Horacio González

Fritz Wotruba (1907-1975).
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da GABRIELE COHN*

Commento al libro “Los asaltantes del cielo” dello scrittore argentino recentemente scomparso

Tra le tante cose che li affascinavano nelle classi del maestro argentino per il quale provavano grande simpatia, gli studenti che negli anni '1980 frequentavano i suoi corsi alla Libera Scuola di Sociologia e Politica di San Paolo (libero perché, esistente da prima dell'Università di San Paolo e degli organi federali del Ministero dell'Istruzione, che avrebbero imposto norme e regole a tutti gli istituti di istruzione superiore del paese, coltivava l'orgoglio di seguire il proprio orientamento) ricorderà molti anni dopo uno che è stata un'esperienza unica.

Con Horacio González hanno praticato un metodo da lui inventato, il Metodo Leopold Bloom, che consiste nel “camminare, osservare, ricordare”. La caratteristica principale del Metodo Leopold Bloom è che non è un metodo, proclamò il suo inventore, poco prima di portare i suoi studenti, letteralmente, per le strade, dove si dispersero negli angoli e nei nascondigli della città, raccogliendo impressioni in tutti i modi e con tutti i mezzi. Conservo ancora oggi (in attesa del momento di offrirlo finalmente a Horacio) un volume dei risultati di una giornata di applicazione di questo non-metodo, in cui la Chicago di Robert Park si è mescolata alla Dublino di James Joyce in un gioco di maliziose allusioni che in fondo si riferivano ad un'altra relazione, questa più seria, che ha dato senso all'opera di Horacio nel suo esilio brasiliano: Buenos Aires e San Paolo, due riferimenti di grande carica affettiva.

Secondo me fa parte della grandezza di Orazio non aver vacillato un attimo sul primato tra queste due sue amate città: non appena è stato possibile sospendere l'esilio che lo aveva portato in Brasile, ha agito in nome di un impegno che superava qualsiasi cosa gli potessero offrire i suoi amici e colleghi di San Paolo, e tornò in Argentina, il suo posto nel mondo, che meritava ed esigeva di riprendere in termini nuovi la vecchia militanza politica e culturale.

E quanto lavoro ha accumulato in quegli anni a casa! Non soddisfatto della sua presenza decisiva nel brillante team responsabile di un'impresa di dimensioni reali come la rivista El Ojo Mocho, Horacio pubblicò in questo periodo un'importante serie di libri. Libri che si rileggono con piacere dopo un decennio, tipo L'etica picaresca, 1994 (sottotitolato “segreto”: Pretesto e tragedia all'origine della politica), la cui fonte, già alquanto remota, è la tesi con la quale aveva vinto il titolo di dottore in Sociologia all'USP, nel raro caso in cui tutti pensavano che dovesse essere medico, tranne lui, refrattario come sempre fu al gioco di routine delle istituzioni.

Risultato occasionale di un mero lavoro accademico? No: il riferimento di fondo nel libro (sarebbe interessante esaminare in che misura è già presente nella tesi) è, come rivela Horacio all'ignaro lettore, la politica argentina, “anche se forse non se ne accorge”. C'è Horacio per intero, e su questo vorrei insistere. C'è un nocciolo duro negli scritti di Horacio: l'Argentina, in tutte le sue forme e metamorfosi. (Sarebbe troppo indiscreto ricordare che c'è un interlocutore costante, al quale libro dopo libro è dedicato, che lei ricambia con belle canzoni?).

Tuttavia, la rigogliosa proliferazione di riferimenti e di idee che appaiono come conversazione (il modello oraziano della produzione intellettuale, la “semplice gentile e generosa conversazione dell'amicizia”, secondo l'espressione di un autore che Orazio apprezza) richiede un particolare tipo di disciplina . nella lettura, per evitare una doppia perdita: quella che consiste nel perdersi in questa rete di rimandi e lasciarsi sfuggire il nocciolo dell'argomentazione, e la perdita maggiore che consiste nel rinunciare all'esperienza di seguire i fili di divagazioni apparentemente erratiche, ma che poi si rivelano essenziali al ragionamento.

Oppure, quel libro straordinario che è Rimane Pampean. Scienza, saggistica e politica nella cultura argentina del XX secolo, dove porta avanti, in grande stile, la ripresa del dibattito sulla condizione storica dell'Argentina, attraverso un filone tanto caro ad Orazio quanto figura pubblica dell'intellettuale. O anche allora Retorica e follia. Per una teoria della cultura argentina, quattro conferenze parigine tenute da questo incallito porteño, e un'altra ("Sull'idea della morte in Argentina") che, per la gioia dei suoi amici brasiliani, pronunciò a San Paolo, dopo aver esaminato all'USP la notevole tesi di dottorato di Eduardo Rinesi, le cui affinità oraziane si rivelano già nel titolo: Politica e tragedia.

In questo libro le allusioni non sono più giocattoli come nelle sue lezioni di San Paolo, anche se tutto è allusivo, sinuoso e sottile, come sempre. Si tratta nientemeno che di riflessioni orientate verso una teoria della cultura argentina, cosa che, lungi dall'esilio, non gli sarebbe venuto in mente di fare. Il ritorno in Argentina stava già provocando quello che si potrebbe definire il “paradosso dell'impegno”. Perché è proprio quando la lontananza fisica dell'esilio, con tutto il disagio personale che essa comporta, viene sostituita dalla prossimità fisica e dall'esigenza di riflessione e di schieramento, che diventa possibile il distanziamento, che è condizione della critica.

Tra questi due libri va evidenziato un saggio più ambizioso, La crisalide. Metamorfosi e dialettica. A questo punto, sospetto, si apre una nuova fase nella produzione intellettuale di Horacio. Per fortuna posso usare le vecchie scuse e dire che non è questa la sede, o che non c'è abbastanza spazio, o che manca il tempo necessario per sviluppare qui la questione, e limitarmi a lasciarla segnata.

L'idea è che il tema di metamorfosi esplicita una vecchia linea delle preoccupazioni di Orazio, e lo fa in un registro nuovo e più forte, che proietta in una nuova dimensione (anzi, in due, poiché è il rapporto teso tra metamorfosi, questo processo sempre mosso da rimandi estrinseci, e dialettica, governata da un dinamismo intrinseco, ciò che è in gioco) il suo grande tema nel periodo dell'esilio, che è quello del movimento, del cammino, della viaggiato – un'idea che non cessa di emergere, ma che ora appare come sublimata.

Metamorfosi e dialettica sono discusse in questo libro come modi di pensare, in un cambio di focus dal precedente registro più “sociologico”, che si concentrava sugli intellettuali e le loro situazioni, al registro “filosofico” dei modi di pensare come oggetto di studio Una riflessione che, però, non dimentica il sociale e il politico. Un passo in più, finalmente, nel grande progetto, mai enunciato in tutte le lettere (se non nel sottotitolo un po' ironico di retorica e follia), per produrre una teoria politica della cultura argentina, un progetto al quale esperienze come quella della notevole rivista culturale  El Ojo Mocho, e ora quello della Biblioteca Nazionale, oltre ai libri più “monografici” di Orazio, come Il filosofo uscente, su Macedonio Fernández, o politica e follia, su Roberto Arlt.

Ho parlato di libri dal contenuto più monografico. I tre che sono raccolti in questo volume, su Camus, su Marx e sulla Comune di Parigi, hanno questa caratteristica. Tra Marx e la Comune di Parigi è possibile stabilire una chiara continuità tematica (sebbene Horacio non sia un “marxista” quando legge la Comune). Accanto a loro c'è Camus, che costituisce una vecchia sfida per Horacio (come ricordiamo quando abbiamo avuto la fortuna di sentirlo parlare al piccolo e accogliente teatro Ágora, a San Paolo). C'è qualcosa di un'"etica picaresca" (e un accenno al "metodo Leopold Bloom") che si dispiega in tutto questo.

La questione elementare della mobilità e dei suoi contraccolpi è proiettata su grandi scenari storici nei casi di Marx e della Comune, e su una traiettoria esistenziale quando si parla di Camus. I percorsi che Horácio segue con delicati dettagli non sono lineari: sono più simili a meandri intersecati da anfratti dove convergono diverse correnti e producono diverse trasfigurazioni (per usare il termine che lui stesso usa alla fine della sua analisi della Comune), trasfigurazioni che a loro volta , incidono sullo stesso spazio storico in cui si svolge l'azione, mutando o fissando i volti dei personaggi, restringendo o dilatando il tempo degli eventi.

Certo, il grande tema della metamorfosi e del suo binomio, la dialettica, è già presente in questo. E c'è anche l'idea, che guida la geniale costruzione “cinematografica” del libro su Camus, che percorsi lineari (in questo caso quello dell'auto che trasporta Camus in un arco temporale di ora in ora) portino al disastro, perché prefigurano più che trasfigurare: provocare un destino, come scrive Orazio in altro contesto. È questa visione che gli permette, nel libro su Marx, una fine analisi di Il 18 brumaio, dove viene restituito il suo vero significato a quella famosa frase, dall'aspetto storicista ortodosso, secondo la quale "gli uomini fanno la loro storia, ma...", rivelando che tale significato risiede nell'idea, del tutto astoricista-conservatrice, della oppressione del passato sulle menti del passato di coloro che cercano di tracciare le proprie strade.

Per tutti questi motivi, l'edizione spagnola di questi tre libretti raccolti in questo volume costituisce un importante contributo alla conoscenza dell'opera di Horacio González, consentendo al lettore argentino di accedere ad alcuni dei brani più importanti della sua attività negli anni dell'esilio da São Paulo , quando il suo percorso è stato definito.

* Gabriel Cohn è professore emerito presso FFLCH-USP. Autore, tra gli altri libri, di Weber, Francoforte (Argento vivo).

Riferimento


Horacio González. Los asaltantes del cielo: politica ed emancipazione. Buenos Aires, Editoriale Gorla, 2006, 180 pagine.

 

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