da MARCOS FALCHERO FALLEIROS*
La presenza del romanzo di Giovanni Verga nell'opera di Graciliano
Vaghi ma costanti, sono sempre suggestivi i riferimenti biobibliografici alla pratica di Graciliano Ramos con la lingua italiana. Vale la pena citare due passaggi su questo argomento: uno, la cronaca esilarante di Graciliano (1929; 1976), “Professores improvisados”, del 1929, in cui racconta, alla maniera di “O homem que saber javanês”, di Lima Barreto (2010) , come iniziò, con intenti lucrativi, a insegnare l'italiano nella sua comunità, aggiungendo “oni” e “ini” alla fine delle parole; l'altra, seriamente, il necrologio in cui Otto Maria Carpeaux (1953) dichiara che Graciliano imparò l'italiano per leggere il Divina Commedia e osserva l'affinità dell'alagoano con l'“esilio”, con il “parole di dolore, accenti d'ira” sentito nei circoli dell'inferno.
Senza alcun riferimento nella documentazione di Graciliano, si può però studiare un'altra affinità: il debito di espressione e di articolazione della sua opera con Giovanni Verga. Un'influenza palpabile su Graciliano può essere vista nel rapporto tra San Bernardo e Mastrodon Gesualdo, un pioniere di uomo fatto da sé. Ma ricchissime sono le relazioni intertestuali di Graciliano, lettore vorace delle campagne sperdute nell'entroterra nord-orientale. La smentita che Graciliano professa in “Alguns tipi insignificanti”, parlando della creazione di Paulo Honório, conferma la consapevolezza delle influenze dell'autore, sempre sulla difensiva con la sua ironica modestia: “Forse mi sarebbe utile affermare che scrittori importanti, naturalmente stranieri, , mi aveva indotto a realizzare una telenovela. Sarebbe una bugia: la mia lettura insufficiente stava lasciando il secolo scorso. In mancanza di meglio, c'era un colonnello a portata di mano, un individuo interessante, anche se non era sostenuto da maestri dai nomi difficili” (RAMOS, 1980, p. 195).
Ma anche se la negazione potesse essere confessione, e se ci fosse stato un impulso primario di Mastrodon Gesualdo per l'ispirazione del suo romanzo, è necessario, tuttavia, osservare il composito della letteratura che San Bernardo assorbito e aggiunto al corpo della sua formazione, tra gli altri, fondamentalmente Faust, o manifesto comunistao Cime tempestose, di Emily Brontë (cfr. PAIVA, 2019).
Se continuiamo con l'aspetto tematico, si vede che un punto favorevole a questa indagine è dato dalla prefazione dell'autore siciliano a Io Malavoglia: il progetto di accostamento alle classi lì annunciato risuona nella distribuzione degli accostamenti che Graciliano operò nei suoi romanzi. Nella già citata cronaca “Alcuni tipi poco importanti”, originariamente pubblicata sulla rivista Dom casmurro (RAMOS, 1939) e inserito postumo nella raccolta Linee storte, del 1962, Graciliano dice, a proposito del “mucchio” dei suoi personaggi, che è “possibile che non siano altro che pezzi di me stesso e che il vagabondo, il colonnello assassino, l'impiegato e la puttana non esistano” (RAMOS, 1980, pagina 196). In questo modo si ha la percezione che un'umanità divisa in classi arrivi solo, tra oppressori e oppressi, all'equa distribuzione della miseria della vita – percezione peraltro molto frequente nel pensiero marxista.
La modernità di Graciliano ha guidato la costruzione della sua opera sotto la concettualizzazione di un marxismo indipendente e riflessivo nella ricerca della comprensione della propria realtà nord-orientale, che ha distribuito la tragedia tra la "formazione del borghese", in Paulo Honório, la condizione "vite" del piccolo-borghese Luís da Silva, e l'attesa della rivoluzionaria “proletarizzazione” degli indifesi sertanejos spinse nella grande città. Fu questa modernità, dolorosamente comprensiva dal punto di vista del materialismo storico, che assimilò e superò la proposta del verismo di Giovanni Verga, come l'autore italiano ha presentato nella sua prefazione a Io Malavoglia – il progetto per il Ciclo dei Vinti (I Vinti), poi abbandonata a metà strada: “I Malavoglie, Maestro Dom Gesualdo, una duchessa di Leirao Vice Scipionio uomo di lusso sono gli stessi perdenti che la corrente ha depositato sulla riva, dopo averli trascinati e annegati, ciascuno con le stimmate del suo peccato, che avrebbero dovuto essere il fulgore della sua virtù” (VERGA, 2010, p. 9).
La prospettiva critica di Graciliano ha saputo distribuire più coerentemente la tragedia umana, equiparata alla lotta di classe: dall'alto verso il basso, è giunta alla pubblicazione del suo implicito progetto, pienamente compiuto, con San Bernardo (1934), Angoscia (1936) e Vite secche (1938).
Ma ci sono aspetti più sottili e significativi nella presunta influenza di Verga, che sono al tempo stesso – per la raffinata e definitiva conquista estetica della sua espressione – più indiretti e diffusi, in relazione alla sua presenza come fonte formativa di tutta la letteratura moderna , soprattutto in relazione a quanto Leo Spitzer ha qualificato con il titolo “L'originalità della narrazione nei Malavoglia” (1956). In questo saggio, Spitzer parte dalle affermazioni di un altro critico per discutere la sua analisi e riproporre l'onnipresenza del discorso indiretto libero em Io Malavoglia, che caratterizzerebbe la voce narrante di quest'opera come “corale”. Il saggio, trasformatosi nel cardine della sua fortuna critica, si aggiunge ad altri aspetti che sono stati stereotipati come buon senso dedicati all'approccio al romanzo.
In questo quadro è comune citare il programma di “impersonalità” del verismo, posto come fatto indiscusso del suo farsi, che avrebbe così soppresso dalla Malavoglia la voce del narratore, alla ricerca della più rigorosa oggettività e distanza. Leggendo il romanzo con uno spirito più ingenuo, disarmato da quegli stereotipi critici che ne cristallizzano la ricezione, ci si rende conto che, in realtà, l'intenzione dell'autore di omettere il tono ponderoso e colto del narratore ha l'effetto contrario di arrendersi alla voce degli umili, in un contropiede che annulla completamente l'obiettività e la distanza che si intendeva, grazie alla solidarietà e all'empatia con le persone rappresentate a cui dà voce.
Se ne rendeva conto fin dall'inizio Benedetto Croce, quando commentava con bonaria ironia le pretese neofite del verismo nella sua impossibile proposizione di “impersonalità”, errore palese, poiché “l'arte è sempre personale” (CROCE, 1922, p. 18) . Ma – rileva il critico – utile a suscitare più scrupolosità nella costruzione estetica, l'errore della proposta verista è stato individuato in Verga dall'accostamento dell'autore alle sue origini siciliane, ritratte con affetto, nella gustosa espressività del linguaggio popolare che imita. Così, in una delle dolorose scene finali di Io Malavoglia, nel salutare la casa che il fratello minore Alessi aveva recuperato, la “casa del nespolo”, nido di tutte le disgrazie subite dalla famiglia innocente e gentile, la “voce” del primogenito del vecchio 'Ntoni guarda , per molto tempo, a tutto quel tuo mondo perduto, con gli occhi umidi. Citando il brano, Croce esclama: “Così è fatta l''impersonalità' di Giovanni Verga, e perché è fatta così, noi amiamo la sua opera” (1922, p. 30).,
Il concetto di parodia può essere applicato alla condizione mimetica di questa rappresentazione, principalmente da Tynianov, come ha visto Ana Paula Freitas de Andrade diagnosticando la caratterizzazione dell'“impersonalità”, che Verga cerca di mettere in scena, con i procedimenti della parodia e della stilizzazione (ANDRADE , 2006, p.12) – che rivela in ultima analisi un aggiramento delle imposizioni programmatiche del naturalismo-verismo, operato dalla prestidigitazione di un innovativo narratore impersonale.
Tale innovazione formalizzata nel “mondo-proverbio” del Malavoglia è stata così valutata da Antonio Candido la complessità della composizione del suo linguaggio, che il critico chiama “la voce inventata da Verga”: “Avvicina il narratore al personaggio, grazie all'intimità fornita da una sorta di estensione del stile indiretto libero, le cui virtù di solito appaiono intervallati tra le altre modalità, ma qui sono per così dire permanente (quello che Zola aveva fatto in L'assommoir, credo per la prima volta nella storia della letteratura). Di qui l'omogeneità, che supera la dicotomia autore-personaggio, tipica della maggior parte dei regionalismi, e suscita un potente senso della realtà, all'interno dell'artificio linguistico consapevolmente adottato” (1998, p. 109).
Antonio Candido confuta l'accusa, attribuita al Naturalismo, di essere abitudinario e poco innovativo, ricordando come il “descrittivismo implacabile” di Zola sia stato lasciato in eredità alla tecnica di Joyce o all'oggettualismo di Nouveau romano: “La soluzione stilistica di L'assommoir, ad esempio, è di per sé una rivoluzione, che rappresenta il primo passo irreversibile verso l'incorporazione del linguaggio parlato nello stile della finzione, creando una voce narrante che, pur agendo in terza persona e rappresentando l'autore, non si distingue qualitativamente da quella dei personaggi, scelti da un altro ambito sociale. Ciò è stato reso possibile in parte dall'uso dello stile indiretto libero; ma va oltre, in quanto è una sorta di soppressione generale della differenza di tonalità tra il diretto e l'indiretto” (1998, p. 105-106).
Sebbene il critico sottolinei con enfasi l'importanza di Zola e la sua possibile influenza su Verga, è importante ricordare la specificità di “originalità"Di Io Malavoglia, così da poter delimitare nell'opera italiana la sua preminenza nel flusso delle correnti intertestuali di formazione della letteratura moderna nel Novecento, nonostante la sua ricezione abbia attraversato processi complessi, come indicato da Alfredo Bosi in “Verga vivo” ( 1988): una presenza forse poco notata per la situazione periferica rispetto al prestigio della letteratura francese. Tuttavia, Spitzer sottolinea: “Il discorso indiretto 'libero' o 'corale' di Malavoglia, va notato, è diverso da quello di Zola, anche se fu maestro indiscusso nel descrivere la collettività […]; lo scrittore si lascia "vivere" (erleben) i sentimenti di questi gruppi, lasciando il lettore in sospeso sulla realtà di ciò che dicono i suoi "cori", ma libero discorso indiretto [erlebte network] La coralità di Zola rimane riservata a certi momenti dell'effusione frenetica o isterica del popolo, in cui i confini tra narrazione oggettiva e discorso soggettivo vengono distrutti, non penetrano l'intera narrazione dell'autore (SPITZER, 1956, p. 49).
A ciò si aggiunga l'originalità della soluzione formale trovata da Verga, il luogo comune, una ripetizione e detto, che Antonio Candido addita come elementi essenzialmente articolatori di quella narrazione, gemellati dallo stesso asse di significato correlato, che funziona da “legante” in senso architettonico, perché, oltre al libero discorso indiretto – inteso dal critico come “stile indiretto omogeneizzante” – questi sono elementi semanticamente unificati che “cravatta il racconto al linguaggio, dovuto al mondo popolare, chiuso e ricorrente” (1998, p. 110). Quindi, è deplorevole, come perdita teorica, che Lukács, in La teoria del romanticismo, non hanno evidenziato Io Malavoglia come esemplare oggettivazione del “confino trascendentale” nella forma romanzesca della modernità, in quanto poteva opporre questi elementi, inversamente proporzionali, alle ripetizioni tipiche delle formule omeriche, nel modo in cui queste si articolano con rassicurante bellezza poetica al mondo coeso ed equilibrato dell'epica . Allo stesso modo, Walter Benjamin, ne “Il narratore” (1985), avrebbe potuto commentare la situazione del “proverbio” in questo contesto in cui la qualificazione di “chiuso”, contraria al significato accogliente dell'epica e del mondo del narratore orale, significa impotenza e senza via d'uscita, dove l'ascendenza della saggezza proverbiale è illusione, inganno e visione stereotipata.
Certamente seguendo un altro aspetto tradizionale dell'apprezzamento critico di Io Malavoglia e il verismo, cioè il fatalismo per effetto dell'esenzione che l'impersonalità e la lontananza comportano, Antonio Candido conclude la sua analisi rapportando linguaggio e società al senso di paralisi che il romanzo instaura: "Soffocamento, dunque, in ogni modo, tradotto da un codice pietrificato" (CANDIDO, 1998, pagina 122). Quanto al verismo “meramente fotografico”, in chiave fatalistica, in cui il narratore si esenta dall'interferenza, è rilevante il caveat di Ivo Barroso alla valutazione di Gramsci: “Questa visione portò Gramsci a denunciare 'un atteggiamento di fredda impassibilità si limitava a riferire senza proporre soluzioni o modifiche. Ma la forza del suo stile, il linguaggio tagliente dei suoi dialoghi, le agili pennellate con cui ritrae la psicologia dei suoi personaggi fanno dei suoi racconti un documento di coscienza sociale, un campionario delle circostanze in cui il comportamento dei diseredati e bisognosi della società si sviluppa provincia, asfissiata dal fatalismo e dalle costrizioni religiose” (BARROSO, 2001).
È quanto riconosce Candido, soffermandosi sull'aspetto formale: “Riflettendo sullo stile di Io Malavoglia o certe storie eccezionalmente ben fatte, come 'Rosso Malpelo', non possiamo fare a meno di sentire ciò che è visceralmente rivoluzionario in questo sopprimere le barriere, in questo avvicinarsi alle persone attraverso il ritmo profondo della loro vita, che è la parola. L'invenzione stilistica funziona come un livellamento sociale, in modo tale che, anche senza alcuna allusione politica, e anche senza una chiara intenzione di suggerirla, il romanziere opera una sorta di vasta egualitarizzazione” (1998, p. 110).
Pertanto, è lecito provare in Verga e, soprattutto, nel suo Io Malavoglia un seme fondamentale della narrativa moderna del Novecento, da cui partire per considerare il rapporto dialogico di fondo che scrittori brasiliani come Graciliano Ramos e Guimarães Rosa hanno instaurato con l'opera italiana. Così, per ragionare su tali rapporti, possiamo utilizzare la sensibilità della percezione, corrispondente alla raffinatezza di Spitzer, che Alfredo Bosi (1988) presenta con l'opposizione tra Rosa e Graciliano, qualificata dalla critica con gli opposti pendolari di Paradiso Inferno. Il realismo critico di Graciliano osserva la differenza di condizione tra il narratore ei suoi diseredati Vite secche, la cui via crucis segue con angosciata attesa il materialismo storico dell'angelo ateo, a differenza di Guimarães Rosa, che si arrende empaticamente alla religiosità della cultura popolare: “L'autore [Graciliano] porta con sé una conoscenza che la sua concezione critica della società non vede perché reprimere. Da lì deriva la possibilità di esprimere giudizi sul comportamento del cowboy, giudizi che sarebbero irrealizzabili, ad esempio, dal punto di vista di Guimarães Rosa, i cui rapporti con le fonti sertaneja si svolgono sul piano dell'identificazione e dell'empatia” (BOSI, 1988, pagina 14).
Così, alla “coralità” del libero discorso indiretto di Verga e alla sua presunta “impersonalità”, Rosa risponde con piena adesione al linguaggio popolare, che lo scrittore eleva all'altezza di una stilizzazione letteraria sofisticatissima, in una simbiosi di “opera d'ascolto”. . in cui il narratore muto consegna integralmente il rientro del discorso direttamente alla voce di Riobaldo in Grande entroterra: sentieri. E, nelle sue novelle, come rivela Bosi, Guimarães Rosa restituisce credibilità al proverbio come esperienza radicata nell'animo popolare, avallandone la speranza “provvidenziale” del tipo “Dio è lento ma non fallisce”, perché “non tanto per un misterioso favore del caso quanto per la volontà profonda, gestata nel cuore delle creature che attendono» (BOSI, 1988, p. 25).
Quanto a Graciliano Ramos, l'angelo ateo della storia indaga da vicino (vedi il film le ali del desiderio, 1987, di Wim Wenders) gli emigranti da Vite secche attraverso un discorso indiretto, rispondendo alla “esenzione” di Verga, con la sua afflizione critica consapevole delle differenze, che fraternamente pone, tra le ingenue speranze dei diseredati, il dubbio di un tempo futuro condizionato: “Da un lato, armatevi di una tattica per avvicinarsi alla mente del contadino, perché sono i desideri di Fabiano che qui vengono proiettati. Ma, d'altra parte, la modalità condizionale o potenziale (e non il semplice futuro del presente) registra il dubbio con cui la visione del narratore lavora il pensiero del cowboy. Sarebbe risorto, sarebbe tornato, sarebbe rimasto... Il vicino diventa lontano. La vicinanza al tema e la distanza dal fulcro narrativo alla coscienza del personaggio concorrono a plasmare il realismo critico di Graciliano” (BOSI, 1988, p. 11).
Fraterno, ma senza dare voce alla “coralità” del suo popolo indifeso e silenzioso, Graciliano presenta però una scheggia identitaria, percepita dalla lettura sensibile di Alfredo Bosi nel brano in cui il narratore di Vite secche presenta Fabiano come uno che “ammirava le parole lunghe e difficili della gente della città, cercava di riprodurne alcune, invano, ma sapeva che erano inutili, e forse pericolose”: “Penso alla forza di questo ma sapeva, dove convergono le ragioni del personaggio e la critica storica del narratore. È una certezza condivisa, è una verità politica che entrambi hanno conquistato. Il cowboy Fabiano lo sapeva, lo sapevo anch'io, lo scrittore anticonformista” (BOSI, 1988, 14).
*Marco Falchero Falleiros è un professore in pensione presso il Dipartimento di Lettere dell'Università Federale del Rio Grande do Norte
Riferimenti
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–––––. Insegnanti improvvisati. In: Vivere ad Alagoas. San Paolo, Rio de Janeiro: Record, Martins, 1976.
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–––––. I Malavoglie. Trans. di Aurora Fornoni Bernardini e Homero Freitas de Andrade. San Paolo: aprile 2010. (Classici, 28).
Nota
[1] Gli estratti delle edizioni in lingua straniera citati in questo testo sono tradotti in portoghese