da LUIZ RENATO MARTIN*
il lavoro di Argan come storico materialista e pensatore dialettico dell'esperienza artistica
una divisione
La storia dell'arte consiste in un campo di virtuosismo, di beni rari e preziosi o, al contrario, in un'indagine sui modi storici di produzione del valore? E, se questa ipotesi prevale, allora, ugualmente, in un’economia critica e, quindi, in una riflessione sul lavoro – come fonte di valore – e, correlativamente, sulla città, sulla politica e sulla storia?
Tale disgiuntivo fu posto da Giulio Carlo Argan (1909-92) proprio all'inizio della “Storia dell'Arte (La storia dell'arte)” (1969),[I] un saggio eminentemente teorico in cui passa in rassegna criticamente le principali correnti della storiografia artistica e che dedica a due illustri studiosi, Lionello Venturi (1885-1961) ed Erwin Panofski (1892-1968) – due spiriti dell'Illuminismo nella disciplina –, per cui era venerato, anche se la sua opera aveva dei limiti che non mancò di sottolineare.
Questa distinzione – riassunta nel disgiuntivo iniziale – ha guidato tutta l'opera di Argan come storico materialista e pensatore dialettico dell'esperienza dell'arte; cioè di quest'ultimo non come mera espressione di pathos, ma come modalità storico-filosofica di giudizio e di totalizzazione. Una modalità riflessiva, quindi, in costante dialogo critico con le altre modalità di attività, e quindi, altrettanto, una pratica capace di delineare progetti per il futuro.
Partirò qui da questa distinzione, valida ancora oggi come spartiacque generale nel campo della ricerca sull'arte e sull'architettura – questo, un altro campo in cui il lavoro di Argan si è sviluppato in modo correlativo e sistematico. Un campo la cui natura, è bene sottolinearlo, è intrinsecamente eterogenea – combinando questioni storiche, urbane, estetiche e politiche – ha contribuito in modo decisivo a porre la riflessione di Argan sull'arte in dialettica permanente con le questioni della città.
In questo senso, ritenendo che le opere d’arte modernamente partecipano al generale processo di circolazione e sono quindi subordinate alle procedure e alle pratiche inerenti alla rappresentazione del valore, Argan ha proposto una distinzione riguardo al modo di trattare l’arte: ci si può occupare della valore, ad esempio ordinandolo, qualificandolo, ecc. – oppure ci si può interrogare e riflettere sul valore, interrogandosi sulla sua condizione storica, sulla sua costituzione, sulla sua fisiologia, ecc.
Sulla base di questa distinzione è possibile dividere le linee della storiografia artistica in due grandi raggruppamenti di correnti, a seconda dei focus di interesse e degli orizzonti adottati. Una corrente ampia, oltre ad essere radicata nella tradizione e dotata di grande potere istituzionale, mira alla forma esterna, e già cristallizzata, del valore a posteriori; cioè l'oggetto d'arte già considerato come tale; quindi, assunti come intrinsecamente distinti dagli altri oggetti posti come utensili, quindi privi di valore intrinseco e soggetti a diverse finalità circostanziali.
Questa distinzione tra utensile e opera d'arte, cioè tra oggetti comuni e altri, dotati di valore in sé, deriva in termini di orizzonte storico da quello che un tempo distingueva la sfera religiosa dalle altre nella tradizione occidentale. Fondata sul partito che è indifferente alle condizioni della costituzione del valore – e da allora considera la natura dell'arte come data –, questa storia dell'arte cerca solo di identificare e classificare il valore dell'oggetto analizzato. Stabilisce inoltre le condizioni generali di ricezione estetica, conservazione e circolazione dell'oggetto, coerenti con il valore di riferimento. Su questi fondamenti poggiano le diverse forme di formalismo nella storia e nella critica dell’arte.
Nella seconda modalità o regime di trattazione dell’arte – adottata da Argan – l’arte è considerata tra gli altri processi storici di produzione di valore. Così, se la teoria economica classica per prima adottò il lavoro come sostanza di valore e questa proposizione fu ripresa in altra chiave da Hegel (1770-1831) e anche da Marx (1818-83), a sua volta Argan interpretò l’arte in modo diverso. tra le altre forme di produzione di valore e, secondo questa prospettiva, come un modo paradigmatico di lavorare. Argan ha così potuto “coniugare la questione artistica con indagini legate alle dinamiche della produzione e dell'economia, senza rischio di riduzionismo”.[Ii]
Quando l'arte si trova inserita nell'ampiezza di un simile campo storico, è sempre indispensabile avvicinarsi ad esso, per confrontarsi con la variazione delle forme sociali e dei modi di lavorare. Allo stesso modo, è condizione necessaria per la sua intelligibilità stabilire un parallelo con i regimi di appropriazione e accumulazione di ricchezza che costituiscono tali formazioni sociali e che concretamente collocano in esse l'arte come una specifica formazione storica.
Regimi di lavoro
Tra i problemi inerenti a tale prospettiva vi sono le strutture produttive, cioè specifiche formazioni storiche dotate di un certo potere di modellare o influenzare la condotta. È necessario considerarli tanto quanto la loro negazione, cioè le transizioni cruciali di regimi simbolici che mostrano trasformazioni o rotture nelle strutture produttive e che si verificano talvolta nel corso di una generazione, incidendo radicalmente una traiettoria autoriale. Si pensi, ad esempio, al caso paradigmatico di Jacques-Louis David (1748-1825), successivamente pittore dell’Accademia reale, artista della Rivoluzione, divenuto poi autore tra gli altri nel periodo termidoreano, e più tardi, uomo chiave e artista paradigmatico nel consolato e al culmine del bonapartismo, per diventare infine artista in esilio. Di fronte a tali cambiamenti, che hanno alterato in modo decisivo la funzione dell’arte insieme ai regimi politici, come possiamo collocare David secondo un unico regime autoriale o condizione simbolica, come pittore? In breve, le formazioni storiche e le funzioni autoriali ad esse inerenti agiscono come fattori nella composizione di un complesso di molteplici determinazioni, da cui verrà estratta una sintesi specifica sotto forma di pratica artistica o oggetto d'arte in questione.
Così, per quanto riguarda l'antichità greca, è possibile delimitare dal periodo artistico cosiddetto “arcaico”, che precede quello “classico”, un primo campo di riferimento in cui statue, ceramiche, mosaici ed edifici erano generalmente realizzati da schiavi o artigiani in regime di servitù. È importante tenere presente che tale periodizzazione riguardo allo statuto del lavoro non si applica indiscriminatamente alle altre arti in cui la questione dello sforzo fisico non contava (vedi la parola arti), contrariamente a quanto accadeva nelle arti visive e architettoniche . La distinzione tra le arti in termini di sforzo fisico richiesto può passare inosservata oggi, ma certamente aveva importanza se si considerava la schiavitù o la servitù – e il lavoro non era visto come una fonte di valore o non lo veniva affatto.[Iii]
Questa considerazione non elimina assolutamente le altre questioni storiche di forma, di tecnica o di proprietà dei materiali: queste persistono e richiedono evidentemente un'indagine su un altro piano, tanto quanto le questioni tettoniche o costruttive, ad esempio per il sostegno di una piramide, o per la sua costruzione mediante il braccio dello schiavo, sia attraverso il lavoro gratuito che con qualsiasi altro. Tuttavia, la produzione di oggetti visivi associati alla coercizione inscrive questioni legate al nesso interno della forma artistica e al valore sociale dell’oggetto in un campo storico molto diverso dal nostro – in cui i criteri di libertà e autonomia sono diventati cruciali riferimenti per gli oggetti d'arte moderna, secondo l'opposizione proposta da Kant (1724-1804) tra arte come “produzione per la libertà” e “artigianato” – in cui quest’ultimo viene successivamente qualificato come produzione “pagata”, “sgradevole” e suscettibile di “essere imposta coattivamente”.[Iv]
Una volta stabilito questo criterio relativo ai regimi di lavoro e di valore, si può dire che il suddetto campo storico si estende in qualche modo a tutta l'antichità, prima e dopo il periodo classico in Grecia, così come all'arte imperiale romana, e penetra ampi estratti di l’era cristiana preborghese dominata dal feudalesimo.
Su queste basi si può delimitare un secondo campo. In esso veniva affidata la pratica delle arti visive – per contratto, altre forme di ordinazione o acquisizione - al lavoratore libero salariato o similmente retribuito, prima legato alle corporazioni, poi assoggettato alle accademie diffuse nel corso del capitalismo mercantilista. Tale artigiano godeva di un altro tipo di inserimento sociale. Era parte di un processo già governato dall'espansione economica e nel mezzo di tale sviluppo sarebbe stato riconosciuto secondo specificità che obbedivano a criteri simili a quelli di un professionista liberale. Essendo un abile artigiano con una certa padronanza teorica della sua materia e godendo di una posizione alquanto invidiabile in termini di divisione sociale del lavoro, un tale maestro artigiano aveva spesso altri lavoratori sotto il suo comando. Godeva talvolta anche (a partire dall'arte gotica della fine del periodo cosiddetto medievale) del potere di individuazione della propria produzione, che gli concedeva certe licenze discorsive e la prerogativa di firmare l'opera.
Sebbene la storia dell’arte a partire dal trattato di Giorgio Vasari (1511-74), Le Vite de' più Eccellenti Architetti, Pittori, et Scultori Italiani (1550/1558) - che può essere considerata la prima indagine di autori, dotata di una certa ambizione sistemica –, sia essa ricca di peculiarità, e le distinzioni qui proposte siano da intendersi come meri prismi o parametri normativi, si può affermare che il processo di riconoscimento del personaggio La liberalizzazione delle pratiche visive è stata progressivamente elaborata in Europa a partire dall'espansione delle città medievali a partire dai secoli XII e XIII (a seconda delle regioni) e ha raggiunto un certo limite paradigmatico negli ultimi decenni del XVIII secolo in forme assolutiste Francia. In quest'ultimo, l'artista professionista poteva aspirare, secondo la tradizione e la legge consolidate, alla carica di "pittore del re", accumulando funzioni e responsabilità come ordinare ai suoi pari edifici ufficiali ed esercitando anche funzioni pedagogiche e normative come l'Accademia membro. Tuttavia, se il “pittore del re” vantava privilegi, tra cui quello di allestire il suo studio nel palazzo del Louvre, non godeva tuttavia di “autonomia”.
Infatti, per i criteri moderni storicamente e socialmente affermati con la Rivoluzione francese,[V] l'artista di Antico Regime non conosceva la libertà di giudizio. Regnava una certa libertà e venivano tollerate eccezioni per quanto riguarda i generi pittorici considerati “minori”. Così avveniva nel caso delle scene consuete o nei calchi delle nature morte o anche nel caso degli autoritratti, casi in cui il pittore aveva una certa licenza e i mezzi necessari per agire da solo e spesso per negoziare con acquirenti privati. Al contrario, quando si trattò di esercitare la sua arte nel genere più ampio, cioè in quello cosiddetto “storico” che interessava direttamente la Corona ed era generalmente destinato a palazzi e chiese, l'artista rimaneva privato di ogni potere effettivo su i mezzi, il contenuto e lo scopo del tuo lavoro.
Quindi, a titolo di paragone e di esempio – e commettendo certamente un anacronismo – si può dire di questo professionista del tribunale, con molti benefici legati alla carica, che era privo di potere decisionale proprio quanto un alto dirigente di una multinazionale dei nostri giorni, che detiene molteplici privilegi legati alle sue funzioni, ma è soggetta a dettami di ordini diversi che li superano e ne spogliano la posizione, nonostante i benefici materiali, la dignità della libertà e l'autonomia di giudizio, attribuiti in linea di principio ad un liberale professione. Marat, tra l'altro, chiamava tali artisti “lavoratori del lusso” (aperture deluxe) e li ha allineati con i “finanziatori” (usurai).[Vi]
arte come liberismo
Un terzo ambito di problemi riguardanti il modo di lavorare era costituito dalla produzione artistica fondata sulla libertà e poi elaborata come pratica riflessiva secondo i valori dell’autonomia. Qui il lavoro di produzione di oggetti visivi era associato, da un lato, a valori vicini o simili a quelli caratteristici della pratica filosofica, che, superando la sudditanza alla Chiesa cristiana, si era ripresa nel periodo immediatamente precedente la Rivoluzione francese, il privilegio della libertà come distinzione dalla servitù, seguendo l'esempio della tradizione delineata in polizia classico.
Che la pittura e l'arte diventino filosofia era dunque ciò che intendeva e proclamava il pittore giacobino Jacques-Louis David durante il breve interregno (1792-4) durante il quale durò la repubblica rivoluzionaria francese, prima del regime termidoriano.[Vii] E analogamente che l'arte è stata fatta per la libertà e per il piacere- al contrario dell'artigianato, per soldi -, cioè che l'arte debba essere disinteressata, pubblica e autonoma era ciò che proponeva Kant Critica del giudizio pubblicato contemporaneamente alla Rivoluzione francese.[Viii]
Tuttavia, nel campo dell’autonomia politica, nel senso liberale emerso all’incirca in un periodo coevo alla libertà d’impresa e al “lavoro libero” o salariato, va considerato che la habitat dell’arte correlata, se comprendeva il principio di autonomia, comprendeva anche nuove forme complesse, e ormai ambigue, di costrizione. In questo modo, ad esempio, lo stesso David - dopo essere stato, fino al colpo di stato del Termidoro del 9-10 (27-28.07.1794), l'artista emblematico della Rivoluzione, membro della fazione dirigente della Convenzione e che ricevette ordini direttamente da essa - si distinse inoltre (dopo essere uscito dal carcere termidoriano e riconquistata la libertà nel 1795) per aver aperto il suo studio - ora privato - alla visita addebitando i biglietti d'ingresso.[Ix]
Sia Kant che David erano tipicamente uomini dell'Illuminismo che cercavano di formulare nuovi parametri per il campo delle arti; Come in altri campi – allora in fase di ristrutturazione accelerata –, anche per le arti altri criteri e finalità si erano imposti già dopo la fine del Antico Regime. Così, a metà del secolo successivo, Delacroix (1798-1863) prima e Baudelaire (1821-67) poi cominciarono a fare riferimento all'"arte moderna". Il primo, in modo prosaico e attuale, nel suo News, scritto in quarant'anni, a partire dal 1822; mentre il secondo, già in qualità di critico e primo pensatore del nuovo fenomeno, che fa Marat (1793), di David, prima pietra miliare dell’“arte moderna”.[X]
Autonomia?
Uno degli elementi ideologici distintivi dell'“arte moderna” è l'aperta opposizione a certe forme di tutela e alienazione nel campo delle arti. Ma nella realtà empirica, che spesso è in contraddizione con l'opposizione di cui sopra, la situazione complessa e ambigua dell'artista è ben diversa e lo porta a dispiegarsi in un mercante di se stesso e delle sue opere. Infine, la necessità di affrontare questa nuova contraddizione – percepita con la forza di un impatto acuto, nonché come riflesso insito nella sua nuova condizione generale – ha costituito, come preoccupazione inscindibile della produzione e della circolazione delle arti, una scoperta drammatica che ha attraversato la generazione di autori della prima metà dell'Ottocento - si vedano ad esempio le opere di Daumier (1808-79) e Courbet (1819-77), tra gli altri. Tali, insomma, erano i dilemmi quotidiani e costanti degli autori del romanticismo e del primo realismo moderno.
In questa nuova luce, Kant, l'arte in linea di principio cominciò ad essere fatta per la libertà dixit.[Xi] L'artista ottenne così i suoi mezzi di produzione, liberandosi dalla tutela della Corona e della Chiesa. In modo analogo si appropria anche dei modi di operare e delle forme da lui prodotte. Divenne, quindi, il primo responsabile e diretto proprietario dei frutti del suo lavoro, che, come altri artigiani e piccoli commercianti, iniziò a presentare direttamente al giudizio pubblico e ai compratori. - ricordiamo il caso emblematico di David nell'intraprendere l'esposizione commerciale delle sue opere, una volta terminato il periodo rivoluzionario della Prima Repubblica francese.
In tal modo, autenticità autoriale e sovranità poetica, in quanto valori etici ed estetici, vennero a costituire i fondamenti nominali dichiarati di un nuovo contratto artistico-sociale basato sulla competizione, che spesso richiedeva innovazioni, e alla luce del quale il rispetto dei generi e delle le accademie vennero viste come un elemento caratteristico dell'arte sorpassata del Antico Regime. Tuttavia, e anche in questi termini, veniva posta la dipendenza – spesso decisiva sul piano empirico – dell’arte dal denaro.
Negatività opposta e complementare
Allo stesso tempo, quindi, non dovrebbe sfuggirci il fatto che, in generale e in termini di forme generali di lavoro e di produzione, è avvenuto esattamente il contrario – contrario alle esigenze artistiche di autonomia e autenticità autoriale – e alla premessa delle pratiche artistiche come mestiere liberale. Ecco perché si è posto un nuovo problema riguardante il ruolo simbolico dell'arte.
In tale scenario, in uno dei poli della complessa dualità che istituiva il nuovo problema, contadini, artigiani e mastri artigiani, così come piccoli e medi commercianti, persero i propri mezzi di lavoro e di produzione e, di conseguenza , ogni potere o autonomia produttiva. L’unica possibilità lasciata alla legione di produttori indipendenti un tempo espropriati, come gli ex miserabili, era il regime del lavoro alienato: cioè il modo in cui possono variare i salari, ma mai il grado di libertà rispetto alla configurazione e alla configurazione. Destino Fine del lavoro, la cui determinazione spetta ormai esclusivamente al datore di lavoro e proprietario del capitale o del potere d'acquisto della forza lavoro altrui. Così, in buona parte nel corso dell’Ottocento e gran parte del Novecento, nel periodo in cui prevaleva il regime produttivo-simbolico dell’“arte moderna”, i percorsi del lavoro, nel campo delle arti, e della produzione erano separati.in generale.
Quindi, nei termini della dualità sopra descritta, il lavoratore che ormai aveva solo la sua forza lavoro da vendere cominciò a essere classificato come “libero”, in uno dei poli – “libero”, ovviamente, in contrapposizione alla regolamentazione legata alla corporazioni di mestieri, ma dette anche “libere” in contrapposizione alla schiavitù che costituì la forma di lavoro dominante nelle ex colonie fino alla fine del XIX secolo. Infine, “libero”, nominalmente, ma privato di ogni mezzo di produzione, alienato da ogni forma del prodotto del suo lavoro e , in questi termini, dal punto di vista della sua reale condizione, un doppio dello schiavo – poiché rimaneva estraneo anche dal suo metabolismo.
All’altro polo, invece, il lavoro nel campo dell’“arte moderna” – da cui si ipotizzerà che goda di autonomia secondo la più ambiziosa delle ipotesi critiche, quella di Critica del giudizio, di Kant – divenne il paradigma simbolico del lavoro emancipato (sostenuto dal principio di “libertà”, nella definizione storica di Kant, sopra menzionata). Un paradigma ora della “liberazione del lavoro stesso dalle sue negatività sociali (liberazione delle risorse lavorative dalla loro negatività sociale)",[Xii] Nelle parole di Argan, l’arte finì per essere utilizzata, da un certo punto di vista etico e cognitivo, come un orizzonte utopico o una promessa per il resto dell’umanità – che si vedeva interdetta ad ogni diritto all’autodeterminazione nel lavoro e, di conseguenza, si vedeva anche esclusi dal diritto di coscienza, il cui sviluppo è legato al corretto esercizio del lavoro.
In sintesi, la condizione contraddittoria dell’“arte moderna” – fondata sulla proposizione fondamentale della libertà e sul confronto permanente con il lavoro prigioniero sotto forma di merce – è sempre stata permeata da tale ambivalenza. Si situava cioè invariabilmente nella condizione oscillante tra l’aperta opposizione e la distinzione derivativa e complementare, insomma tale contrappunto, di fronte al sistema che governa su scala generale il lavoro, la produzione e l’appropriazione della ricchezza. .
Argan e “l’arte moderna”
Proiettando il discorso su un altro piano, riguardante questa volta la grande varietà di tecniche e forme artistiche tra antichità ed età moderna, si nota il verificarsi di rotture e salti, ma anche di segni di sussistenza strutturale di lungo periodo (senza ignorare, ovviamente , che riguardo ai vari e diversi regimi di lavoro nell'era moderna è sempre necessario dettagliare e adeguare).
Bisogna tenere presente la specificità data dalla complessità e varietà delle situazioni dell'epoca moderna. Così, se nell’ambito dello statuto del lavoro, come abbiamo visto, è possibile osservare un progresso che culmina nella libertà propria dell’“arte moderna”, d’altro canto, nel campo delle tecniche e delle forme, la non hanno luogo distinzioni legate al giudizio di progresso. È ovvio che, nell'universo delle pratiche artistiche, non esistono tecniche, materiali, procedimenti e forme che siano superiori ad altre. Questo è uno dei pregiudizi che esistevano nei covi (palazzi, chiese e accademie) dei, per così dire, Antico Regime dell’arte, ma che il passaggio al nuovo regime dell’“arte moderna” ha spazzato via. Affrontare le questioni artistiche deve coprire questi diversi livelli perché in tutti esistono processi di creazione di valore che richiedono analisi specifiche; È altrettanto necessario dare un giudizio storico che metta un modo di valore in contraddizione con un altro, all’interno della stessa opera, un’opera di fronte all’altra, ecc.
Finora abbiamo praticamente elencato solo i problemi. Ma come andare oltre i giudizi descrittivi e distintivi verso una nuova sintesi? Vale a dire, nel campo in esame – cioè la storia dell’arte come indagine sui modi di valore –, come specificare il metodo di indagine proposto da Argan in relazione alla storia del lavoro?
In primo luogo, come visto all'inizio, il suo partito o principio filosofico è quello di concepire concettualmente l'arte come una pratica produttiva o un modo di lavorare. In quanto tale, secondo una prospettiva chiaramente hegeliana e marxista – quella che fa dell’esperienza del lavoro una condizione indispensabile del modo della coscienza –, l’arte sarà anche un modo della coscienza o pratica riflessiva in quanto, chiarendosi come tale, arriva a concepirsi come lavoro.
Ciò comporta due ordini di conseguenze che richiedono attenzione. La prima è che, per stabilire il valore di una data forma artistica, è essenziale situarla nel mezzo delle forme di lavoro e di produzione esistenti, cioè confrontarla con altre forme sociali oggettive nella formazione sociale storica. a cui appartiene. Un esempio: quando si studia l'intaglio o l'architettura barocca nell'America portoghese, è necessario non solo distinguerne le specificità, ma delimitare la loro novità rispetto alla tradizione e al contesto artistico, in questo caso, insieme agli stili barocco e contemporaneo in Europa e nelle colonie, ma è necessario fare un paragone anche con il modo di lavorare degli schiavi nelle officine, come con altri metodi di artigianato e di fabbricazione.
Seconda conseguenza da sottolineare: il punto di vista dell'“arte moderna” è quello scelto da Argan, tra i riferimenti artistici, per analizzare la vastità oceanica della storia dell'arte. Cioè Argan, che nella sua interpretazione di Manet (1832-83) applica il famoso motto di Diderot (1713-84) – “bisogna essere del proprio tempo [non è l'ultima volta]") [Xiii] – osserva, in linea di principio, la stessa direttiva. L'“arte moderna” è allora considerata come “la sua causa”, come la matrice delle idee presenti nelle sue enunciazioni, come i ritmi melodici di una lingua madre.
Svolgere un lavoro critico-riflessivo sulla base dell’esperienza formativa fornita dall’“arte moderna” è ciò che dà allo storico l’ardore unico della riflessione impegnata; vale a dire, il calore del giudizio riflessivo quando si procede nell'analisi delle forme artistiche del passato, che si traduce nella forza di un'osservazione a lungo raggio, ma ravvicinata e attenta al dettaglio. Insomma, Argan osserva e parla in prima persona senza smettere di riflettere, come tale è la formazione che “l'arte moderna” gli ha instillato.
Vale però la pena insistere sul fatto che il fatto che Argan adotti il punto di vista dell’“arte moderna” non è né un semplice caso di gusto né una questione contingente. Il partito dell’“arte moderna” è inseparabile dalla sua scelta filosofica. Concependo cioè l’arte come lavoro e quest’ultima, sulla scia di Hegel e Marx, come condizione fondamentale della coscienza, Argan aveva che dare priorità all’esperienza dell’“arte moderna” perché solo questa, tra le altre forme d’arte, si propone esclusivamente come lavoro - nel senso sovrano o emancipato -, concepindosi così secondo le sue posizioni più consapevoli e consequenziali.
Ancor più perché, nella concezione adottata, l'esperienza del continuo lavoro di emancipazione, secondo le condizioni cognitive proprie della libera determinazione, è di per sé oggettivazione e progetto – cioè riflessione sul passato, determinazione del presente e intenzione proiettata per il futuro – insomma, giudizio storico concretizzato in azione produttiva nel presente; È per questo, insomma, che la storia dell'arte è divenuta possibile in senso effettivo. Possibile, cioè, non come storia encomiastica di personalità o di grandi opere – cosa che esisteva già a partire dal trattato di Vasari –, ma possibile ed efficace come scienza umana, come critica dei valori e come autonoma indagine razionale sulla storia dei contesti culturali e loro dinamiche artistiche.
In sintesi, nella piattaforma critico-materialista proposta da Argan – nella quale si istituiva la condizione di possibilità della storia critica dell’arte, attraverso l’opera di sintesi propria dell’“arte moderna” –, arte e storia dell’arte convergono e si intrecciano inscindibilmente. . L'idea normativa comune è il giudizio critico che è giudizio storico per eccellenza, o, per usare le parole di Argan, tornando ora in Arte e critica d'arte, affermazione già fatta nella sua “Storia dell’Arte”, “l’abilità artistica dell’opera non è altro che la sua storicità [l'artiscità dell'opera non è altra cosa dalla sua storicità] ”.[Xiv]
* Luiz Renato Martins è professore-consulente di PPG in Visual Arts (ECA-USP). Autore, tra gli altri libri, di Il complotto dell'arte moderna (Chicago, Haymamercato/ HMBS) (https://amzn.to/44t8LXq).
** Estratto dalla prima parte della versione originale (in portoghese) del cap. 12, “Seminario Argan: arte, valore e lavoro”, dal libro La Conspiration de l'Art Moderne et Other Essais, edizione e introduzione di François Albera, traduzione di Baptiste Grasset, Parigi, edizioni Amsterdam (2024, primo semestre, proc. FAPESP 18/26469-9).
note:
[I] GC ARGAN; Storia dell'arte come storia della città, trad. PL Capra, San Paolo, Martins Fontes, 1992, pp. 13-4 (https://amzn.to/3ORfqVF); Storia dell'Arte come Storia della Città, la cura di Bruno Contardi, Roma, Riuniti, 1984, p. 19 (https://amzn.to/3qPASm1).
[Ii] Rodrigo NAVES, “Prefazione”, in GC ARGAN, Arte Moderna / Dall'Illuminismo ai movimenti contemporanei, pref. R. Navate, trad. Denise Bottmann e Federico Carotti, San Paolo, Companhia das Letras, 1993, p. XIX (https://amzn.to/3qMIAgI).
[Iii] Sulla distinzione, fondamentale nell'antica Grecia, tra l'uomo che aghia e colui che manufatto, e la connessa mancanza di un termine corrispondente a “lavoro”, cfr. Jean-Pierre VERNANT, “Work and Nature in Ancient Greece” e “Psychological Aspects of Work in Ancient Greece”, in Mito e pensiero tra i Greci, trad. Haiganuch Sarian, San Paolo, Paz e Terra, 2002, pp. 325-48, 349-56 (https://amzn.to/3swDYMo); « Lavoro e natura nella Grecia antica » e « Aspetti psicologici del lavoro nella Grecia antica », in Mythe et Pensée chez les Grecs, Parigi, La Decouverte, 1988, pp. 274-294, 295-301 (https://amzn.to/3PdUbyR).
[Iv] Vedi Immanuel KANT, “Of Art in General” (paragrafo 43 del Critica del giudizio), In Kant (II)/ Testi scelti, selezione di testi di Marilena Chauí, trad. Rubens Rodrigues Torres Filho, San Paolo, Os Pensadores/ Abril Cultural, 1980, pp. 243-4; Emmanuel KANT, “#43.
[V] La Rivoluzione, dopo aver decretato nel 1791 la fine del controllo della Reale Accademia di Pittura e Scultura sul Salon, aprendolo ad artisti nazionali e stranieri, nell'agosto 1793 abolì definitivamente e nei diversi ambiti tutte le accademie - “ultimo rifugio di tutte le aristocrazie [l'ultimo rifugio di tutte le aristocrazie]”, nelle parole del pittore David, anche lui leader giacobino. Cfr. Régis MICHEL, “L'Art des Salons”, in Philippe BORDES e R. MICHEL et al., Aux Armes e Aux Arts! / Le arti della rivoluzione 1789-1799, Parigi, Adam Biro, 1988, p. 40 (https://amzn.to/3PdOdxV).
[Vi] “Bastava agli artisti, ai lavoratori del lusso, ai mercanti, agli usurai vedere diminuire i loro guadagni con la rivoluzione, lamentarsi del regno dei cortigiani, dei succhiasangue pubblici (...) e sospirare per il ristabilimento della schiavitù, che faceva intravedere i loro vantaggi personali nella restituzione degli oppressori del popolo, degli sperperatori del pubblico tesoro (...) [Les artistes, les ouvriers de luxe, les dealers, les agioteurs n´eurent pas plutôt vu i loro guadagni diminuiscono par la révolution, qu´ils awarerèrent le règne des courtisans, des sangsues publiques (…) et qu´ils soupirèrent après le rétablissement de l´esclavage, qui leur faisait entrevoir leurs avantages personalis dans le retour des oppresseurs du peuple, des dilapidateurs du trésor public…]». Vedi J.-P. Marat in L'Ami du Peuple, NO. 669, 09.7.1792/XNUMX/XNUMX (https://amzn.to/45xtCuo), in Michel VOVELLE (a cura di), Marat: Textes Choisis, Parigi, Éditions Sociales, 1975, p. 219 (https://amzn.to/3sztbRm).
[Vii] Così, ad esempio, David affermava nel momento in cui, in qualità di membro del Comitato della Pubblica Istruzione, presentò alla Convenzione la proposta di una giuria nazionale delle arti: “Cittadini… il vostro Comitato [della Pubblica Istruzione] ha considerato il arti in tutti i rapporti in cui debbano contribuire all'espansione del progresso dello spirito umano, alla propagazione e alla trasmissione ai posteri di insigni esempi degli sforzi sublimi di un immenso popolo, guidato dalla ragione e dalla filosofia, che porta sulla terra il regno di libertà, uguaglianza e leggi./ Le arti devono dunque contribuire potentemente all'istruzione pubblica, ma rigenerandosi: il genio delle arti deve essere degno del popolo che illumina; deve sempre camminare accompagnato dalla filosofia, la quale non gli consiglierà quali grandi ed utili idee.../ Per troppo tempo i tiranni, che temono anche le immagini della virtù, avevano, incatenando anche il pensiero, incoraggiato la licenza della morale; le arti allora non servivano che a soddisfare l'orgoglio e il capriccio di pochi sibariti ripieni d'oro; e corporazioni dispotiche circoscrivevano il genio nel cerchio ristretto dei loro pensieri (...)./ Le arti sono l'imitazione della natura nella sua forma più bella e più perfetta; un sentimento naturale dell'uomo lo proietta verso lo stesso oggetto./ Non è solo incantando gli occhi che i monumenti artistici raggiungano il loro obiettivo, è penetrare nell'anima, è lasciare un'impressione profonda nello spirito, simile alla realtà; è allora che i tratti dell'eroismo, delle virtù civiche, offerti agli occhi del popolo, elettrizzeranno il suo animo e gli faranno germogliare tutte le passioni per la gloria, la devozione per la salvezza della patria. È quindi necessario che l'artista abbia studiato tutti gli impulsi del genere umano; deve avere una grande conoscenza della natura; è necessario, in una parola, che sia filosofo. Socrate, abile scultore; J.-J. Rousseau, buon musicista; l'immortale Poussin, tracciando su tela le lezioni più sublimi della filosofia, sono tutti testimoni, i quali provano che il genio delle arti non deve avere altra guida che la fiamma della ragione [Citoyens (...) votre Comité a considéré les arts, sous tous les rapports, qui doivent les faire contribuer à étendre les progrès de l'esprit humain, à propager, et à transmettre à la posterité l'exemple frappant des sublimi sforzi d'un popolo immenso, guidé par la raison et la philosophie, ramenant sur la terre le règne de la liberté, de l´égalité et des lois./ Les arts doivent donc puissament contribuer à l'instruction publique; mais c'est en se régénérant: le génie des arts doit être digne du peuple qu'il éclaire; il doit toujours marcher accompagné de la philosophie, qui ne lui conseillera que des idées grande et utiles./ Trop longtemps les tyrans, qui redoutent jusqu'aux images des vertus, avaient, en enchaînant jusqu'à la pensée, incoraggia la licenza dei moeurs ; les arts ne servaient plus qu'à satisfaire l'orgueil et le caprice de quelques sybarites gorgés d'or; et des corporations dispotiques, circonscrivant le génie dans le cercle étroit de leurs pensées (…)/ Les arts sont l'imitation de la nature dans ce qu'elle a de plus beau, dans ce qu'elle a de plus parfait ; un sentiment naturel à l'homme l'attire vers le même objet./ Ce n'est pas seulement en charmant gli yeux que les monumenti des arts ont atteint le but, c'est en pénétrant l'âme, c'est en faisant sur l'esprit une impression profonde, semblable à la realté: c'est alors que les features d'heroïsme, de vertus civiques, offerts aux awares du peuple, électriseront son âme, et feront germer en lui toutes les passions de la gloire, de dévouement pour le salut de la patrie. Faut quindi che l'artista ha studiato tutte le risorse del genere umano; il faut qu'il ait une grande connaissance de la nature; il faut en un mot qu'il soit philosophe. Socrate, abile scultore; Jean-Jacques, buon musicista; l'immortel Poussin, tracent sur la toile les plus sublime leçons de philosophie, sont autant des témoins, qui prouvent que le génie des arts ne doit avoir d'autre guide que le flambeau de la raison (…)]”. A conclusione di questo discorso, David propose una lista composta da studiosi, artisti di ogni genere e magistrati per formare la giuria nazionale delle arti. Vedi JL DAVID, apud Marie-Catherine Sahut, « Témoignages et Documents », in M.-C. Sahut e R. MICHEL, David/ L'Art et le Politique, Parigi, Gallimard-NMR, 1989, pp. 159-60; Il discorso di David, estratto dagli archivi parlamentari, è citato anche da Daniel et Guy WILDENSTEIN, Documents Complémentaires au Catalogs de l'Oeuvre di Louis David, in «Capitre II – 1789-1797, David et la Révolution», Parigi, Fondation Wildenstein, 1973, p. 71; per lo stesso discorso vedi anche EJ DELÉCLUZE, Louis David figlio École & figlio Temps/ Souvernirs par EJ DELÉCLUZE (Parigi, Didier, 1855), prefazione e note di Jean-Pierre Mouilleseaux, Parigi, Macula, 1983, pp. 158-59.
[Viii] La prima edizione ebbe luogo nel 1790 durante l'Assemblea Costituente; la seconda nel 1793, anno II della Repubblica.
[Ix] Vedi LR MARTINS, “Traces of Voluptuousness” in questo volume; versione precedente pubblicata in idem, Rivoluzioni: poesia dell'incompiuto, 1789-1848, vol. I, San Paolo, Ideeas Baratas/ Sundermann, 2014, pp. 116-8.
[X] Vedi Charles BAUDELAIRE, «Le Musée classique du Bazar Bonne-Nouvelle», O.C., vol. II, pag. 408-410. pubblicato in Il Corsaro-Satana (21.091.1846), data del 53.o anniversario dell'esecuzione di Luigi XVI (https://amzn.to/3Z8dz3P).
[Xi] Vedi I. KANT, on. cit., P. 243.
[Xii] Cfr. GC ARGAN, “Ancora sulla storia dell'arte nelle scuole”, in Occasioni di critica, La cura di Bruno Contardi, Roma, Riuniti, 1981, p. 139.
[Xiii] Vedi Denis DIDEROT apud GC ARGAN, “Manet e la pittura italiana”, in idem, Da Hogarth a Picasso/ L'Arte Moderna in Europa, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 346 (https://amzn.to/3Efogrx).
[Xiv] Vedi GC ARGAN, Arte e critica d'arte, Lisbona, Editoriale Estampa, 1988/ Arte e critica d'arte, Roma-Bari, Laterza, 1984, p. 145 (https://amzn.to/3QXMRJ4).