Giorgio Agamben e Hegel

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da JOÃO CARLOS BRUM TORRES*

Commento al libro “Il Regno e la Gloria”

1.

Il libro di Agamben è uno studio genealogico molto erudito delle matrici teologiche dei concetti politici fondamentali. Il suo primo obiettivo è dimostrare che la tesi di Carl Schmitt secondo cui tutti i concetti rilevanti della moderna teoria dello Stato sono concetti teologici secolarizzati deve essere estesa ben oltre “i limiti del diritto pubblico”, un'estensione di portata che andrebbe fino “comprendere tutti i concetti fondamentali dell'economia e la stessa concezione della vita riproduttiva delle società umane”. La conseguenza, dice anche il libro, è che bisognerà sostenere – contro la comprensione di Carl Schmitt – che “la teologia cristiana è, fin dall'inizio, economico-manageriale e non politico-statale”.

Più in particolare, il programma di analisi di Agamben raccomanda di distinguere due paradigmi antinomici, sebbene connessi, di determinazione teologica dei concetti politici, intendendo l'aggettivo nel senso più ampio possibile. La prima, più studiata, lega la moderna teoria della sovranità all'idea di un Dio unico e onnipotente; il secondo, ancora da ricercare, sviluppare e dimostrare, compito che, appunto, si propone Il Regno e la Gloria, svelerebbe come l'economia – intesa globalmente e secondo l'origine etimologica del termine, cioè come governo generale delle società, in cui si coniugano gestioni pubbliche e iniziative e azioni private – abbia come determinante genealogico ultimo la teologia trinitaria .

Ciò che può essere insolito e stravagante in questo suggerimento è portato nel registro più ordinario dall'avvertimento e raccomandazione metodologica di Agamben che nel lavoro di archeologia concettuale, il ricercatore deve essere preparato per "la possibilità che la genealogia di un concetto (...) possa collocarsi in un luogo diverso da quello che si ipotizzava all'inizio”, il che sarebbe proprio quanto avviene nel caso delle istituzioni e dei concetti politici, la cui “genealogia”, ci dice l'autore, “va ricercata davanti a noi Trattati De gubernatione dei e negli scritti sulla provvidenza” che in quelli strettamente dedicati alle questioni politiche come, ad esempio, il de regno di Santo Tommaso.

Anche se questo non è detto espressamente, materialmente considerato, il suggerimento sembra essere che se si vuole davvero penetrare gli arcani in cui si decide genealogicamente il nocciolo duro del pensiero sul politico, occorre sostituire la semplicità di una lettura ebraica , per così dire, dell'Antico Testamento e del rigido monoteismo che lo caratterizzerà, la ben più complessa teologia neotestamentaria, il cui primo scoglio si troverebbe nella primitiva, furba e sofisticatissima teorizzazione economica del dogma trinitario, che però , più tardi - quando la spiegazione della trinità cominciò ad essere fatta sistematicamente in termini teologico-metafisici - essa verrà intesa soprattutto come economia provvidenziale e utilizzata, quindi, come chiave di lettura dell'opera e dei misteri della Provvidenza.

Lo sviluppo della dimostrazione genealogica di Agamben è lungo, complesso, fortemente filologico, e decisamente non posso ricostruirlo qui. Tuttavia, l'argomentazione generale del libro è l'idea che la concezione teologica dell'economia trinitaria - attraverso la quale furono concepite prima l'unità e la diversità immanenti di Dio e, poi, quella che i teologi moderni chiamano economia della salvezza - costituisca, come anticipato sopra , la base concettuale da cui partire per comprendere la complessa unità del governo economico del mondo, all'interno della quale le azioni dei governi si combinano e completano quello che oggi, exotericamente, si chiama dominio economico.

È fondamentale comprendere, però, precisa l'autore che: “I due paradigmi [quello della tradizione politica in senso stretto e quello della tradizione economico-governativa] sussistono insieme e si intrecciano fino a formare un sistema bipolare la cui comprensione costituisce la condizione preliminare a qualsiasi interpretazione della storia politica dell'Occidente.

In questa prospettiva, l'esame dei testi di Ippolito di Roma, di Tertulliano, delle Origines, di Clemente Alessandrino, di san Gregorio Naziazeno, di Numenio, di Eusebio di Cesarea, di sant'Agostino, di san Tommaso d'Aquino, di Giovanni XXII e Guglielmo di Occam, Leibniz, Malebranche, Bossuet, tra gli altri, serve a mostrare ossessivamente le derivazioni e gli sviluppi dottrinali che comandano e risultano dall'evoluzione di quello che Agamben chiama il dispositivo trinitario, attraverso il quale si strutturano in anticipo, secondo l'autore , le categorie centrali di quello che sarebbe poi diventato il pensiero specificamente politico dell'Occidente.

C'è, però, nella lunga ricostituzione di questa storia concettuale ancora molto più lunga e complessa, un passaggio assolutamente strategico per la tesi di Agamben e che mi sembra molto problematico ed è proprio quello di coglierla meglio e, almeno, delimitare le sue implicazioni, che mi sembrano di grande interesse da leggere in modo incrociato Il Regno e la Gloria con la concezione speculativa del sillogismo.

Il passaggio critico che ho in mente non è la tesi generale del libro, questa idea che se vista dalla prospettiva delle sue radici teologiche, si scopre un rapporto interno tra la tradizione politica in senso stretto e la tradizione economico-governativa. Questo punto sembra ermeneuticamente molto stimolante, persuasivo e illuminante. Quello che sembra problematico è altro, è il complemento, o, chissà meglio, questa specie di scolio che gli è associato, la tesi che non c'è soluzione di continuità quando il concetto di oikonomia si sposta dall'interpretazione del mistero della trinità alla spiegazione di quella che verrà chiamata l'economia della salvezza.

O, per dirla in altro modo: anche se questo spostamento dottrinale dell'uso teologico del concetto di economia è avvenuto naturalmente, per così dire, in vista del dogma dell'incarnazione del Figlio, ciò non significa che questo spostamento non implichi non solo un'altra teologia, ma anche un altro e incompatibile modo di intendere i rapporti del finito con l'infinito. Per comprendere questo punto, però, è necessario passare a Hegel, ma prima di questo, come indispensabile premessa, conviene ritirarsi, anche solo per un attimo, nel registro strettamente teologico.

2.

Capitolo II di Il Regno e la Gloria traccia l'evoluzione dell'uso delle parole oikonomia, e le sue traduzioni latine, disposizione e dispensa, tra i primi Padri della Chiesa e mostra come il termine abbia acquisito un senso teologicamente tecnico per la prima volta nelle opere di Ippolito di Roma e Tertulliano, punto che Agamben registra dicendo: “Secondo un'opinione diffusa, è in Ippolito e Tertulliano quell'oikonomia cessò di essere solo un'estensione analogica del vocabolario domestico all'ambito religioso per diventare un termine tecnico usato per designare l'articolazione trinitaria della vita divina”.

L'annotazione immediatamente successiva spiega che: “Il concetto di oikonomia è, quindi, l'operatore strategico che ha permesso la riconciliazione provvisoria tra la trinità e l'unità divina, prima che un vero vocabolario filosofico fosse elaborato nei secoli IV e V.

Agambem sottolinea che il tratto distintivo di questa prima soluzione del problema trinitario, di questo appello all'economia, consiste nell'affrontare il paradosso contenuto nell'idea di un Dio unico, ma costitutivamente trino, evitando l'ontologia e cercando di dar conto della diversità delle persone come determinata non ontologicamente, ma praticamente, come diversità, non della sostanza divina, ma della sua azione o operazione. Questa tesi implica, in particolare, la possibilità di ammettere che, sebbene il padre debba essere inteso come arké, il Figlio sarebbe anarconte, l'Infondato, come si legge in un passo di san Gregorio Naziazeno citato in Il Regno e la Gloria.

In ogni caso, a questo punto, ai fini che abbiamo in questa comunicazione, è opportuno segnalare, in primo luogo, come fa un importante teologo dei nostri giorni, l'attuale Segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, l'Arcivescovo Luis F. Ladaria, che questo uso del termine oikonomia dai primi padri, soprattutto da Tertulliano, designa soprattutto una realtà “intratrinitaria”.[I] D'altra parte, però, è ugualmente rilevante insistere, come già accennato sopra, ripetendo ovviamente Agamben, che il paradigma economico fu presto spostato alla spiegazione dei rapporti di Dio con le cose finite, essendo divenuto, nel verità, concetto centrale nella spiegazione del governo del mondo e nella dottrina salvifica.

Ora, ciò che vorrei esaminare qui e ora sono le implicazioni di questo spostamento e mostrare come sia possibile vedere, o almeno intravedere, nella sillogistica hegeliana una sorta di dimostrazione con l'esempio che il contenimento e la conservazione di oikonomia in quanto espressione di relazioni “intratrinitarie”, consente di evitare le aporie che derivano necessariamente dalla sua estensione alla teorizzazione della creazione e del suo destino, cioè alla dottrina della salvezza e al contenuto escatologico che ad essa è necessariamente associato. La spiegazione di questo punto, anche se lo farò in modo molto schematico, non può non essere un po' sinuosa e richiede quindi un po' di pazienza.

3.

Nel valutare questo spostamento dell'uso teologicamente tecnico del concetto di oikonomia dal piano delle relazioni intratrinitarie alle relazioni di Dio con il mondo, Agamben cerca di decostruire le difficoltà esegetiche causate da questo cambiamento nell'uso del concetto, così come si sforza di squalificare la lunga storia di contraddizioni e polemiche sollevate da questa importante espansione di suo dominio di applicazione, e per questo osserva quanto segue: “Il conflitto di interpretazioni riposa sull'erroneo presupposto secondo cui il termine oikonomia avrebbe (...) due significati contraddittori tra i quali i Padri avrebbero esitato più o meno consapevolmente . Un'analisi più attenta permette di stabilire che non si tratta di due accezioni dello stesso termine, ma di un tentativo di articolare congiuntamente in un'unica sfera semantica (quella del termine oikonomia) una serie di livelli la cui conciliazione era problematica: l'esteriorità al mondo e governo del mondo, unità nell'essere e pluralità di azioni, ontologia e storia. Non solo i due significati (….) non si contraddicono, ma recuperano la loro piena intelligibilità solo se ci rendiamo conto della loro relazione funzionale. Esse costituiscono, in effetti, le due facce di un'unica oikonomia divina, in cui ontologia e pragmatica, articolazione trinitaria e governo del mondo rimandano reciprocamente la soluzione delle loro aporie”.

Tuttavia, a dir poco, questa soluzione è tutt'altro che perfetta. Infatti, una volta compreso il oikonomia trinitaria in funzione della dottrina salvifica, la trinità diventa costitutivamente escatologica e, quindi, inevitabilmente legata alle idee del Giudizio Universale e della fine dei tempi. Ora, una volta creata questa associazione, se il file oikonomia La Trinità viene così pensata in funzione della creazione, incarnazione e salvezza dei giusti — vale la pena chiedersi se Dio non si farà dipendente dal creato e, all'interno del creato, dall'uomo stesso, il cui dramma sembra diventano costitutivi della struttura interna del divino stesso.

Inoltre, come si vedrà in seguito, ci si può chiedere anche quale articolazione logica rimarrà, quale ragione ci sarà per mantenere e conservare la visione trinitaria di Dio, poi, alla fine dei tempi, nelle condizioni del pleroma, quando , appunto, l'economia della salvezza è stata chiusa e completata. Va notato che è proprio qui che emergono le discussioni teologiche tradizionali, di cui Agamben cerca di insabbiare la ragione d'essere nel testo appena citato. La difficoltà in questione è, tuttavia, fortemente resistente e lo stesso Agamben, un po' irrilevante, la ripropone più avanti nel libro come segno del limite di ogni speculazione teologica.

Nella teologia moderna, infatti, il punto di netta criticità implicato in questa discussione è spesso posto nell'esposizione di ciò che i teologi chiamano le dottrine immanenti ed economiche del dogma trinitario. La recente esposizione che ne fa il già citato Luiz Ladaria, in discussione con la versione proposta da Karl Rahner per comprendere l'articolazione di queste due teologie, ci permetterà di riassumere con ragionevole sicurezza l'essenza del problema in discussione.

Secondo Ladaria, nel suo lavoro Mysterium Salutis. Fondamenti della dogmatica come storia della salvezza, Rahner enuncia il cosiddetto “assioma fondamentale” della teologia trinitaria nei seguenti termini: “la Trinità economica è la Trinità immanente e viceversa”.[Ii] Tuttavia, secondo l'arcivescovo Ladaria, nonostante la rilevanza dell'opera di Rahner per recuperare l'antica verità che ha senso parlare del Dio uno e trino solo dalla "rivelazione avvenuta in Cristo",[Iii] il viceversa contenuto nella sua formula è visibilmente problematico e virtualmente anatematizzabile, in quanto può facilmente portare all'idea che Dio diventa trino solo in quanto comunica con gli uomini.[Iv]

Un punto che, si capisce subito, lo porterebbe quasi direttamente a una concezione hegeliana della trinità in cui l'astrazione e l'indeterminatezza del Padre è superata attraverso la sua manifestazione positiva e particolarizzata nell'opera della creazione e, quindi, nel Figlio , grazie alla quale avrebbe recuperato, finalmente, se stesso in quanto, per mezzo di Lui, sarebbe tornato a se stesso come conoscenza di sé, cioè come Spirito Santo.

Ora, una tale interpretazione del dogma della Trinità rende Dio non Dio senza il mondo, rende necessaria e non libera la creazione e l'Incarnazione,[V] con la conseguenza che, come si può dire parafrasando un passo di Hans Urs von Balthasar citato da Ladaria, diventa imperativo vedere Dio come “assorbito nel processo del mondo”, non potendo, quindi, “venire in sé non passare attraverso detto processo”.[Vi]

Nel presente contesto, le conseguenze disastrose portate da questa interpretazione hegeliana della Trinità per l'integrità della dottrina della fede e della sua Congregazione non hanno importanza.

Ciò che mi interessa, invece, in primo luogo, è cercare di dimostrare, seppur controintuitivamente, che interpretando la Trinità in termini genuinamente hegeliani, lungi dal ridurre o subordinare la cosiddetta trinità immanente alla trinità economica, dando così la visione dell'assoluto carattere costitutivo, escatologico, fa piuttosto il contrario, accadendo così, se non sbagliamo nell'interpretazione, che Hegel, appunto, quello che fa è recuperare il concetto di oikonomia proposta originariamente da Tertulliano, separando la teoria dell'assoluto dall'escatologia.

Un secondo risultato e un secondo vantaggio della posizione hegeliana che vorrei argomentare, se così posso dire, è che, ammettendo la precedenza proposta da Agamben delle strutture concettuali teologiche su quelle dedicate alla spiegazione del politico, si guadagna in questo campo, grazie a ciò – grazie al passaggio hegeliano – una liberazione da ogni messianismo e una visione molto più realistica e integrata di oikonomia etica, se, ancora una volta, mi è permesso usare quell'espressione che Hegel molto probabilmente rifiuterebbe. Ma diamo un'occhiata un po' più da vicino, anche se il dispiegamento – perché altrimenti posso – sarà minimalista.

4.

Dimostrare con precisione e con supporto testuale come la sillogistica hegeliana recupera la concezione originaria di oikonomia Trinitario e, quindi, permette di evitare le aporie insite nella sua estensione alla dottrina della salvezza e all'escatologia che le è inerente, è un compito esegeticamente complesso, la cui attuazione richiede un'ampia lettura dei testi, oltre ad essere condannata a confrontarsi con il problemi più complessi e difficili di interpretazione dell'opera di Hegel.

In questa comunicazione, però, cercherò di fare un breve corso. Tuttavia, prima di ciò, in epigrafe, o, forse meglio, in una sorta di preavviso, ci sembra opportuno citare l'affermazione che si legge nella sezione sulle prove dell'esistenza di Dio, nel Lezioni di filosofia della religione, dove si dice molto espressamente che «in quanto si parla di conoscenza di Dio, si parla subito della forma di un sillogismo».[Vii]

Rendere un po' più chiara questa affermazione è uno dei desideratum da perseguire qui, ma per realizzarlo è meglio andare direttamente a quei testi in cui Hegel tratta direttamente ed esaurientemente questioni teologiche. Quindi, per cominciare, e non senza una certa ironia, all'inizio di Filosofia della natura, al § 247, Hegel dice:

“L'idea divina è proprio questa, risolvere quest'altra cosa fuori di sé e riprenderla nuovamente in sé, essere soggettività e spirito”.[Viii]

Questo rozzo riassunto della parte più essenziale della filosofia hegeliana è ancora troppo indeterminato per chiarire ulteriormente e corroborare la tesi sopra esposta, ed è certamente necessario spiegare con maggiore chiarezza in che cosa consiste questa risoluzione dell'idea divina. O topos è ricorrente nella filosofia hegeliana ei testi abbondano.

Così, per andare oltre, possiamo riferirci, ad esempio, all'Addendum al paragrafo 381 della stessa Enciclopedia dove si legge quanto segue: «Come è noto, la teologia esprime questo processo nel modo della rappresentazione, dicendo che Dio Padre ( l'Universale semplice, che è in sé), rinunciando alla sua solitudine, crea la natura (il fuori di sé, ciò che è fuori di sé), genera un Figlio del suo altro Sé); ma questo Altro, in forza del suo infinito amore, contempla se stesso, lì riconosce la sua immagine, e in essa ritorna all'unità con sé. [Quella] unità, non più astratta, immediata, ma concreta, mediata dalla differenza, è lo Spirito Santo, che procede dal Padre e dal Figlio e nella comunità cristiana raggiunge la sua perfetta efficacia e verità”.

Tuttavia, questa presentazione della trinità nel linguaggio della rappresentazione, nel senso peculiare che l'hegelismo dà alla parola, nonostante sia espressa con le stesse parole di Hegel e introdotta come versione pedagogica della sua stessa posizione, non conferma ancora la l'affermazione che abbiamo fatto sopra che la teoria hegeliana dell'Idea Assoluta implica un'interpretazione del dogma trinitario che, espressa nel linguaggio dei teologi attuali, sarebbe immanente piuttosto che salvifica. Tanto meno ci fa vedere perché implicherebbe, come abbiamo detto sopra, una rinuncia a ogni escatologia.

Infatti, a prima vista, si potrebbe ben pensare il contrario, poiché Hegel sostiene – ad esempio, nell'esporre il concetto di Dio – una sorta di dipendenza costitutiva di quest'ultimo rispetto al finito. Una chiara espressione di questa posizione si trova nel seguente brano: «Il finito appare (...) come un momento essenziale dell'infinito e, se poniamo Dio come infinito, Egli non può, per essere Dio, fare senza il finito. Dio finitizza se stesso, si dà determinazione. Questo potrebbe in linea di principio essere contrario alla Divinità, ma questo è già presente nelle rappresentazioni ordinarie di Dio, poiché siamo abituati, ad esempio, a considerarlo come il creatore del mondo”.[Ix]

Inoltre, ponendo le cose in termini non più di rappresentazione, ma di registro strettamente speculativo, bisogna ammettere che la processualità dell'Idea va concepita come uno sviluppo concreto e positivo, per riprendere due aggettivi usati da Bourgeois.[X] Vale a dire, non ha senso dubitare che entrambi i file decisione dell’Idea di “lasciar uscire liberamente da sé il momento della sua particolarità (…), l’idea immediata come suo riflesso, come natura” (Enc., § 244)[Xi], per quanto riguarda l'abnegazione della natura - il suo bruciare come una fenice[Xii] – da cui esce lo spirito, sono processi reali.

Di più: quando l'autorevole commento di Bourgeois ci dice che: «per il cristianesimo la sequenza trinitaria è una discesa dal Padre per mezzo del Figlio nello Spirito», mentre per l'hegelismo è: «un'ascensione del Padre, per mezzo del Figlio , allo Spirito"[Xiii] sembra bene confermare la tesi che – come affermano i difensori dell'ortodossia cattolica, e qui, per essere precisi, l'arcibismo Ladaria – che lo sviluppo trinitario “sembra scaturire più dalla mancanza che dalla sovrabbondanza dell'essere divino”,[Xiv] ecco, come continua il nostro teologo contemporaneo – e, come abbiamo già visto nei testi sopra citati – secondo Hegel: “Dio non è senza il mondo, il Figlio non è senza l'Incarnazione, lo Spirito Santo non è senza la comunità cristiana ".[Xv]

Ora, se questa fosse l'ultima stazione, il capolinea nell'interpretazione e nella comprensione della posizione hegeliana, allora sarebbe costretto a concludere che l'affermazione che ho fatto sopra che Hegel avrebbe recuperato una visione immanente della trinità, essendo così cauto riguardo al aporie escatologiche, non sarebbe stata altro che un'ipotesi ardita e insolita, priva di fondamento filologico e di rilevanza ermeneutica.

Le cose però sono più complesse di quanto sembri e non credo sia il momento di arrendersi definitivamente. Infatti, nel citato § 247 dell'Enciclopedia, si legge quanto segue: “Il mondo è stato creato, è creato ora ed è stato creato eternamente; questo avviene sotto forma di conservazione del mondo. Creare è l'attività dell'Idea assoluta; l'idea di natura è, come l'idea in quanto tale, eterna. (….) Il finito è però temporale; ha un prima e un dopo; e quando hai davanti a te il finito, sei nel tempo. Il finito ha un inizio, ma non un assoluto. Il suo tempo inizia con lui e il tempo è solo del finito. La filosofia è una comprensione senza tempo anche del tempo e di tutte le cose in generale, secondo la loro eterna determinazione”.[Xvi]

Ebbene, se Hegel può anche dire della Natura che è eterna, allora è chiaro che può dire lo stesso dello Spirito ed è per questo che, all'altro capo di questo stesso libro II dell'Enciclopedia, subito dopo il passo in cui ci dice il filosofo dice che lo spirito viene dalla natura stessa, il testo aggiunge: “esso [lo spirito] è insieme prima e dopo la natura (...) non empiricamente, ma in quanto è sempre già contenuto in essa e la presuppone a se stesso. Ma la sua libertà infinita lo lascia libero e presenta l'operare dell'idea contro di esso come una necessità interiore in esso, così come un uomo libero nel mondo è sicuro che la sua azione è l'attività del mondo. (All., § 376, Addendum).[Xvii]

Di più: la stessa lezione della conclusione della conclusione dell'Enciclopedia, quella che ci viene data al culmine del sistema, quella che ci viene detta al paragrafo 577, è la piena conferma del punto, perché quello che Hegel chiama il sillogismo di l'idea di filosofia, consiste proprio nell'affermazione che se l'Idea è divisa, avendo le sue due apparenze nella natura e nello spirito, essa, nella conoscenza assoluta di sé, si intende come eterna e come eternamente attiva e generatrice di le sue apparenze e gode di questa conoscenza.[Xviii]

Se dunque, tornando al linguaggio della teologia convenzionale, ci domandiamo ora come va intesa la concezione speculativa della trinità, mi sembra che la risposta debba essere che essa supera effettivamente la distinzione tra comprensione immanente ed economica, poiché i fatti della creazione, incarnazione e rivelazione di Dio nel tempo si annullano per essere riassorbiti nel carattere eterno della divisione dell'Idea nelle sue apparenze e nella conoscenza eterna del suo ritorno a se stessa.

Gerard Lebrun, in uno dei tanti suoi passaggi Il concetto di pazienza, – a cui, per inciso, devo in parte la lezione che ho appena frettolosamente e goffamente riassunto – esprime illustrativamente quella che ritengo debba essere considerata la migliore lettura della tesi hegeliana dicendo:

“Ora, dire che Dio 'si rivela' è dire che l'essere-altro, il Finito non è fuori di Dio. (….) Indubbiamente, è difficile per il cristiano concepire ciò, in quanto attribuisce più importanza all'Incarnazione che al Golgota (….). Tuttavia, è nel momento in cui la differenza tra Dio e il mondo si rivela come una semplice differenziazione che il rivelazione culmina: l'alienazione nel finito fu solo un lampo, il tempo in cui il regno della Finitudine apparve come una figura che il divino innalza per poi dissolversi nella sua scia”.[Xix]

5.

Se, tornando alle preoccupazioni iniziali di queste note, alla tesi di Aganbem circa la precedenza genealogica delle categorie teologiche rispetto alle categorie politiche, ci chiediamo ora quali derivazioni seguano dalla comprensione speculativa della trinità per la strutturazione dei concetti politici; Se ci domandiamo, allora, come e in che termini la teologia speculativa del filosofo determina la politica hegeliana, la mia prima risposta sarà che essa rende impossibile ogni messianismo e ogni escatologia. La seconda sarà che, dal punto di vista hegeliano, i paradigmi che Agamben chiama economico-manageriale e politico-statale non possono essere considerati antinomici.

Per chiarire aforisticamente il primo di questi punti, potrei semplicemente dire che per Hegel, dal punto di vista delle strutture concettuali fondamentali dell'etica, la partita è sempre già giocata. Ciò significa che dal punto di vista speculativo le sue macro-divisioni – famiglia, società civile, Stato – sono eterne, ecco, tali istituzioni sono necessarie, sono le costanti che costituiscono i termini stessi del sillogismo etico.

Com'è noto, questa posizione esasperava Marx, la cui critica, tra l'altro, diceva: «L'Idea si erige a soggetto e il rapporto reale della famiglia e della società civile con lo Stato si presenta come opera dell'Idea e della sua immaginaria attività . La famiglia e la società civile sono i presupposti dello Stato; sono quindi gli unici elementi realmente attivi, ma nella speculazione tutto è capovolto”.[Xx]

Comunque sia, considerate le cose dal punto di vista hegeliano, non ha senso né ironia criticare la divisione della vita sociale globale in una vita terrena e una vita celeste, come si legge in La questione ebraica,[Xxi], né attesa né annuncio, né lotta, per nessuna società, concettualmente nuova. Il che vuol dire anche che l'assenza di escatologia rende il messianismo una passione sciocca e inutile, per usare la celebre espressione di Sartre.

Radicalizzando ancora di più il punto, si potrebbe dire che è il discorso stesso sulla fine della storia che è sempre stato mal posto, perché vale per esso lo stesso che dice Hegel a proposito dell'esigenza che si dia una risposta definitiva alla domanda che si pone domande se il mondo ha avuto un inizio nel tempo o no, cioè bisogna dire che è questo o o della domanda inutile (§ 247, p. 29). È perché, ci spiega, quando ci poniamo sul piano del finito, non arriviamo a nessuna fine e si può dire sia che abbiamo un inizio sia che non lo abbiamo. È vero, c'è una storia finita dell'infinito, una storia del ritorno dell'Idea a se stessa nel tempo, ma questa, in quanto è effettivamente la storia dell'infinito, e non la serie monotona degli eventi cronologicamente accumulati, è eterna, nonostante il fatto che può essere empiricamente dimenticato e ripetuto nel corso della storia finita, come quando, ad esempio, nei paesi del cosiddetto socialismo reale, si cercò di dissolvere la distinzione tra Stato e società civile.

Analogamente, per quanto riguarda la seconda questione, come ho cercato di mostrare nel mio studio sulla concezione hegeliana del patriottismo, i paradigmi economico-manageriale e politico-statale sono indissolubilmente associati, perché così come esiste una doppia figura del patriottismo – una delle ordinarie situazioni, un altro quelle di situazioni di eccezione – così si può anche dire che secondo le situazioni concrete in cui si trova contingentemente la vita etica, può prevalere l'una o l'altra delle figure del sillogismo etico.

A proposito, per concludere con un'allusione alla situazione che stiamo vivendo, si potrebbe dire che in tutto il mondo negli ultimi anni si è vissuto sotto il segno della formula puramente formale e superficiale del sillogismo etico – SPU –, la formula del il sillogismo dell'apparenza secondo il quale l'universalità sembrava derivare semplicemente dall'interazione degli individui mediata dalla particolarità del sistema dei bisogni, cioè nel linguaggio corrente, dalla dinamica immanente della globalizzazione.

Ora, però, la grande crisi che il mondo sta attraversando ha ristabilito la formula più fondamentale, la formula SUP, in cui il termine medio è l'universale, la cui potenza attesta l'idealità di ogni singolare e di ogni particolare –di ogni finito‑ esibendo- se al tempo stesso del suo fondamento e fine ultimo. Perché questo è ciò che realmente significa questa straordinaria elevazione dei governi, che dimostra ancora una volta che, eternamente, lo Stato è la verità ultima del sociale, l'istanza da cui, in ultima analisi, la totalità etica dipende per la sua stabilità e conformazione.

*Joao Carlos Brum Torres è un professore di filosofia in pensione presso l'UFRGS. È stato Segretario alla Pianificazione del governo del Rio Grande do Sul (1995-1998 e 2003-2006). Autore, tra gli altri libri, di Trascendentalismo e dialettica (L&PM).

Riferimento


Giorgio Agamben. Il regno e la gloria: una genealogia teologica dell'economia e del governo [Homo Sacer, II]. Traduzione: Selvino J. Assmann. San Paolo, Boitempo, 328 pagine.

note:


[I] V.Luis F.Ladaria, Il Dio vivente e vero: il mistero della Trinità, traduzione di Paulo de Gaspar Meneses, SJ, Edições Loyola, São Paulo, 2005, p. 157.

[Ii] apud Luis F. Ladaria, op. cit., pag. 37.

[Iii] Id., 38.

[Iv] Id., 45.

[V] V.Id., p. 45. Ciò che dal punto di vista tecnico della teologia porta confusione”tra teologia della Trinità e cristologia(Id., 48).

[Vi] apud Ladaria, op. cit., pag. 49.

[Vii] VGWF Hegel, Lezioni di filosofia della religione, I, opera qui citata secondo la traduzione spagnola di Arsenio Guinzo, intitolata  Il concetto di religione e pubblicato da Fondo di Cultura Economica, Messico, 1981, pag. 248.

[Viii] VVGWF Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche - In Compendio (1830), vol. II, § 247, Addendum; trans. di José Nogueira Machado, pubblicato da Edições Loyola, San Paolo, 1997, p. 26

[Ix] O concetto della religione, In. cit., pag. 190.

[X] V. Bernard Bougeois, presentazionein Encyclopédie des Sciences Philosophiques III - Philosophie de l'Esprit, Vrin, Parigi, 1988, pag. 83, nota 34, in definitiva.

[Xi] V. Enciclopedia delle scienze filosofiche - In compendio, I, ndr, cit., p. 370-1.

[Xii] V, id, II, § 376, Addendum, p. 536.

[Xiii] V.Bernard Bourgeois, Hegel, Gli atti dell'Esprit, Vrin, Parigi, 2001, pag. 231.

[Xiv] Vedi ob. cit., 47.

[Xv] ID Ib.

[Xvi] Ed., cit., pag. 28.

[Xvii] In. cit., 556,

[Xviii] Cfr. ed. cit., 364

[Xix] V. Gérard Lebrun, La pazienza del concetto, Gallimard, Parigi, 1972, pag. 137.

[Xx] V. Carlo Marx, Critica dello Stato hegeliano, nella traduzione francese di Kostas Papaioannou pubblicata da 10/18, Parigi, 1976, p. 59.

[Xxi] Dice Marx, in effetti: «Dove lo stato politico ha raggiunto il suo vero sviluppo, l'uomo – non solo nel pensiero, ma nella realtà, nella vita – conduce una doppia vita, una vita celeste e una vita terrena: una vita nella comunità politica , in quanto si considera un essere collettivo e vive nella società civile, nella quale agisce come un privato, considera gli altri uomini come mezzi, si degrada facendosi mezzo e convertendosi in un giocattolo di poteri a voi estranei”. In: K. Marx, Opere, III: Philosophie, Parigi, Bibliothèque de la Pléiade, 1982, p.356.

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