gratitudine e memoria

Jackson Pollock, Senza titolo, c. 1950
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da ALFREDO BOSI*

Discorso pronunciato in occasione della consegna del titolo di Professore Emerito della FFLCH-USP

“Molto deve essere dimenticato quando l'essenziale deve essere conservato” (Curtius).

Questa è un'ora di gratitudine e memoria per eccellenza., Riprendendo le parole delle Scritture: c'è un tempo per ringraziare e un tempo per ricordare. A volte, come accade in questo momento, entrambe le volte si fondono in una sola. Ringraziare e ricordare diventano un unico movimento del nostro spirito.

Ricordo e ringrazio con nostalgia i miei genitori, Alfredo e Teresa Bosi, che se ne sono già andati. Ringrazio di cuore Ecléa, mia moglie, movimento dimidiam animae. Ringrazio teneramente i miei figli, Viviana e José Alfredo, con raddoppiata tenerezza i miei nipoti, Tiago e Daniel, con affetto i miei amici, con rispetto i maestri, con ammirazione i miei amati autori. Ebbene, noi che passiamo tante ore sui loro libri, è giusto che li ringraziamo.

E mi vengono in mente le parole pronunciate da Montesquieu, componendo il suo autoritratto: L'étude a été pour moi le souverain remède contre les dégoûts, n'ayant Nunca eu de chagrin qu'une heure de lecture ne m'ait ôté. [Lo studio è stato per me il rimedio sovrano contro il crepacuore, non avendo mai sofferto una tristezza che un'ora di lettura non potesse liberarmi].

I dolori possono arrivare in qualsiasi momento e quando meno te lo aspetti, ma la lettura dipende dal nostro desiderio e fortunatamente, come tanti di noi, quel desiderio è arrivato presto. Mio padre, che aveva studiato italiano in una scuola elementare di Brás chiamata Regina Margherita, conosceva a memoria brani della Divina Commedia, la sua Bibbia. Mia madre si dilettava di romanzi a puntate, romanzi d'appendice, che occupava le piè di pagina del quotidiano italiano Fanfulla, sopravvissuto fino alla seconda guerra mondiale. E io, cosa ho letto? Confesso che leggo poesie. Conservo un taccuino in cui ho copiato poesie che mi hanno incantato e commosso. Spero che quei fogli non servano mai da esempio per qualche studente post-laurea senza materia, che decide di ricercare il gusto letterario degli studenti delle scuole superiori di San Paolo negli anni '50.

Ma poiché è tempo di ricordare, premetto che questo gusto era piuttosto eclettico. Non sono mancati i sonetti di Camões (un tormentone di indelebile memoria, “Sette anni da pastore…”, “La mia anima gentile…”, “L’amore è un fuoco che arde non visto”)…, né il serio “Formoso Tejo meu ”, di Sá de Miranda (che ha lasciato tante risonanze nei versi di Manuel Bandeira), il tutto alternato ai Tupis di Gonçalves Dias, agli schiavi di Castro Alves, alle eloquenti stelle di Bilac, alla silenziosa luna di Raimundo Correia, al lamentoso litanie di Alphonsus de Guimaraens , il mare che si infrange in onde di Vicente de Carvalho, apparso anche con lo struggente “Pequenino Morto”, la cui lettura ad alta voce mi ha fatto piangere.

Così la mia educazione sentimentale è iniziata con la poesia e probabilmente anche con l'intuizione che l'insegnante di Lettere ha bisogno di amare la parola poetica, e che potrà trasmettere questo amore solo leggendo ad alta voce ai suoi studenti. Non farlo sarebbe come voler insegnare la musica senza ascoltare e produrre la magia del suono. Le idee verranno dopo, i concetti non devono precedere le immagini (che avrei imparato nei corsi di Letteratura italiana tenuti da Italo Bettarello, lettore di Vico e Croce). I concetti estetici avranno carne e sangue, suono e colore, in una galava, riceveranno una forma viva quando la sensibilità sarà già stata nutrita dalla poesia e dall'arte.

E nel nominare il maestro Bettarello, la memoria già faceva un salto e attraversava tempi e spazi. Il liceale ha frequentato il corso classico e ha già salito i gradini della Facoltà di Rua Maria Antonia, dove ha scelto il Corso di Lettere neolatine. Vorrei avere il talento di un narratore per evocare l'atmosfera che viveva in quell'edificio ormai mitico, così come lo conoscevo alla fine degli anni '50. , dalle Lettere alla Fisica, dalla Geografia alla Filosofia. È vero, eravamo insieme e lo spazio comune ci ha arricchito.

Ma, da studente di Lettere, devo aggiungere che non sempre c'erano gerarchie molto sottili. Innegabile era il crescente prestigio di una scienza allora splendente e già ambita a governare la conoscenza di tutte le cose che passano tra cielo e terra. Si chiamava Sociologia, in realtà un termine ibrido creato da Auguste Comte: compagno è latino, logia è greco: una formazione verbale alquanto irregolare, come ci ha insegnato il nostro mentore di filologia romanza, il compianto maestro Isaac Nicolau Salum. Credo che l'egemonia di una scienza sia un fenomeno culturale e stagionale che merita di essere studiato. Il fatto è che abbiamo già visto la Linguistica succedere alla Sociologia ed essere, a sua volta, succeduta dalla Storia, che ancora prevale, ma non sappiamo per quanto tempo. Quanto alla Filosofia, può sempre aspettare come la civetta di Hegel che vede il suo tempo solo quando scende la notte.

Ma guarda, non era solo un'aura accademica emanata da eminenti guru francesi che avevano gareggiato per formare sociologi di San Paolo, i due Bastide e Lévi-Strauss. C'era di più: il passaggio dagli anni Cinquanta agli anni Sessanta è stato un momento di forte speranza per il superamento del nostro sottosviluppo, un momento di maturazione per una sinistra universitaria in cui pulsava la voglia di cambiamento. Radicale o riformista, questa speranza univa comunisti, socialisti e cattolici progressisti e alimentava una contro-ideologia (diranno gli scettici, un'utopia) che mirava nientemeno che ad affrontare vittoriosamente l'ideologia del capitale. Al di fuori dell'USP, è stata la volta dell'ECLAC, dei primi saggi di Celso Furtado, dell'ISEB nazional-sviluppista cresciuto all'ombra dei progetti dell'era JK. Ed era il nascente Base Education Movement ancorato a un nuovo metodo di alfabetizzazione inventato da un grande brasiliano di nome Paulo Freire.

Attorno e vicino all'USP, innegabile la presenza di Caio Prado, figura della storiografia marxista. All'interno dell'USP, per citare il nome dell'asse, si profilava la feroce figura di Florestan Fernandes, che creò una scuola e si dedicò a conoscere e superare quelle che considerava forme di resistenza al cambiamento. Credo che la sua campagna per la scuola elementare pubblica sia stata il primo punto di aggregazione degli studenti di questa Facoltà.

Non moltiplico i nomi per non disperdere il discorso. Ciò che importa è caratterizzare la condizione complessa e alquanto scomoda dello studente di Lingue, appassionato di poesia, romanzi e saggistica, studioso dei classici del mondo romanesco, e che si vedeva, al tempo stesso, colto in una rete di stimoli extraletterari vitali per la loro formazione come cittadini partecipanti. La situazione era irrisolta in quanto il modo di trattare il testo poetico praticato nei corsi di Lettere non faceva rima con le dottrine che portavano alla militanza politica. Una corrente marxista programmata di interpretazione letteraria non esisteva ancora in quegli anni di apprendistato. Direi oggi, sperando di essere capito: questa corrente non era ancora in vigore, nel bene e nel male.

Per il bene: lo studente è stato invitato ad accostarsi alla poesia, senza dogmatici a priori, analizzandone le immagini, le risorse sonore, o espressive in genere, i processi compositivi, la struttura semantica dei motivi e dei temi; e, se l'insegnante avesse anche tendenze storiciste, lo studente dovrebbe riconoscere la presenza di movimenti letterari che avevano lasciato segni rilevanti nel significato e nella costruzione estetica. Suonante immanente, in fondo al testo, era la stilistica spagnola, di natura intuizionista, che era governata, in ultima analisi, dalla lapidaria definizione che Croce aveva dato della poesia, “un complesso di immagini e di un sentimento che la anima”.

Frutto di un'altra cultura, era il spiegazione del testo, intellettualista e didascalico nell'esposizione delle idee fondamentali del testo; comunque il nuova critica Anglo-americana, più sofisticata e moderna, in quanto univa lo studio analitico di immagini, simboli e miti a ipotesi psicologiche o addirittura psicanalitiche. Quanto allo storicismo, a quel tempo derivazione diffusa del culturalismo, si concentrò sul riconoscimento delle caratteristiche dei grandi stili storico-culturali, classicismo, barocco, arcadianesimo, romanticismo, ecc. A bilancio favorevole, segnalo anche un relativo iniziale esonero ideologico dell'interprete, che non si è sentito obbligato a pattugliare i narratori e i poeti nella smania di scoprire in essi segreti strati reazionari, visto quello che attualmente costringe alcuni lettori universitari a la professione inaspettata di investigatori o giudici di prima e ultima istanza.

Ma in peggio: quell'assenza di una robusta cultura dialettica, hegeliano-marxista, lasciava lo studente-lettore in balia delle mode ultraformaliste (eredi minori dei grandi formalisti russi), come accadde durante l'interregno strutturalista degli anni '60 e '70, o, all'estremo opposto, lo ha lasciato impotente in un impressionismo saturo di pretese irrazionaliste e giochi di parole. In questa critica MMA, l'irresponsabilità epistemologica dilagava quando il soggetto si prendeva la libertà di disconnettersi dall'oggetto e dal suo contesto.

Credo che la mia permanenza in Italia nell'anno accademico 61-62 abbia contribuito ad aprire una strada affinché la mia formazione croata andasse incontro ai nuovi venti del marxismo che, spinti dalla scoperta di Gramsci, soffiavano in tutti gli ambienti universitari del Paese. Gramsci, i cui taccuini del carcere mantenevano una vivace polemica con l'idealismo crociano, non aveva mancato di ricevere dal suo grande avversario l'ipotesi feconda della “dialettica dei distinti”, per cui sapere e azione si muovevano nei propri ambiti, attribuendo all'arte e all'opera il lavoro conoscitivo e scienza, e l'opera della volontà alla prassi politica e all'etica. Questa differenza è alla base dell'affermazione di Gramsci: “Spetta all'arte rappresentare il mondo e alla politica trasformarlo”. Finché i legami tra le due istanze sono salvaguardati, la distinzione mi sembra valida ancora oggi. Anche perché una dialettica del distinto non è una dialettica degli opposti assoluti e inconciliabili.

Tornando in Brasile, mi sono reso conto che tutto invitava all'azione piuttosto che alla contemplazione estetica. I due anni che precedettero il colpo di stato del 1964 furono agitati dai disordini scoppiati intorno alla politica di centrosinistra di João Goulart. Serrando i ranghi in difesa delle “riforme fondamentali” proposte dal governo, socialisti, comunisti, nazionalisti, laburisti e cristiani progressisti si allearono tatticamente. Il clima era di attesa e ricordo con nostalgia quanto mi stimolasse quella convergenza di ideali che si esprimeva, ad esempio, nel giornale di lotta Brasile Urgente, fondata da p. Carlos Josaphat, per il quale ho collaborato, accogliendo con entusiasmo le proposte riformiste del movimento Economia e Umanesimo creato dall'instancabile Padre Lebret. Il tuo Principi per l'azione erano libri sul comodino per molti militanti che stavano passando dalla democrazia cristiana al socialismo.

Venne il golpe, la dittatura con i suoi atti istituzionali, l'impeachment di alcuni nostri colleghi più illustri e attivi. Chi è rimasto ha resistito come ha potuto nella semiclandestina delle aule, nei rinnovati studi sulla società brasiliana, nelle prime comunità di base formatesi alla fine degli anni '60, e il cui ricordo mi trasporta agli incontri a Vila Yolanda, Osasco, con la presenza di un sacerdote-operaio, Domingos Barbé, figura luminosa che ora desidero evocare con venerazione. Lettura Vite secche con i giovani di quella comunità, ho capito che stavo parlando con i bambini di Fabiano e Sinhá Vitória…

E a proposito di quasi clandestinità, non si possono dimenticare le riunioni della Commissione Giustizia e Pace creata da D. Paulo Evaristo nel 72, al culmine della repressione; o il rischio delle marce di protesta, o, molto più sconsideratamente, per usare la forte espressione di Jacob Gorender, la lotta al buio di chi ha optato per la resistenza armata. Ma questa è già una memoria collettiva, che trascende ciascuno di noi, e si chiama Storia. E non c'è negazionismo ottuso o truculento che possa cancellarlo. Siamo ancora vivi per dare la nostra testimonianza.,

La routine universitaria continuava con le sue esigenze e il suo lavoro. Insegnando corsi di Letteratura italiana, ho scelto autori che rappresentassero come oggetto di tesi il “pessimismo dell'intelligenza” piuttosto che “l'ottimismo della volontà”, antinomia cara al pensiero di Gramsci. Ma cosa ha significato come scelte esistenziali studiare Pirandello e Leopardi?

Le narrazioni di Pirandello mi attraevano per l'impasse che evidenziavano tra forma e vita, identità pubblica e flusso della soggettività, conflitto romantico e moderno per eccellenza che l'esistenzialismo formulerà in termini di destino e libertà. Il teatro pirandelliano, che nasce da questa narrazione, entrerebbe nel vicolo dell'impossibilità stessa di vivere un'esistenza autentica, autodeterminata nella società, poiché il vincolo dei ruoli sociali, della "forma esterna", supera di gran lunga i nostri desideri di sostenere un sé liberamente assunto. L'arte di Pirandello, ad eccezione della fuga nell'atmosfera surreale degli ultimi racconti, si concentra sulla figurazione dell'impasse. Ora siamo uno, ora centomila, ora nessuno.

L'anarchismo di fondo e il determinismo definitivo fanno parte di questo dramma psicosociale davvero impegnativo. Croce, nella sua severa critica a Pirandello, diceva che questa mobile indefinitezza è caratteristica dell'adolescenza, e che la maturità la supera scegliendo un sé coeso e attivo. Potrebbe essere, lo spero, cuci e vedi fermati, ma guardandomi e intorno a me, sospetto che questa sia una condizione che sopravvive a lungo nell'adolescenza... Per Luigi Pirandello finisce solo con la morte, la fine del nostro "soggiorno involontario sulla Terra".

“Mito e poesia in Leopardi”, saggio presentato per l'Abilitazione nel 1970, percorre il lungo tunnel del poeta considerato affine al pessimismo schopenhaueriano. Come è noto, fu proprio il filosofo a leggere il poeta dichiarando con la sua famigerata modestia: “Nel 1818 i tre più grandi pessimisti d'Europa erano in Italia: Leopardi, Byron ed io, ma non ci incontrammo”. A proposito, anche il nostro Machado de Assis è stato un lettore e un ammiratore del poeta, essendo stato ispirato da un suo dialogo quando ha scritto il capitolo sul delirio di Brás Cubas.

Mi sono concentrato nell'esaminare i miti dell'età dell'oro e della caduta presenti nelle liriche di Leopardi, ma ho potuto intravedere una luce nel mito prometeico o titanico della resistenza individuale che emerge dalle ultime poesie. Tra questi sicuramente il più bello è La ginestra o fiore del deserto. Il poeta parla della sopravvivenza di un fiore selvatico, la ginestra, che non appassisce nemmeno dopo essere stato seppellito dalle lave del Vesuvio, alle cui pendici cresce e germoglia da secoli. Leopardi visse i suoi ultimi anni a Napoli, ai piedi della montagna fumante sempre in procinto di eruttare, e fu questo paesaggio arcano e minaccioso a ispirargli il sentimento di una Natura più matrigna che madre, seminatrice di violenza letale e duttile al tempo stesso delicatezza. La ginestra ravvivava ancora i fianchi del vulcano con i suoi petali giallo oro, che erano sabbia, fango e pietra.

L'immagine è finita per essere il motivo trainante di alcuni saggi che ho scritto a partire dagli anni 1970. Il testo “Poesia Resistência”, che chiude il libro Essere e tempo della poesia, ha richiesto un'indagine sui vari tipi di toni poetici in cui si instaura una tensione tra il soggetto e le ideologie dominanti del suo tempo. La resistenza può verificarsi sia in versi satirici che lirici con il più alto grado di interiorizzazione. La Storia degli uomini pulsa nel cuore della parola lirica, ma lo fa nel suo regime, il regime dell'espressione, una “logica poetica” (Vico) che non va confusa con quella della persuasione retorica, che utilizza il parola come dispositivo strumentale. . Questo è quello che ho imparato leggendo il estetica de Croce compose mezzo secolo prima che Adorno scrivesse il suo pregevole saggio sul rapporto tra poesia e società.

In altri lavori, incentrati sulla storia letteraria brasiliana, ho cercato di tematizzare le espressioni di conformismo e ribellione che coesistevano in più di un periodo della nostra cultura. Era questa compresenza di significato ideologico e controideologico che mi interessava catturare, e che ho cercato di mostrare in un'opera didattica scritta su invito del poeta e amico José Paulo Paes, il Historia Concisa da Literatura Brasileira. Il mio libro di riferimento obbligatorio, il Storia della letteratura occidentale di Otto Maria Carpeaux, mi aveva insegnato a vedere i contrasti che si verificano in ogni movimento culturale individuando un antibarocco nel cuore del barocco e un antiromanticismo nell'ampia gamma di espressioni romantiche. Ho potuto verificare l'ipotesi di Carpeaux.

Nello stesso periodo romantico brasiliano, il conservatorismo di Gonçalves de Magalhães si alterna all'indigenismo ribelle di Gonçalves Dias, e l'accettazione del sacrificio della madre nera, drammatizzata da José de Alencar, è coeva all'epopea abolizionista di Castro Alves. L'estremo sentimentalismo di Casimiro de Abreu e il vaporoso idealismo di Alencar danno i loro frutti insieme all'audace realismo di Memórias de um sergeant de milícias di Manuel Antônio de Almeida. Di lì a poco, negli stessi anni dell'orgoglioso parnassianesimo, Bilac esprimerà con eloquenza la grandezza di un Brasile eroico, mentre Cruz e Sousa piangono l'angoscia del nero murato dalle pietre del pregiudizio e della pseudoscienza razzista. Arrivato alla belle époque, Afrânio Peixoto attribuisce alla letteratura il ruolo di “sorriso della società”, mentre Lima Barreto ci consegna il racconto autobiografico del meticcio umiliato e offeso di Rio che si è civilizzato sotto le riforme del sindaco Pereira Passos. Ed Euclides da Cunha compose l'epopea tragica del sertanejo massacrato a Carnudos.

Più vicino a noi: il Brasile colto, nel bel mezzo della corsa modernizzante di “50 anni in 5”, ha incontrato la scrittura che avrebbe fatto emergere nella prosa di Guimarães Rosa il retroterra arcaico della cultura dell'entroterra e del Minas Gerais. Il 1956 è l'anno di pubblicazione di Grande Sertão: Veredas ed è anche la data del manifesto del movimento concretista a San Paolo. Tradizione popolare e modernità tecnologica. Semplice coincidenza o contraddizione strutturale? Preferisco citare le parole hegeliane di Antonio Candido, già allora (e ancora oggi e sempre) nostro comune maestro: la contraddizione è il nervo stesso della vita.

Ma c'è anche la forza del caso per ogni percorso personale. Nello stesso anno 70, in cui vidi la pubblicazione di un'opera sulla letteratura brasiliana, avvenne la riforma dell'USP, che mi permise di trasferirmi al Dipartimento di Letteratura classica e volgare, dove iniziai a insegnare Letteratura brasiliana, presso l'invito di José Aderaldo Castello , mio ​​insegnante fin dai tempi della laurea. Non posso valutare ciò che resta dei miei corsi nella memoria di qualche migliaio di studenti di lingue che hanno dovuto frequentare le mie lezioni. Ma so bene cosa devo a quegli anni di insegnamento. A quel tempo, il corso obbediva a una serie cronologica. È partita dal passato per arrivare al presente. Il prima veniva prima del dopo. Ho sempre trovato ragionevole questo ordine, anche se ammetto che altri potrebbero pensarla diversamente.

Sta di fatto che ho tratto molto beneficio dall'iniziare la mia collaborazione con la disciplina per lo studio delle lettere nel periodo coloniale. A dire il vero, l'acqua di colonia era il brutto anatroccolo del programma ei colleghi mi ringraziarono moltissimo per essermi fatto carico della loro didattica. Anno dopo anno, analizzando auto e testi di Anchieta, satire di Gregório de Matos, sermoni di Vieira, testi di economia di Antonil, poesie neoclassiche come Oh uruguayano, sonetti di Cláudio Manuel da Costa e lire di Gonzaga, ho potuto sviluppare ipotesi generali sulla colonizzazione, il vasto processo che, in fondo, ha presieduto a tutte queste manifestazioni simboliche.

A un certo punto, grazie a una borsa di studio ricevuta dalla Fondazione Guggenheim, mi è stato permesso di ricercare testi di e su Vieira e Antonil a Lisbona ea Roma. Al mio ritorno ho pensato che avrei potuto mettere su carta il frutto di quegli anni di insegnamento e ricerca. La colonizzazione non mi appariva più come un insieme omogeneo in cui i processi simbolici avrebbero solo rispecchiato l'infrastruttura economica. Oltre allo specchio, che era evidente e preponderante, c'era il suo opposto, sempre l'ipotesi di un'eventuale resistenza, in coscienza e in parola, allo stile ideologico dominante.

Non dimenticai allora di essere stato allievo a Firenze di uno straordinario filologo indoeuropeo, Giacomo Devoto, che mi aveva insegnato l'importanza della storia delle parole. La parola colonia ha una famiglia che merita di essere visitata. il verbo latino giro, che significa coltivare la terra dominata, la colonia, ha la forma cultus, che rimanda alla tradizione, alla memoria religiosa di un passato di credenze e valori ancora presente, e per participio futuro culturus, forma che rimanda al progetto di coltivare l'habitat e l'abitante non solo fisicamente ma culturalmente, programma laico di civiltà elaborato dall'Illuminismo a partire dal XVIII secolo. Queste componenti del processo a volte si sovrapponevano, a volte si dissociavano.

A questo movimento di sì e di no, di specchio e di rovescio, mi è sembrato opportuno assegnare un nome che conserva ancora per me tutta la forza della verità: dialettica. Dialetica da colonizzazione è un libro modesto dal nome ambizioso. Ma corrisponde fedelmente a quello che credo di percepire come movimento di idee e valori di fronte a una realtà di sfruttamento e oppressione. Il potere di dire non ha permesso di generare la satira virulenta di Gregório (in cui è necessario separare il grano della critica dei mercanti bahiani dalla pula dei pregiudizi dell'epoca), le veementi omelie di Vieira (in cui è necessario separare il grano dalla difesa degli indigeni dalla pula dell'accettazione della schiavitù africana, nonostante la sua capacità di descriverne gli effetti perversi sul corpo del prigioniero come nessun altro). Antonil, segretario di Vieira e suo informatore presso le autorità gesuitiche romane, non seppe simpatizzare con il dolore dello schiavo, ma deplorò il martirio della canna schiacciata nei mulini. Gli dispiaceva per le lacrime della merce, è stato il nostro primo economista.

Le differenze ideologiche coprono anche la storia del Brasile imperiale, che, per certi aspetti, ha conservato le strutture dell'epoca coloniale. L'abolizionismo di Luís Gama, Joaquim Nabuco, André Rebouças, Rui Barbosa e José do Patrocínio riflette un liberalismo democratico che si oppone al liberalismo oligarchico ed escludente dei politici dominanti nei primi decenni del Secondo Impero: e ogni tipo di liberalismo ha avuto il suo posto nella nostra storia politica, ognuno dei quali rappresenta gli interessi di una classe o gli ideali di un gruppo. Ideologie e controideologie non sono mai gratuite e false perché la loro origine intellettuale è in Europa: i fenomeni di diffusione e di innesto culturale sono fondamentali quando si ha a che fare con le formazioni ex coloniali. Le reazioni ai trapianti di matrici culturali sono ciò che conta di più, perché senza di esse la storia delle cosiddette nazioni periferiche tenderebbe a riprodursi così com'è per sempre.

Più vicino a noi, il positivismo repubblicano di Ordem e Progresso si è mosso verso regimi accentratori come quello inaugurato dopo la rivoluzione degli anni '30 da Getúlio Vargas e dai suoi collaboratori del Rio Grande do Sul, tutti formati alla scuola antiliberale del loro maestro supremo, Júlio de Castilhos. Ma senza la forza di questo indottrinamento comteano, che accettava il ruolo disciplinare dello Stato, la vittoriosa rivoluzione difficilmente avrebbe posto tra le sue priorità l'urgenza di una legislazione sociale che cominciava a diffondersi in tutto l'Occidente.

Solo la cultura, come insieme di valori non intrinsecamente economici in ogni società, può dare senso e scopo all'agire politico – questo ho appreso leggendo gli scritti di un economista eterodosso, Celso Furtado, che chiedeva ai suoi colleghi professionisti un supplemento di immaginazione politica. A lui, a Jacob Gorender, militante comunista, e a D. Pedro Casaldáliga, militante cristiano, ho dedicato il mio libro, perché in loro ho riconosciuto il passaggio dal pensiero all'azione, che ha finalmente risolto la tensione sempre riaffiorante che governa il dialettica delle distinzioni.

Concludo queste memorie ringraziando l'opportunità, in questi ultimi anni della mia carriera universitaria, di collaborare con l'Istituto di Studi Avanzati nato nel 1986 per ispirazione di un gruppo di docenti dell'ADUSP. L'idea principale era quella di compensare la frammentazione dell'università, che la riforma aveva causato, creando un'istituzione che riunisse ricercatori delle scienze umane, biologiche e fisico-matematiche.

Non occorre essere molto astuti per rendersi conto che si trattava di recuperare, almeno nelle intenzioni, ciò che il nostro alma mater, la Facoltà di Filosofia, Scienze e Lettere aveva rappresentato fin dalla sua fondazione. Fu con questo spirito che accettai di collaborare all'amministrazione dell'AIE e, soprattutto, di rilevare l'edizione della rivista Studi Avanzati, un'impresa che ha già 22 anni di vita e 64 emissioni. Ho imparato molto nello svolgere questo compito. La scienza, che non ho mai potuto comprendere a causa della mia formazione letteraria, oggi mi appare come uno strumento eccezionale di trasformazione umana nel senso di valorizzare l'esistenza quotidiana. Inizialmente distaccato dalle conquiste dell'informatica e della comunicazione elettronica, ora so quanto la loro efficacia possa trasmettere i più alti valori etici e conoscitivi della nostra civiltà. Volere i fini senza i mezzi è finzione o capriccio. Studi Avanzati è ora completamente disponibile per tutti gli utenti di Internet.

[Aprendo a caso i numeri della rivista, ricordo con piacere le conferenze che hanno dato origine a tanti suoi articoli: ci sono le riflessioni politiche di Raymundo Faoro, Celso Furtado, Mikhail Gorbaciov, Edgar Morin, John Kenneth Galbraith, Michel Debrun e Aníbal Quijano, le speculazioni filosofiche di Habermas, Derrida e Granger, e Mario Schenberg, gli arditi interventi di Berlinguer e Chomsky, le belle osservazioni storico-culturali di Vernant, Chartier, Michel Vovelle e Luciano Canfora, le lezioni di eco-sviluppo di Ignacy Sachs e André Gorz, le interviste di Hobsbawm e Bobbio e Karl-Otto Appel, un testo ancora inedito sul barocco di Otto Maria Carpeaux. Cito i nomi di coloro che ci hanno già lasciato per evitare omissioni involontarie di diverse centinaia di collaboratori, scienziati e umanisti brasiliani che rappresentano il meglio che la ricerca ha prodotto tra noi e hanno già raggiunto un livello di eccellenza che onora la nostra università].

La maggior parte dei dossier da Studi Avanzati si concentra sui problemi fondamentali del popolo brasiliano, come la salute, l'alimentazione, l'istruzione, l'alloggio, l'energia, il lavoro e la sicurezza; e direi che anche in questa costante preoccupazione per i nostri più grandi bisogni, l'AIE si è dimostrata fedele agli scopi dei suoi fondatori, la vecchia e sempre nuova guardia dell'Università di San Paolo, come Alberto Carvalho da Silva, Rocha Barros e Erasmo Garcia Mendes, che hanno seguito da vicino i progetti dell'istituzione. Cito solo quelli che non sono più fisicamente con noi.

Occupando parte del tempo alla redazione della rivista, non ho abbandonato gli studi che hanno segnato il mio itinerario in questa Facoltà. Le lettere continuano ad essere compagne fedeli che, però, non sempre consolano. A volte ci feriscono ancora di più, proiettando nel nostro spirito le ombre che aleggiano sulla condizione umana. È quello che succede quando si sceglie di leggere l'opera di Machado de Assis, a cui ho dedicato alcuni saggi. Alla figura del satirico dell'Impero del Brasile, che la critica recente ha evidenziato con forse un po' di zelo estrapolatorio, mi è sembrato giusto aggiungere che l'umorismo del moralista disilluso ha scavato in lui altre dimensioni, che hanno universalizzato la sua incredulità nei uomini e non si limitava all'osservazione dei comportamenti locali. Machado de Assis appartiene all'alto lignaggio di Ecclesiaste, Montaigne, Pascal, La Rochefoucauld, La Bruyère, Vauvenargues, Chamfort, Swift, Sterne, Leopardi, Stendhal, Schopenhauer.

Machado non ha trovato, come Pascal, che tanto ammirava, la via della speranza trascendente, né, come Leopardi, la ginestra che germoglia nel deserto. Quanto a me, scendendo verticalmente da tali altezze, confesso di aver scommesso sulla fede di Pascal, e anche di aver chiesto a Ecléa di piantare una ginestra nel nostro giardino. La ginestra è ancora lì, in fiore e, spero in Dio, da molto, molto tempo.

[12 marzo 2009]

*Alfredo Bossi (1936-2021) è stato professore emerito presso FFLCH-USP e membro dell'Accademia brasiliana di lettere (ABL). Autore, tra gli altri libri, di Paradiso, inferno: saggi sulla critica letteraria e ideologica (Editora 34)

note:


[1] Desidero ringraziare sinceramente i miei colleghi in materia di letteratura brasiliana, che hanno preso la generosa iniziativa di proporre la concessione di questo onorevole titolo. Al nostro direttore, prof. Sandra Nitrini, titolare di Teoria letteraria, al responsabile del Dip. di Lettere classiche e volgari, prof. João Roberto Faria, collega della disciplina e amico di tutte le ore, e ai membri di questa illustre Congregazione che hanno aderito alla proposta. E al mio collega prof. José Miguel Wisnik, che sa comporre bellissime canzoni ed è per questo che le sue parole amichevoli suonano come musica alle mie orecchie.

[2] Permettetemi di chiedere un momento di silenzio per onorare tutti gli studenti e professori di questa e di altre università brasiliane che sono state torturate o uccise dalla dittatura militare e che meritano il rispetto della nostra memoria.

 

 

 

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