'altro, le stesse persone che venivano chiamate sul palcoscenico e sugli schermi dal nuovo cinema?

In tal caso, saremmo quindi di fronte a una critica e autocritica del populismo di sinistra?!

Insomma, la questione, delicata e spinosa, era come ammettere il mito senza ammettere la menzogna, o come ammettere il popolo senza ammettere il populismo... Aporetico? Il film condanna lo sfruttamento politico del mito (e del popolo, per estensione), ma non arriva a condannare lo “sfruttamento” da parte del mito (e del popolo) del suo sfruttamento politico. Con la bandiera del popolo intatta, non si considerano nemmeno, come dice il Poeta, i suoi “trucchi istintivi di Macunaíma”. Elementi mancanti? Certamente no. Per non scendere nelle paludi biografiche, che in realtà sono pubbliche, – il film potrebbe esplorare, diciamo, il “temperamento guerrigliero” dell'idolo, la sua antipatia per “la routine di allenamento”, la famosa “tendenza ad ingrassare”; il gusto per la battuta, veramente “goloso”, nemmeno fuori dal campo, macunaimicamente parlando, cosa che era già diventata folklore, ma il gusto per le partite anche in campo, non solo in allenamento con i colleghi, ma anche con gli avversari, proprio quelli battute che facevano tanto piacere alla gente, che non si stancava mai di vederlo passare davanti al difensore e di aspettarlo ancora, povero joão, esclusivamente per il piacere di fintarlo ancora, quante volte forse poteva, non c'erano squadre che reprimessero i suoi eccessi , suo e del rivale.

Se si esplorasse finalmente in profondità, ad esempio, la giocosità di Garrincha, si alzerebbero certamente in lui tracce del non-caratterismo del malandro. Macunaima, un nastro che Joaquim Pedro realizzerà qualche anno dopo, nel 1969, dopo O Padre ea MoçaDi 1966.

Non è stato così, ovviamente. Garrincha era lontano, molto lontano, a un colpo di distanza Macunaima..., La critica allo sfruttamento politico della popolarità dell'idolo non poteva prosperare fino alla critica al populismo, che in un certo senso implicava la critica del popolo. In altre parole, la critica a una certa visione del popolo, e degli idoli che lo incarnano. Insomma, dipendeva da una grossa delusione... o da un terremoto, per ricordare Glauber ei suoi terra in trance. Scartata poi, come anacronistica, la critica al populismo, almeno nel senso sistematico che l'espressione venne ad avere dopo il golpe del 64, e il golpe nel golpe del 68, della fine delle illusioni della sinistra, perché, tuttavia si intuisce un certo sospetto nell'aria, come sulla superficie del film, aleggiando sugli abissi più profondi del mito di sinistra e del populismo.

Come abbiamo visto, il regista risponde all'incondizionato “sarebbe” del drammaturgo, almeno con un interrogativo, incondizionatamente dubbio “sarebbe”. Allora questo paese di garrincha sarebbe completamente rifiutato? In termini di idiozia di Rodrigues, del glorioso Brasile, “più grande della Russia, più grande degli Stati Uniti”, sì. Allo stesso tempo, in termini meno ululanti, non è questo che dice il film, affascinato dalla e dalla “gioia della gente”. Che fosse difficile resistere alla seduzione del mito, non c'è dubbio, del ragazzo simile a un uccellino che passava la vita a giocare con la palla, oziosamente, oziosamente, se non quasi impossibile, non cedere alla poesia e all'umanità della sua rondine -come la natura. Anche nel momento più umano forse, più indifeso, cercando di riscaldarsi, ancora freddo in campo, e colpendo, e mancando, palla dopo palla, anche in quel momento più vulnerabile, sotto migliaia di occhi ansiosi per lo schiocco atteso, finché quel momento contribuisce al fascino esercitato dall'idolo. Affascinato, dunque, dal film, e affascinante, come fosse vittima del suo stesso veleno, come accade fin dagli albori del cinema e della sua più che inesorabile arte della seduzione, la domanda non poteva che essere posta quasi ossessivamente : come distinguere il mito – dalle immagini – dell'affermazione popolare?

In altre parole, il cinema sarebbe in grado di demistificare? Il cinema per eccellenza non è una fabbrica di miti? Forse un altro tipo di cinema… Cinema-verit? nonostante le difficoltà tecniche e formali?, Del resto, il film sorprende l'umanità di un idolo sportivo, sondando un po' la sua vita dentro e fuori dal campo, così come quella dei suoi tifosi, soffermandosi su istantanee di tipi popolari, quasi dimenticandosi in mezzo alla folla. Ecco quando a volte non minaccia di lasciare l'asse e andare ad occuparsi degli operai della fabbrica inglese, o dei giocatori sottoposti a un regime totalitario di concentrazione.

E a volte anche partire, quando si parla di calcio, per esempio, come fenomeno di massa. Cinema verité, senza dubbio,, ma il cinema vero così... così montato? Dov'è la spontaneità? Dov'è la verità della spontaneità?, Questo, ritenendo che una sequenza lunga e “muta” come la prima, subito dopo l'apertura, la sequenza del gioco di luci e riflessi tra l'idolo e i fan, colti nella lunga attesa dallo scatto di genio, potesse essere letto in una sola direzione… quando sappiamo che (in effetti?) molti dei detti e delle contraddizioni del film sono concentrati in esso, in cui il mito di Garrincha è sorpreso nella sua duplicità, nella sua umanità e sovrumanità, in cui le persone sono sorpresi nella sua duplicità, nella sua gloria e nella sua miseria, in cui anche il cinema è sorpreso nella sua duplicità, nella sua capacità di velare e svelare.

Cinema verità a parte,, una delle forze di Garrincha, Allegria do Povo risiede nel montaggio altamente elaborato. E diversificato. In essa troviamo sia l'assemblaggio del primo dittico, Il poeta del castello e Il Maestro di Apipucos, continuo, naturalistico, – quando, ad esempio, il Maggiolino VW, precedentemente fermo, isolato dalla folla dei tifosi, apre la scena successiva, arrivando a Pau Grande, o quando, nei festeggiamenti di strada, i giocatori in un'auto scoperta sembrano dirigersi verso il podio delle autorità, - per quanto riguarda l'assemblea di Coro de Gato, prevalentemente ideologico.

Così, dopo il gol uruguaiano, Barbosa che sale lentamente, faticosamente, più pesante di mille ancore, i marinai, con le spalle girate, fanno pensare tanto al tradimento della festa anticipata quanto allo squadrone brasiliano che imbarca acqua... come la ragazza preso dopo, anche facendo acqua... attraverso gli occhi, lacrime. Durante il banchetto, non fa male ricordare, la musica di Prokofiev, così appropriata e festosa, viene interrotta per lasciare il posto a voci appena sentite, Garrincha che mangia qualcun altro, appena visto, quasi nascosto dagli altri commensali; conversazioni parallele, sussurrate tra autorità, tra un politico e D. Hélder Câmara; Carlos Lacerda sullo sfondo (cospirazione?), in un montaggio che indica che dietro le tende, le celebrazioni sontuose, era in corso anche un altro gioco: politico, serio, serio.

La novità più visibile è l'uso originale di foto d'archivio, la cui animazione le fa incorporare quasi naturalmente nel film, e possono essere viste come fotogrammi redivivi. Così, come abbiamo già detto, le foto di Garrincha, in apertura, imitano i dribbling del giocatore, a destra, a sinistra, indietreggiando e avanzando, frenando, nello stesso ritmo, quindi, delle giocate che hanno consacrato l'ace . L'euforia dei giocatori in campo per la doppietta è un'altra impresa del montaggio incoraggiante, davvero rinvigorente, così come la tristezza per la perdita del Mondiale del 50, a ritmi lenti e dolorosi, finendo in una stanza di giocatori desolati, con le valigie in piano aperte, rovesciate e rovesciate, i vestiti buttati.

Animate dal montaggio, le foto a volte si bloccano e danno spunti di riflessione, immobilizzati. Così, la foto delle gambe di Garrincha e di un ragazzino con le gambe storte, fianco a fianco, dopo l'esposizione scientifica della "particolarità di questo grande giocatore", ci fa pensare, in primo luogo, se si tratti davvero di "particolarità" e , in secondo luogo, in secondo luogo, di conseguenza, se sia conveniente basare la gloria del Paese su questa presunta “particolarità” nazionale. A sottolineare quanto fosse prigioniero della superstizione (dell'arretratezza?) il Paese, subito dopo il piano di JK, insieme ad amici e consiglieri, tutti attaccati alla radio, c'è una foto di… carcerati. Nelle celebrazioni di strada bi, dopo aver alzato la coppa (nel film), compaiono immagini di mani protese, come se volessero disperatamente toccare la gloria del Brasile, mettendo poi a fuoco volti, ugualmente afflitti, e infine il volto di un ragazzo, guardando dall'altra parte, la nostra, stupita, incompresa… Glorioso Brasile – perché?

Ma il montaggio più finemente ideologico doveva ancora venire. Tra i festeggiamenti di palazzo, compaiono inaspettatamente (infestano, cioè) due apparizioni fotografiche di Lacerda. Come capirli?

Oltre a dare figurazione allo storico soprannome di Corvo,, le due apparizioni, almeno una più sinistra dell'altra zoom Il carattere brusco (golpista?) del secondo, illustrano la traiettoria ascendente del pubblicista carioca, le sue ambizioni presidenziali (tra piani di JK e Jango) e la sua cospirazione militare. Tra uno scatto di Jango, con la coppa in mano e che sussurra a Garrincha, e uno di Lacerda tra giornalisti e fotografi, sullo sfondo, c'è uno scatto di una sentinella alla porta, a guardia del palazzo, – a indicare esplicitamente la crisi politica -militare in corso nel paese, spronato da Corvo vivandeira. Per coronare il malaugurio, i soprusi, veri volti, mutano l'atmosfera della festa, portandola a prefigurare la violenza, sia nel calcio, mostrato nella sequenza che segue (quando si parla del suo carattere di fenomeno di massa), sia in politica, il cui ordine democratico, a dir poco, si spezzerebbe con l'intervento militare cantato da Corvo.,

Se un montaggio accurato può contraddire il postulato del cinema diretto, di un cinema verité puro, come si spiega un simile investimento nel montaggio? La mancanza di sufficiente materiale filmato spiega l'uso degli archivi. Ma non spiega tutto. Alla radice della risorsa c'era anche la convinzione estetica, condivisa con buona parte di Cinema Novo, che montaggio e verità non fossero necessariamente contrapposti. Non solo non si sono opposti, ma chissà, anzi, forse è stato solo montaggio, dialettico, verticale, scommettendo sul conflitto tra immagine e suono, capace di portare alla luce gli abissi più profondi dell'arte cinematografica, che dovrebbe coinvolgere tutti riflessione seria sui miti popolari.

Montato dall'alto verso il basso, fino ad animare praticamente, come abbiamo visto, gli archivi fotografici, e forse intuendo le difficoltà di trattare con i miti popolari della sinistra, e trattarli soprattutto in possesso di un veicolo seducente (mitizzare? ), Garrincha, Allegria do Povo non si tira indietro davanti al conflitto tra suono e immagine. E un semplice “sbaglio” apre il nuovo orizzonte. Ad un certo punto della quarta sequenza, la narrazione ancora cita la birra come trofeo pagato dai perdenti ai vincitori della partita di calcio al Maracanãzinho de Pau Grande, e la scena al bar mostra Garrincha e i tre amici che bevono… coca-cola (senza berla, per carità) .

La contraddizione, troppo ululante, obbliga a frenare. Chi dice la verità? il suono? l'immagine? In tal caso, la risposta è ululare simmetricamente. E sorge la domanda: se, paradossalmente, è la narrazione, mitica, edificante, contraddetta dall'immagine a mentire (visto che è coca e fanno finta di berla)… a chi credere? Data l'impossibilità di allinearsi automaticamente all'uno o all'altro, il che fa sempre comodo, conviene almeno ammettere che la verità non risiede inevitabilmente nelle immagini, come potrebbero ingenuamente supporre i più accaniti difensori di un cinema verité assolutamente spontaneo. a prima vista.

Già in pieno esercizio in Botafogo, nella sequenza successiva, l'immagine preclude la narrazione sonora, musicale. Il duro allenamento, al suono di una fuga bachiana, ironizza senza dubbio sulla situazione, oltre a suggerire che la danza in campo dipende da un dannato duro. Allo stesso tempo, il gioco del montaggio può anche riprodurre un altro gioco, più precisamente il rapporto tra spettacolo e pubblico. Dall'alto, come sappiamo, dall'angolo della folla, la musica, gioia gioia, può provenire dalle sfere, dal basso, da chi corre dietro a un'altra sfera... Fatte salve le ironie usate, il film espone la conflitto, la contraddizione stessa tra immagine e suono.

Con una pista che smentisce l'altra, a chi credere? Di più: cosa proporrebbe questo gioco di smentite, ordito e smascherato dal montaggio? Portato alle ultime conseguenze, l'intero film non sarebbe sospettato?

Oltre alle varie lezioni,, non è questo, però, uno dei grandi pregi del documentario? Confliggendo immagine e suono, suono e immagine, richiamando l'attenzione proprio sull'impossibilità di adesione naturale all'uno o all'altro, non istituirebbe forse la verità come processo, come costruzione? Assemblato, costruito, non sarebbe quello, attraverso il montaggio dialettico, l'unico modo per avvicinarsi alla conoscenza?

Il gioco del montaggio, dialettico, scommettendo sulla contraddizione, mettendo in discussione la convergenza, quasi naturalmente prevista, tra suono e immagine, può svolgersi in altri momenti del film. Così, nella penultima sequenza, dopo aver presentato la meno sensata teoria del “seno o grembo materno”, seguono le scene di una vera e propria battaglia campale, anticipata da una fila di poliziotti con gli occhi puntati sulla palla, a dimostrazione che la disputa contiene un latente violenza (amorevole?); e la teoria “più sensata” della sublimazione, della frustrazione accumulata dalla gente, e che ci si aspetterebbe una scarica di energia, gioca con l'estasi dei fan, placata dall'organo in sottofondo.

E che dire poi del film, capace di portare le persone dalla più grande gioia alla più grande tristezza? Dovevo ricordarne 50 in questo momento, dopo i 62? E allora, in mezzo a manifestazioni espansive per la conquista della bi, quando esattamente si voleva cancellare lo storico rovesciamento? Roba da guastafeste comunista?

Infine, esponendo spudoratamente le differenze, le divergenze, le contraddizioni tra le bande, il film non starebbe riproducendo, nel suo conflitto interno, lacerato, contraddittorio, la doppiezza stessa del mito, del popolo, del popolo e della sua bandiera? Non starebbe riproducendo la duplicità del cinema stesso, del mito del cinema?,

Le domande, molte delle quali contro il film, non hanno necessariamente una risposta nella complessa cornice del film. Ma il fatto che ci siano, quasi come un acaro, il fatto che esigano un confronto critico, rende l'idea del rilievo e dell'audacia del documentario.

* * *

La risposta negativa alla frase imbalsamata, lavorata e rielaborata per tutto il film, ci si potrebbe chiedere, a ragione – sarebbe stata di Joaquim Pedro? Sarebbe stata davvero una risposta… personale, cioè autoriale? Il film non si discostava da un progetto originale, invitato a dirigerlo, arrivato in Brasile dopo gli studi in Europa e negli Stati Uniti, da Luiz Carlos Barreto e Armando Nogueira; la sceneggiatura è cambiata opus a dieci mani; gran parte del documentario fa scattare foto e filmati d'archivio; testo narrato dalla voce ancora, con la firma di entrambi che precede quella del regista, e che fa da guida allo spettatore, evoca quel lirismo da gradinata che già conosciamo, ma un po' imbarazzante per chi conosce le origini del regista, nutrito fin dalla culla nella migliore tradizione della nostra poesia Moderna. Infine, le carenze della paternità sarebbero innumerevoli., di Joaquim Pedro, per non lasciarsi coinvolgere in discussioni più oscure, su quanto o quanto possa esistere, senza compromettere troppo il genere – documentario d'autore…,

Potremmo affermarlo in Garrincha se alcuni tratti distintivi del regista sono già riconosciuti o raffinati, come il lirismo e la politica, in un'articolazione sobria; la problematizzazione dei temi in voga, come il popolo e la sua cultura, visti sotto il duplice aspetto di “straniamento” e autenticità; allusioni alla scena politica; il montaggio elaborato, nel suo modo dialettico; cinema con un'inclinazione riflessiva e investigativa; anche il costruttivismo un po' maniacale, visibile nel dettaglio, perché, alla fine, ad esempio, la maglia numero 7 va a rete solo dopo il... settimo gol!

Autorialità a parte, però, per quanto si possa parlare di autorialità in un'arte naturalmente collettiva come il cinema, si può riconoscere nel documentario una materia storica capace di configurare, al di là o al di sotto dell'unità tematica e/o stilistica, una certa unità oggettiva , capace di riproporre la questione su basi più materialistiche, una certa unità etico-politica, diciamo con Glauber Rocha, in un'introduzione a un libro-manifesto uscito nello stesso anno del film.,

La presenza viva della storia, che tanto aiuta a chiarire i dibattiti estetici, evidentemente non era in mostra o disponibile. Era come se si rivelasse, grazie in gran parte alle stesse opere artistiche, man mano che le loro fondamenta venivano scavate e scavate. Buono o cattivo, giusto o sbagliato, quello che si pensava e si infuriava era un paese colonizzato, un popolo povero, alienato, sottosviluppato, ma potenzialmente ricco, capace di decidere del proprio destino, come del resto faceva un popolo vicino e fraterno, i cubani , la cui allora recente rivoluzione ha ispirato credenti ovunque.

Non a caso molto di ciò che contraddistingue gli anni '60 è dovuto all'impulso rivoluzionario che le arti hanno assunto in quel periodo. E ancor meno per caso, in un'epoca pre-rivoluzionaria, che incombe su artisti e intellettuali di sinistra, sotto la necessità o il desiderio di scendere al popolo, con tutti gli errori, la questione della cultura popolare e con tutto le differenze, di arte in arte, di autore in autore, di opera in opera. Immaginario o romanzato, creato o imitato, riciclato o rivoluzionato, negato o affermato, tutto si potrebbe dire e fare, tranne ignorarlo.

Il dibattito estetico e politico sulla cultura popolare, nella sua diversa unità, dal teatro al cinema, passando per la letteratura, le arti visive, la musica, non era nuovo. La questione, di natura complessa nelle ex colonie, ha profonde radici in Brasile, riferibili al Modernismo, allo stesso Romanticismo, se non all'Arcadianesimo e all'Invocazione di Mineira, sempre mantenendo le dovute proporzioni, in cui comincia a svilupparsi il “popolo” e la “nazione”.,

La novità, per così dire, è che l'avanzata del movimento sociale negli anni '60, eccitato da un decennio evolutivo, ha politicizzato la questione, trasformandola in una questione nazionale, vale a dire una questione di liberazione nazionale, più o meno meno in linea con la promessa cubana e il nascente terzomondismo. La “situazione coloniale”, come la espresse Paulo Emílio in un famoso articolo del 1960,, ha dato il tono alle discussioni, e il cinema che si voleva, e che fermentava dai congressi degli anni Cinquanta, e che cominciava a succedere nei film di Nelson Pereira dos Santos, esplodeva con Cinema Novo, che si allontanava dal più tesi cepeciste dogmatiche, ma non poteva sottrarsi alla sua gravitazione storica, quando aleggiava lo spettro del popolare (spirito dei tempi?).

Qual è la via d'uscita? o le uscite? Rispettabile, ovviamente, impegnato che dovrebbero essere, in linea di principio, con il nuovo cinema. Uno di questi è stato fornito dallo stesso Nelson Pereira, con i suoi testi popolari, la sua canzone dell'uomo del popolo, che ha radici nell'agitazione culturale del comunismo militante e trova terreno fertile negli anni '1950 e '1960., La tentazione di Nelson era grande, e Coro de Gato Avevo già in parte compiuto questo viaggio dal generale al particolare, dal sociale all'individuale, senza perdere di vista nessuno dei due termini.

Garrincha, o Mané, come bandiera del popolo, senza smettere di ravvivare l'umiltà dei poeta del castello, reincarna anche un altro poeta popolare, Espírito da Luz Soares, da Rio, Zona Nord, del 1957, interpretato da Grande Otelo e ispirato alla vita di Zé Kéti. Il sambista delle colline, il poeta del popolo, il cui dolore e la cui gioia cantavano la sua musica, canta il film di Nelson Pereira. se dentro Fiume, quaranta gradi, dal 1955, si canta il popolo e la sua lotta, in un altro, due anni dopo, si canta anche il loro cantante, uniti come sono, lui e il suo popolo, in un unico spirito.

Va da sé che la stessa comunione, poetica e politica, la ritroviamo nel film di Joaquim Pedro. La stessa comunione... Nelsoniana. Dubbio? Solo retorica, e di sfuggita, solo un personaggio, quando Espírito torna in treno dall'appartamento di Moacyr, dove avviene lo sfasamento con la cultura erudita. Quando è seduto sul treno, tira fuori dalla tasca il pacchetto di canzoni, lo guarda sconsolato e minaccia di buttarlo dal finestrino. Ma quando seppe, attraverso la conversazione parallela, come il samba fosse radicato nella vita popolare, il suo dubbio sembrò dissiparsi, e tornò ad affermare la sua cultura, e quella del suo popolo, iniziando a cantare un nuovo inno, un nuovo samba , in seguito indimenticabile.

Senza dubbio il direttore di Vite secche? Non credo, visto che l'integrità dei suoi primi due film, quasi miracolosa, al punto da costituire autentici cimeli dell'antica Rio,, deriva certamente dalla sua profonda convinzione nella forza del popolo brasiliano.

C'era un'altra via d'uscita?

C'era Glauber Rocha, che, con i suoi Barravento, dal 1962, si è immerso nella religiosità popolare in un villaggio di pescatori di Bahia, e con i suoi Dio e il diavolo nella terra del sole, dal 1964, poi in corso nel 1963, ha viaggiato nelle profondità dell'“alienazione”, pellegrinando nel profondo del sertão alla ricerca del messianismo della croce e della spada. Prevale anche l'ambiguità nella trattazione del tema, affermata e negata allo stesso tempo, interiorizzando, nelle parole di Ismail Xavier, il “doppio movimento di valorizzazione-svalutazione del 'popolare'”.,

C'era più produzione? Si scavava e si scavava... senza allarme.

Un percorso diverso lo avrebbe forse problematizzato, come aveva già fatto in un certo senso Il poeta del castello e Il Maestro di Apipucos, quando il cugino povero e il cugino ricco si riunirono in un dittico, l'album di famiglia finì per rivelare le preferenze popolari del ritrattista, e con Coro de Gato, più visibilmente, non solo ostentando certe viscere del Carnevale, ma anche scartando, assumendo l'esperienza della miseria, il discorso meccanicistico della “coscientizzazione” e della “politicizzazione”.

Toccando un tema spinoso, problematizzando la cultura popolare e nazionale, Garrincha, Allegria do Povo ha toccato i limiti di diversi miti, il mito popolare, il mito del popolo, il mito del cinema. Tornerebbe a loro, senza dubbio, come il karma di ogni cineasta politico, ma in un registro erudito, mobilitando le sue fonti letterarie, imboccando definitivamente la strada che lo distinguerebbe: filmare l'infilmabile.,

*Airton Paschoa è uno scrittore, autore, tra gli altri libri, di vedi navi (e-galaxia, 2021, 2a edizione, rivista).

Originariamente pubblicato, con il titolo “Mané, bandeira do povo”, sulla rivista Nuovi studi Cebrap N. 67 (novembre 2003).

Riferimento


Garrincha, gioia del popolo

Brasile, 1962, documentario, 58 minuti.

Regia: Joaquim Pedro de Andrade.

Sceneggiatura: Joaquim Pedro de Andrade, Luiz Carlos Barreto, Armando Nogueira, Mário Carneiro e David E. Neves.

Produzione: Luiz Carlos Barreto e Armando Nogueira.

Narrazione: Heron Domingues.

Montaggio: Nello Melli e Joaquim Pedro de Andrade.

Fotografia: Mario Carneiro.

Prima nel circuito commerciale: Rio de Janeiro, 29 luglio 1963.

note:


, “Modernità e Rivoluzione”, affinità selettive (org. di Emir Sader e trad. di Paulo Castanheira, São Paulo, Boitempo, 2002).

, Ecco il brano cantato e recitato: “Mio glorioso Brasile,/ sei bello, sei forte, sei un colosso;/ sei ricco per natura stessa./ Non ho mai visto tanta bellezza!/ Chiamata Terra di Santa Cruz, / oh patria amata, terra amata, terra di luce!”

, Ai fini della nostra analisi, ecco le sequenze del film (58 minuti, non 70 minuti, come di solito si afferma in diversi file), e il tempo medio di ciascuna: 1.a) Apertura (o l'offerta buchada) (5min): a) inizio dei titoli di coda; b) foto di Garrincha; c) frase di Nélson Rodrigues; d) la città che colpisce la palla; e) crediti; due.a) Il popolo e la sua gioia (11min): a) Spogliatoio del Botafogo; b) attorcigliato; c) partite/feste di campionato; 3.a) La popolarità di Garrincha (3min): a) dichiarazione del giocatore (ritratto dell'umiltà); b) prova in centro città; 4.a) Pau Grande, o la vita bucolica (5min): a) Casa/famiglia di Garrincha, mainá/visite politiche; b) nudi e “birra” (coca-cola) con gli amici d'infanzia; c) partenza presso la fabbrica tessile / Esporte Clube Pau Grande; 5.a) Nel Botafogo, o calcio professionistico (4min): a) allenamento; b) concentrazione; 6.a) Testimonianza medica, ovvero il “caso Garrincha” (1min); 7.a) La superstizione nazionale (1min): a) D. Delfina: b) JK; 8.a) Garrinchíada, ovvero l'epopea dei Mondiali del '62 (12min): a) le partite; b) fine 58; c) fine 62; 9.a) Celebrazioni (3min): a) festa popolare; b) festa di palazzo; 10.a) Il fenomeno calcio, e le due teorie (9:30 min): a) fine anni 50: festa e frustrazione; b) due teorie (psicoanalitica e psicosociale) / battaglia campale / gioia campale / malinconia campale; 11.a) Finale, o cattura del Maracanã (4min): a) arrivo dei tifosi; b) ripetuti gol da idolo; c) foto di Garrincha in rete.

, “Povo de garrinchas” può essere visto, linguisticamente parlando, come idiomatismo, o idiotismo, un'espressione che è di natura intraducibile, — idiomatica, in una parola. Espressione di un'utopia personale, l'autore di “povo de garrinchas” è dunque, sempre in termini linguistici, una sorta di idiota della soggettività.

, Credere in Nascentes (secondo il Dizionario Houaiss della lingua portoghese) e non Aurelio (cfr. “scricciolo”), l'approssimazione non è solo poetica, ma etimologica. Garrincha, o garriça, o scricciolo, derivato da “camba” (“nero”) + “xirra”, o “xilra” (“rondine”), equivarrebbe, in Tupi-Guarani, a “rondine nera”.

, Il riconoscimento musicale, per le cui eventuali cacofonie non deve essere biasimato, fu affidato al giovane e generoso maestro Guilherme de Camargo.

, Ad eccezione dell'apertura e della conclusione, comandate rispettivamente dalla musica, “Brasil glorioso” e “O Império desce”, possiamo suddividere il testo narrativo del film in nove blocchi tematici: 1°) il nome poetico; 2°) La popolarità di Garrincha; 3.º) la vita bucolica a Pau Grande; 4.º) la dura vita a Botafogo; 5) il “caso” Garrincha; 6) superstizione nazionale; 7°) Garrinchíada, o l'epopea di bi; 8) il discorso del generale; e 9°) il fenomeno del calcio, o entrambe le teorie.

, “Mané Garrincha era uno di quegli idoli provvidenziali con cui il caso veniva incontro alle masse popolari e anche ai pezzi grossi periodicamente responsabili delle sorti del Brasile, offrendo loro il giocatore che contraddiceva tutti i principi sacramentali del gioco, e che tuttavia otteneva il massimo risultati deliziosi. Non sarebbe davvero un segnale che il Paese, impreparato al destino glorioso a cui aspiriamo, riuscirebbe anche a superare i suoi limiti e le sue deficienze e raggiungere quel punto di grandezza che ci renderebbe individualmente il più grande orgoglio, a causa dell'estinzione dell'ex complessi coloniali?” (Carlos Drummond de Andrade, “Mané e il sogno”, Quando è il giorno del calcio, Rio de Janeiro, Documento, 2002, pag. 217).

, Roland Barthes, mitologie (trad. Rita Buongermino e Pedro de Souza, Rio de Janeiro/ San Paolo, Difel, 1978).

, Ecco il brano cantato, o meglio ciò che se ne potrebbe distinguere: “L'Impero scende,/ per mostrare là nella città,/ che ha valore,/ ma non ha vanità./ Non c'è separazione/ […] / perché forza, / è l'unione che fa./ Per questo la nostra scuola,/ quando scende, grazie a Dio,/ porta sempre vittoria».

, Vedere l'interpretazione di Macunaima di Ismail Saverio, Allegorie del sottosviluppo: nuovo cinema, tropicalismo, cinema marginale (San Paolo, Brasile, 1993). Nella sua critica al malandragem nazionale, il film è un altro esempio del passaggio da “allegoria della speranza” a “allegoria della disillusione”.

, “Per fare un film di questo tipo, dove si cerca di catturare la realtà spontanea quando e dove accade, bisogna proprio avere un'attrezzatura portatile, leggera, discreta, in modo che non venga percepita, senza interferire o alterare la realtà. Sebbene questa attrezzatura esista già, principalmente a causa dell'influenza del mercato televisivo, noi, qui in Brasile, non l'abbiamo (...) I film che abbiamo fatto, Garrincha per esempio, risentirsi molto. Se avessi la possibilità di esplorare il campo del suono parlato, del concetto, potrei fare molto di più. Le scene che ho provato a girare all'esterno, da dove proveniva effettivamente il suono, erano molto imperfette dal punto di vista tecnico. Sono stato costretto ad abbandonarli. Il massimo che potevo fare era un'intervista in studio, senza nascondere, tra l'altro, che si trattava di un'intervista. Ha chiesto, ascoltato e registrato suoni e immagini. Comunque, anche con le moderne attrezzature, il problema non è del tutto superato, perché la macchina da presa è sempre inquietante, con la necessità di una tecnica particolare per ogni stile di film” (“O cinema-verdade”, intervista di Joaquim Pedro e Mário Carneiro a Marialva Monteiro e Ronaldo Monteiro, Rivista di cultura cinematografica, Belo Horizonte, sd [probabilmente 1963], p. 138).

, retorica a parte, dixit Glauber: “Garrincha è tipo di vero cinema e non vero cinema come un tipo di cinema"(Rassegna del cinema brasiliano, Rio de Janeiro, Civiltà brasiliana, 1963, p. 123, il corsivo è mio).

, Come un critico più purista afferma in un articolo dell'epoca: “(…) The cinema verità è soprattutto un documento autentico e sincero su ogni aspetto della realtà.// Garrincha, gioia di un popolo [sic] è stato presentato dagli autori come esempio di cinema verità [sic]. L'obiettivo proposto era, quindi, quello di fornire un documento sulla vita quotidiana del calciatore, i suoi contatti con la professione, la sua vita familiare, la sua posizione davanti al pubblico entusiasta. Ma veniamo ai fatti. Il film mostra, in un primo momento, una serie di giochi del Botafogo, concentrandosi su alcuni bellissimi obiettivi di Garrincha. Lo vediamo più tardi nella sua modesta stanza, mentre balla twist con le figlie. Seguiamo il suo passaggio attraverso il centro di Rio, presto scoperto da decine di estimatori. C'è una breve intervista al giocatore e le dichiarazioni del medico del Botafogo. Inizia una lunga documentazione sui campionati del mondo in cui Garrincha giocò e, non si sa perché, anche quello del 1950, in cui il Brasile perse contro l'Uruguay. La sequenza della bistrattata attualità è interrotta da inquadrature di tifosi esultanti o sofferenti sugli spalti dello stadio. Così terminano i lunghi 70 minuti [sic] In Garrincha, gioia di un popolo [sic]; il materiale a disposizione servirebbe comunque per un buon breve documentario sul calcio in Brasile.// È il momento di chiedersi: dov'è la vita del giocatore presa dal vivo, nelle conversazioni spontanee, negli atteggiamenti imprevisti degli spogliatoi, dei bar , le strade? Dov'è finita la psicologia dei tifosi con quei commenti deliziosi che senti a fine partita e che esprimono tutta una passione? Dov'è la chiave realistica, ripetuta mille volte da angolazioni sempre diverse, che permette allo spettatore di attraversare la superficie degli esseri umani e delle collettività, penetrando nel loro interno, passando dalle mere apparenze a ciò che realmente è?// Non giudichiamo il meriti del film di Joachim Pedro. Critichiamo la pretesa ingenua e frettolosa di chiamarlo cinema verità [sic], come se la definizione equivalesse al semplice gesto di mettersi una giacca (…)” (José F. de Barros, “Il Brasile porta il cinema a Sestri Levante”, Rivista di cultura cinematografica, op. cit., P. 74-75).

, Per una panoramica illuminante del nuovo documentario, man mano che il regista ha preso confidenza con le tecniche di cinema verità, o cinema diretto, vedi Luciana Araújo (on. cit., spec. la sezione “New York” del cap. 4, “Stagione all'estero”, p. 126-130).

, “È importante sottolineare che, in questa occasione, la virulenza di Lacerda nella lotta contro Vargas raggiunse un punto tale che il giornalista finì per fornire a Samuel Wainer un pretesto per vendicarsi della campagna lanciata l'anno precedente contro il Last Minute. Nasce così il soprannome di 'Corvo', che porterà per tutta la vita. // In effetti, il soprannome ha origine da una vignetta del fumettista Lan, pubblicata in Last Minute, il 25 maggio 1954 (…)// Anche Lacerda (…) assistette al funerale [dell'editorialista di polizia Nestor Moreira, vittima di un pestaggio da parte della polizia], tutto vestito di nero. Con le lacrime agli occhi, ha tenuto un discorso sulla tomba, condannando la violenza della polizia (…) Samuel Wainer, che aveva anche partecipato alla cerimonia, ha descritto a Lan cosa gli ricordava la figura di Lacerda, chiedendo al vignettista di caratterizzare il suo nemico come un corvo davanti a lui bordo della bara. Il disegno ebbe un tale successo che fu ripubblicato il 27 maggio e, da allora, il giornalista non si è più liberato di quel soprannome” (Marina Gusmão de Mendonça, Il distruttore di presidenti: la traiettoria politica di Carlos Lacerda: 1930-1968, San Paolo, Codex, 2002, p. 146).

, Luciana Araújo propone un'altra interpretazione, suggestiva, non necessariamente antagonista: “(…) credo che il film commenti, attraverso la figura di Garrincha, la sua stessa vicinanza [del regista] al potere. L'inclusione del Banco Nacional de Minas Gerais (finanziatore del film, che compare nei titoli di coda) è troppo scontata per avere ragioni esclusivamente finanziarie. Allo stesso modo, l'insistenza nel concentrarsi su Carlos Lacerda (nelle foto e nei filmati) supera il trattamento riservato ad altri politici (compresi i presidenti, più potenti di Lacerda). Forse in questi momenti si sta insinuando un sottile rapporto tra lo spettacolo cinematografico e quello calcistico, tra cineasta e giocatore. In comune, l'impegno per il potere, che abilita (o incoraggia) lo spettacolo attraverso il finanziamento” (op. cit., P. 151).

, “(…) in queste condizioni non usavamo luce artificiale, filmavamo le cose mentre accadevano, e avevamo diverse telecamere. Questa fu una delle novità del film, subito adottata, anche la settimana successiva, da Carlos Niemeyer, su quel Canal 100 (…) Usava una sola macchina da presa in un primo piano. Quando ha visto il nostro filmato con cinque telecamere disposte in vari modi, ha adottato immediatamente questa tattica. Ha iniziato a montare alcune scene, come fa ancora oggi, evitando, in generale, il montaggio che facevo io nel Garrincha e riproducendo le scene sul set in modo che gli appassionati di calcio possano vederlo da più angolazioni, l'intero spettacolo, senza il taglio cinematografico che si verifica nel mezzo che era una caratteristica del Garrincha” (“Il conflitto nel rapporto cineasta/direttore della fotografia”, intervista di Joaquim Pedro de Andrade, a cura di David França Mendes e trascritta dal video di Adriana Lutf, Dimensioni, anno I, n.º 0, 1992, p. 19).

, A modo suo, un po' maldestramente, ha toccato Glauber sui temi più complessi del film, oltre a difendere il nuovo cinema (paradossalmente?) come nuovo mito popolare: “Garrincha, perché i suoi autori sono consapevoli del cinema (e di conseguenza dell'intero processo brasiliano), incorpora i primi segni di un cinema demistificatore che parte dagli stessi miti popolari: un cinema che si indica come un nuovo mito del popolo, sostituendo i miti che essa stessa distrugge nel suo modo di rivelare, conoscere, discutere e trasformare” (on. cit., p. 124).

, Per vedere le aporie del tema trattato in un contesto idealista e/o formalista, cfr. di Jean Claude Bernardet L'autore nel cinema — la politica degli autori: Francia, Brasile negli anni '50 e '60 (San Paolo, Brasiliense/Edusp, 1994). Nelle pagine dedicate a Glauber, Jean-Claude incontra un'altra visione dell'autorialità, il cui sviluppo potrebbe portare la discussione su un terreno meno soggettivista.

, Oppure, nelle parole del regista: “C'è davvero una grande differenza nella divisione del lavoro e della responsabilità tra fare film documentari, giornalistici o meno, e fiction, sceneggiature. Una delle parti fondamentali del cinema verité è quella del cameraman, o registratore di suoni. È molto difficile per un regista fare un film di questo tipo, anche se ha un cameraman che può eseguire rapidamente i suoi ordini. In genere succede che il regista è anche il cameraman o il registratore di suoni. È così che ottieni risultati migliori. I tecnici, in questo caso, si identificano con i creatori, gli intellettuali. Si tratta, quindi, di un lavoro di squadra molto più pronunciato, molto più vero che in altri tipi di cinema. Garrincha è il risultato del lavoro congiunto di molte persone, compreso il montaggio, a causa del grado molto maggiore di improvvisazione. Gran parte della creazione è improvvisata sia nella ripresa della scena, sia nella registrazione, sia nel montaggio. Contrariamente a quanto accade con il film di finzione (“O cinema-verdade”, on. cit., P. 52-53).

, “L'autore ha la massima responsabilità per la verità: la sua estetica è un'etica, la sua messa in scena è una politica” (Glauber Rocha, on. cit., P. 14). E «la morale del 'cinema novo' brasiliano», — aggiunge ancora, mettendo insieme etica, estetica e politica, — «è fatalmente rivoluzionaria» (id., p. 44).

, Tanto per dare un'idea dell'ananas — data la personale impossibilità di ricostruirne il sinuoso percorso storico, con diverse configurazioni e riconfigurazioni — si apprende che solo dagli anni '60 agli anni '80 si individuano tre costellazioni distinte, secondo il Center for Contemporary Art Studies ( Ceac), responsabile della pubblicazione dei vari numeri del Arte in rivista, una valutazione effettuata alla fine degli anni '70 con una chiara finalità di intervento politico e culturale. Dopo il fausto inizio e la cupa fine degli anni Sessanta, a seguito del golpe e dell'irrigidimento del regime post-60, l'apertura politica ha portato a ripensare o addirittura a riprendere – criticamente – il cammino che era stato brutalmente interrotto. Nuova illusione? Chi vuole sbucciare il “frutto recente”, che continua a profumare ancora oggi, può iniziare con il seminari di Marilena Chauí, del 1983, che danno una panoramica della formidabile impresa. Il libro fa parte di una preziosa collezione, Il nazionale e il popolare nella cultura brasiliana, lanciato da Brasiliense all'inizio degli anni '80, ed è il risultato, come suggerisce il nome, di discussioni tenutesi presso il Nucleo Studi e Ricerche di Funarte. Oltre ad esso e al libro di Maria Rita e Jean-Claude, già citato, ci sono anche nella raccolta Teatro (di José Arrabal e Mariângela Alves Lima) e TV (di Carlos Alberto Pereira e Ricardo Miranda), entrambi 83 anni; Arti plastiche e letteratura (di Carlos Zilio, João Luiz Lafetá e Ligia Chiappini Moraes Leite) e Musicale (di Enio Squeff e José Miguel Wisnik), datato 82. Per un excursus didattico sull'argomento, si veda anche, di Sebastião Uchoa Leite, “Cultura popolare: abbozzo di una rassegna critica”, Rivista di civiltà brasiliana, nf.o 4, settembre/65, pag. 269-289.

, “Una situazione coloniale”, L'arte nella rivista 1, gen-mar/79, pag. 11-14.

, Marcello Ridenti, Alla ricerca del popolo brasiliano - Artisti della rivoluzione, dal PCC all'era della TV (Rio de Janeiro, Disco, 2000).

, Cfr. “Reliquie dell'antica Rio”, sulla rivista cinema n.o 35, articolo da me su Coro de Gato, il cortometraggio del 1961/62 di Joaquim Pedro, una sorta di episodio squisito, tra l'altro, della lirica popolare inaugurata da Nelson Pereira con i suoi primi due film.

, E prosegue il critico: “Seguendo la tendenza generale, [i due film di Glauber] elaborano la critica delle rappresentazioni delle classi dominate a partire dal concetto di 'alienazione'. Ma, contenendo in sé un movimento di affermazione di queste rappresentazioni come resistenza, luogo di un'identità da prendere come punto di partenza, questi film sono anche segnati da adesione e lode. Assumono, per davvero, i significati da loro elaborati e cercano in essi qualche lezione sull'esperienza, non solo la forma 'comunicativa' [predicata dal CPC]” (mare di boschi, on. cit., p. 162).

28] Cfr. articolo da me, “L'esordio di Joaquim Pedro: gigante addormentato e bandiera popolare”, in Revisione USP n.o 63, settembre/ottobre/novembre/2004.

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