da RICARDO FABBRININI*
Considerazioni dal libro di Georges Didi-Huberman
Georges Didi-Huberman ha pubblicato nel 2001, nel catalogo della mostra “Memorie dei campi: fotografie dei campi di concentramento e di sterminio nazisti (1933-1999)”, il saggio “Immagini nonostante tutto”. Lo spettacolo parigino ha suscitato virulente critiche, tra cui quella di Claude Lanzmann (2012), regista del documentario Shoah, del 1985, in cui ha condannato sia la mostra di filmati d'archivio dell'Olocausto sia questo saggio di Didi-Huberman.
Le sue critiche, così come quelle degli psicanalisti Gérard Wajcman ed Elisabeth Pagnoux, pubblicate nei mesi successivi su I tempi moderni (curato, all'epoca, da Lanzmann), spinse Didi-Huberman a scrivere un secondo saggio intitolato “Nonostante l'intera immagine”, che, aggiunto al primo, fu pubblicato in forma di libro, in Francia, nel 2004. Dieci anni dopo , l'autore è tornato, ancora una volta, sulla polemica generata dalla mostra “Memorie dei campi”, in un resoconto della sua visita al “Museo Statale Auschwitz-Birkenau”, in Polonia, intervallato da fotografie della sua paternità. (DIDI-HUBERMAN, 2017).
Em Immagini dopo tutto, Didi-Huberman (2020) indaga attentamente su quattro fotografie superstiti del crematorio V di Auschwitz-Birkenau, scattate nell'agosto 1944, la cui paternità è stata attribuita all'ebreo greco di Salonicco, Alberto Errera (precedentemente identificato come "Alex") un membro di Sonderkommando, come veniva chiamato il prigioniero ebreo incaricato di trasportare i prigionieri alle camere a gas – essendo essi stessi condannati a morte – e di depositare i loro cadaveri nelle fosse di incenerimento poste intorno al crematorio.
Oggi si ritiene che Alberto Errera, deportato ad Auschwitz-Birkenau nell'aprile del 1944, sia stato anche l'artefice di una rivolta, nell'ottobre dello stesso anno, con l'obiettivo di far saltare con la dinamite il Crematorio V, per favorire la fuga dei prigionieri. , che finì per essere massacrato, provocandone la morte. Le loro foto (i negativi) che venivano trafficate fuori dal campo all'interno di tubetti di dentifricio, – e che costituiscono le uniche testimonianze visive lasciate dai detenuti dell'esistenza delle camere a gas – furono pubblicate, insieme ai “Manoscritti delle Sonderkommando”, in “Voci sotto la cenere”, nel 2001, in Francia.[I]
Diverse sono le congetture sul modo in cui il fotografo clandestino Errera sarebbe riuscito a “tirare fuori”, nel bel mezzo dei lavori al Crematorio V, alcune immagini che avrebbero lo scopo di rendere pubblico l'accelerato processo di sterminio in corso, la cosiddetta “Soluzione Finale”. Sulla base della testimonianza di A Sonderkommando sopravvissuto sarebbe stato un operaio civile di Auschwitz-Birkenau che sarebbe riuscito a intrufolare, “nel doppio fondo di un recipiente da minestra”, una macchina fotografica, “probabilmente con un residuo di pellicola vergine” destinata ai membri della Sonderkommando. (DIDI-HUBERMAN, 2020, pag. 23).
Perché sarebbe necessario, nell'interpretazione di Didi-Huberman, (2020, p. 16; 22) “estrarre un'immagine da isso, Sebbene dissodare”, dando “una forma a questo inimmaginabile”, “a qualunque costo”, fosse anche la vita stessa del fotografo. Secondo queste congetture basate su testimonianze, questa operazione, che non avrebbe superato i venti minuti, e che ha portato a quattro foto, non avrebbe coinvolto solo Errera, ma i suoi compagni della Sonderkommando che, posizionati sul tetto del crematorio V, avrebbero “sorvegliato”, durante questa rischiosa operazione, le SS dalla guardiola posta accanto al filo spinato.
Non si sa con certezza quale sia stato il percorso di Errera, né la sequenza in cui ha scattato le quattro foto. Per alcuni autori, con la macchina fotografica nascosta negli abiti stessi o in qualche contenitore – cosa plausibile per il margine scuro presente nelle quattro fotografie, che indica l'esistenza di uno scudo alla luce – il fotografo avrebbe sparato due o più tre volte, mentre si dirigeva verso la fossa di incenerimento e solo allora, quando vi fu vicino, si voltò a guardare la facciata del crematorio (dove si trovano le camere a gas) – l'istante in cui avrebbe preso la sua ultima foto. Secondo altri autori, invece, il percorso sarebbe stato opposto, ovvero il fotografo si sarebbe posizionato all'inizio accanto alle fosse di incenerimento, quindi all'aperto, e, mirando alla facciata del crematorio, avrebbe ha sparato la macchina fotografica per la prima volta, per poi incamminarsi verso l'ingresso del crematorio, da dove, nascosto dall'ombra del suo interno, ha scattato di nascosto le altre tre foto.
Qualunque sia stato il percorso di Errera, tra la sua mano che guidava e sparava la telecamera nascosta e il suo sguardo, insieme determinato e timoroso che scrutava l'ambiente circostante, doveva esserci più che una coordinazione motoria, un rapporto di determinazione reciproca. Il suo corpo in azione, in mezzo agli altri prigionieri, e il terrore imposto dalle guardie configuravano uno stato di estrema tensione emotiva, situato sulla soglia della rottura, che queste foto dimostrano, se non meglio delle altre disponibili sul campo, in un molto vario. Le sue foto non mostrano l'espressione del suo volto, ma sono la parvenza della trama comunitaria in cui era coinvolto, quando viveva in pericolo vitale.
Nel racconto della sua visita al “Museo Statale di Auschwitz-Birkenau”, nel 2011, come dicevamo, Didi-Huberman fa notare che i curatori del museo hanno esposto tre delle quattro foto accanto alle rovine del Crematorio V, nel “ a forma di lapide”. campioni clandestini catturati da Errera, con note esplicative sulle condizioni in cui sarebbero stati prodotti. Ma cosa c'è da vedere, in fondo, in queste foto depositate sulle lapidi del “Museo di Auschwitz-Birkenau”? Dal punto di vista della rappresentazione è possibile riconoscere in due di essi, seppur da lontano, corpi ammassati, e dietro questi corpi, una densa spirale di fumo grigio derivante dalla loro cremazione, che sale verso un cielo bianco; e, inoltre, è possibile identificare dalle maiuscole, i membri del Sonderkommando trascinando i cadaveri dai mucchi ai fuochi. In una terza foto è anche possibile distinguere, con un certo sforzo, nell'angolo in basso a destra, prigionieri nudi, piccolissimi, rispetto alle altissime betulle e all'immenso cielo bianco che occupano due terzi dell'inquadratura, guidati alla camera a gas.




E la quarta foto (negativo no. 283 del “Museo statale di Auschwitz Birkenau”)? In tutti i suoi saggi sulle immagini della “Shoah”, Didi-Huberman esamina i motivi per cui questa foto è stata sempre elisa, non integrando nemmeno le lapidi del “Memorial do Museu”. Tale assenza deriverebbe, secondo l'autore, dal fatto più ampio che “in un mondo pieno, quasi soffocato, di merci immaginarie”, “abbiamo perso la capacità di guardare le immagini” in quanto, appunto, “meritano di essere viste ”. (DIDI-HUBERMAN, 2020, p.11). Questa impossibilità di rendere giustizia alle immagini conferendo loro l'aspetto che meritano sarebbe il risultato, in altre parole, dell'egemonia dei cliché nel mondo dei mass media e della rete digitale.
Nel racconto fotografico della sua visita al “Memorial do Museu”, Didi-Huberman (2017, p. 22) rileva che questa stereotipizzazione delle immagini, uno dei sintomi della mercificazione dell'immaginario, è visibile anche nella “museificazione di un evento storico”, come la “Shoah”. Nel “Museo Statale di Auschwitz Birkenau”, dove si trova il “Memoriale”, il “luogo della barbarie” per eccellenza, è diventato, secondo l'autore, suo malgrado o meno i suoi gestori, un “luogo di cultura”. (DIDI-HUBERMAN, 2017, p. 19). Basta osservare che interi capannoni del campo sono stati convertiti in spazi espositivi: “Ma che dire di quando Auschwitz deve essere dimenticato al suo posto, per costituirsi come un luogo fittizio destinato a ricordare Auschwitz?” (DIDI-HUBERMAN, 2017, p.25).
Questa museificazione risulterebbe evidente nell'inquadratura data alle tre immagini del Crematorio V, esposte sulle lapidi del “Memorial”, in quanto “decoupage” per rendere più suadente, o più leggibile, la “realtà che testimoniano”. (DIDI-HUBERMAN, 2017, p.80). A queste immagini è stata così conferita l'ortogonalità tipica delle fotografie convenzionali, attenuando le condizioni concrete ed eccezionali in cui sono state prodotte. In questo tentativo di rendere le due foto delle fosse di incenerimento documenti visivi attestanti il reale (o il referente), l'angolo obliquo che le rendeva possibili è stato sacrificato a favore di una verticalità convenzionale.
Anche la terza foto, in cui i prigionieri sembrano condotti alla camera a gas, è stata modificata alla ricerca di una maggiore chiarezza figurativa: un'altra correzione, sempre a favore della chiarezza, è stata il ritaglio e l'ingrandimento delle figure femminili, con l'eliminazione di parte del boschetto di betulle e l'ampio cielo che occupava l'area più vasta nel negativo originale. Le tre foto sono state incorniciate, cioè ritagliate, ingrandite, ritoccate insomma, soprattutto per essere utilizzate come convincenti testimonianze in sede giudiziaria, neutralizzando così il gesto fotografico di Errera.
L'attenzione di Didi-Huberman (2020, p. 40) è stata più volte rivolta alla quarta foto: “Ma che danno causerebbe poi questa quarta immagine, resa invisibile, alle altre tre?”. Non si possono ignorare le condizioni oggettive in cui questa quarta immagine è stata “scattata”, cioè. Senza l'accesso al mirino della macchina fotografica che gli permettesse di inquadrare la scena, o addirittura di regolare la messa a fuoco, visto che era mezzo coperto in qualche contenitore (come un secchio o una lattina), Errera, forse camminando, a rischio di morte, avrebbe sparato alla telecamera quasi alla cieca, incapace di anticipare l'immagine che sarebbe scaturita dal suo gesto. L'ipotesi di Didi-Huberman è che si trattasse di una foto esclusa dal “Museum Memorial” perché il suo curatore l'ha presa come “prova” dal fotografo che stava proprio controllando il funzionamento della macchina, mentre si muoveva nel campo, quando ha sparato. Si tratterebbe quindi di una foto cieca, in quanto non avrebbe nulla da “rivelarci”, se non l'elevato contrasto tra l'esplosione di luce nel terzo superiore e l'ombra nei terzi inferiori dell'inquadratura.
Questa foto è però, paradossalmente, per Didi-Huberman (2017, p.50), la piena testimonianza di quanto vissuto nella “Final Solution”, perché ci mostra che il fotografo doveva “nascondersi per vedere”, annullare stesso a testimoniare ciò che la pedagogia del curatore del “Memoriale”, curiosamente, “voleva farci dimenticare”. Da questa constatazione nasce la questione, quindi, che è sapere se sia necessario ricorrere sempre alla leggibilità del referente, o alla funzione di rappresentazione di una data foto, per legittimare una testimonianza. In ogni caso, è da notare che questa quarta foto ha una funzione referenziale (seppur residuale), soprattutto se esposta accanto alle altre tre, dato che è possibile assumere l'ombra che domina l'inquadratura come la facciata del Crematorio V, il quale ha il suo tetto nella linea obliqua ascendente che lo attraversa, e sopra quello, a destra, i rami delle betulle che lo ombreggiano; e in alto a sinistra, il cielo di un bianco accecante.
In ogni caso, in questa foto è essenzialmente il gesto fotografico, e non il carattere di rappresentazione del vero dire che opera come testimone dell'orrore vissuto ad Auschwitz-Birkenau. Del resto è il gesto del fotografo del Sonderkommando investita del più intenso senso emotivo, che attribuisce all'immagine un carattere indessicale che opera efficacemente come testimonianza. Sarebbe in assenza di qualsiasi montaggio (all'interno di un fotogramma), cambio di messa a fuoco o controllo della luce, che questa foto attesterebbe, più di ogni altra, le reali condizioni di estremo pericolo e coraggio a cui sono stati sottoposti non solo il fotografo, ma anche gli altri coinvolti in questa operazione di rischio sfrenato.
In questa foto la testimonianza si manifesta in modo sorprendente nello strappo del referente. È in ciò che appare velato nell'immagine che risiede il suo contenuto di esperienza. Se è più astratta che figurativa, è perché testimonia un “atto disperato” del fotografo: è un gesto di rivolta che mette in luce, nell'opacità del bianco e del nero, ciò che è “l'essenziale della realtà” in Auschwitz-Birkenau, ovvero: la paura della morte imminente vissuta non solo dalle donne che vengono condotte alle camere a gas (nella terza foto), ma dal fotografo e dai suoi compagni della Sonderkommando che, trasformando il “lavoro umile” infernale in “lavoro di resistenza”, si è assunto il compito di assistere al mondo lo sterminio nazista. (DIDI-HUBERMAN, 2017, p.56). Sono foto che “testimoniano la quasi impossibilità di assistere [all'orrore] in quel preciso momento della storia”. (DIDI-HUBERMAN, 2020, p.256).
La critica scatenata da questi saggi di Didi-Hubernan (2017b), nonché la sua successiva curatela della mostra “Levantes” presentata al Jeu de Paume, a Parigi, nel 2016, e, in versione ridotta, a Buenos Aires e San Paolo, nel 2017, in cui ha esposto queste quattro fotografie nella loro dimensione originale di 6cm x 6cm, tipica della macchina fotografica Leica, e senza alcuna cornice sono il risultato del suo rifiuto dei “metafisici dell'olocausto”, cioè di coloro che assumevano la camera a gas come “luogo per eccellenza dell'assenza di testimonianza”. (DIDI-HUBERMAN, 2020, p.114). Va ricordato che Lanzmann, Wajcman e Pagnoux, tra gli altri, difesero con veemenza l'impossibilità di rappresentare le camere a gas, sia con le parole che con le immagini, per l'estremo orrore che vi si svolgeva.
Rivestite di un mistero insondabile, erano viste come qualcosa di “indicibile”, “infigurabile” o “inimmaginabile”, in modo tale che ogni tentativo di configurarle sarebbe una falsificazione, o un tradimento del dolore lì vissuto, per concessione all'estetizzazione... Reagendo a questa posizione, Didi-Huberman. (2020, p. 125; 222) sostenevano, polemicamente, però, che ritenerli inimmaginabili sarebbe stato un altro modo di realizzare lo stesso intento dei responsabili dello sterminio, poiché volevano che rimanessero anche invisibili agli occhi del mondo internazionale comunità. Basti ricordare, a questo proposito, la criminale distruzione, alla fine della seconda guerra mondiale, delle prove dei delitti, compresi documenti, fotografie, e gli stessi crematori.
Se questo “qualcosa” è inimmaginabile, è necessario proprio per questo “immaginarlo nonostante tutto”, ribadisce Didi-Huberman. Il lavoro speculativo è inseparabile, nell'autore, dall'attività immaginativa, il che significa che per conoscere e pensare occorre immaginare dal sensibile. (2020, pag. 171). Non si può dire che non ci sia nulla da immaginare in queste foto di Errera perché in esse non c'è nulla da vedere (a prima vista). Salvaguardando queste fotografie dall'oblio, l'autore non mira a conservare una rappresentazione oggettiva dell'estremo del dolore, ma a sapere “qualcosa almeno”, un “minimo”, “tutto il possibile” per sapere su di esso, cosa è successo in il luogo in cui è avvenuto il dolore. (DIDI-HUBERMAN, 2017, p. 93).
Se questo fotografo clandestino puntasse la sua macchina fotografica sull'“inimmaginabile”, il semplice fatto di mirarlo sarebbe già un modo per confutare l'impossibilità di immaginarlo. È vero che da una fotografia non ci si deve nemmeno aspettare tutto, cioè che mostri tutto (“Ora è così!”) o, nei termini di Roland Barthes (1984): “Era così!” (“Ça-a-été”), e tutto ciò che era è qui attribuito a quello; né ci si deve aspettare niente da lei, assolutamente niente (“No, non è così!”) non perché ciò non sia accaduto, come direbbero i negazionisti, tutt'altro, ma perché ciò che è accaduto sarebbe accaduto in un tale modo che sarebbe “inimmaginabile”, come difeso dai critici di Didi-Huberman (2017, p.40). Per l'autore, però, alle immagini a volte si chiede troppo, a volte troppo poco, perché a volte si crede che dicano tutta la verità, altre volte invece che siano documenti incapaci di testimoniare la realtà, quando in realtà lo sono sempre imprecisi o incompleti, motivo per cui richiedono l'esercizio dell'immaginazione da ciò che mostrano.
L'inimmaginabile che si deve immaginare, cioè il vissuto del dolore di Alberto Errera, si manifesta meno nell'aspetto iconico o referenziale delle sue foto, e più nel loro carattere indessicale o causalità sensoriale tra la paura di perdere la vita nell'istante di pericolo, e le immagini con zone d'ombra, spigolose e tremolanti, stampate con sali d'argento su pellicola fotochimica. Il valore delle foto non starebbe dunque, solo nella documentazione dei fatti (o nella fissazione di un referente), ma soprattutto nell'“emozione” indicata nella loro forma. Reagendo all'inquadratura delle foto e all'affermazione che nella quarta foto non si sarebbe visto nulla, poiché questo sarebbe solo il resto di un negativo perduto o di una "prova di contatto" cieca, Didi-Huberman (2020, p. 86) evidenzia che rivelano il “puro gesto” di insurrezione del fotografo.
Bisognerebbe “dissacrare” ciò che si ritiene inimmaginabile, rendendo pubbliche non solo le “immagini tecniche” del funzionamento del campo rinvenute dopo la fine della seconda guerra mondiale, ma anche le foto delle camere a gas prodotte da Errera, consentendo così a tutti immaginare, da loro, la vita ad Auschwitz-Birkenau. Didi-Huberman si avvicina, qui, alla critica della società del controllo di Giorgio Agamben (2007), difendendo la necessità di restituire al pubblico, alla comunità dei cittadini, immagini dimenticate o censurate (o mantenute private).
Questa è anche la posizione, vale la pena ricordare, del cineasta tedesco Harum Farocki, i cui film sono montaggi di immagini raccolte da archivi visivi, fino ad allora tenuti riservati, che testimoniano le strategie di potere di istituzioni pubbliche o aziende private. Harum Farocki si appropria di questi film operativi per restituirli ai loro veri proprietari dopo un attento lavoro di montaggio. Mostra, in altre parole, che le “immagini tecniche” come le fotografie aeree di Auschwitz ottenute dai bombardamenti nordamericani nel 1944, ma rimaste dimenticate o segrete fino al 1977, o ancora, le immagini dei sistemi di sorveglianza in carceri – costituiscono un “bene comune”. Restituirle alla comunità significherebbe – come dice Didi-Huberman (2015, p. 212) a proposito di Farocki – che queste immagini di orrore ci riguardano perché fanno parte del nostro “patrimonio comune”.
Harum Farocki, in altre parole, salva le immagini dall'oblio; li emancipa concedendo loro la sopravvivenza. È questo processo di restituzione di immagini funzionali o di uso tecnico – così come le immagini di “rivolte”, esposte da Didi-Huberman (2017b) – al “libero uso degli uomini”, che Giorgio Agamben (2007, p.79 ) chiama “profanazione”: “Ecco perché è importante ogni volta strappare ai dispositivi – a tutti i dispositivi – la possibilità d'uso che hanno catturato.
La profanazione dell'improfanabile è il compito politico della prossima generazione”. Farocki è caratterizzato da Didi-Huberman (2015, p. 222) come un archeologo che interroga “il sottosuolo della storia delle immagini” senza affermare il suo stile personale, cioè senza farsi prendere dal “pathos apocalittico”. Nei suoi film invece, nonostante il montaggio delle immagini, l'autorialità è sostituita da una “voce neutra”, in terza persona, “impersonale”, come soggetto di enunciazione collettiva, insomma: “Tale era il prezzo 'artistico' a pagare perché le immagini del mondo distopico, della guerra e delle carceri, vengano restituite non come “luoghi comuni” (o luoghi comuni), “ma come luogo comune””. (DIDI-HUBERMAN, 2015, p. 223). È in questo senso che dovrebbero venire alla luce le quattro foto di Errera, anche perché “fanno del dolore, e quindi della storia e delle emozioni che l'accompagnano, un nostro bene comune”. (DIDI-HUBERMAN, 2021, p178). Nulla autorizza nessuno, è bene notare, a considerarsi proprietario esclusivo del dolore, perché identificarsi con esso, a dispetto degli altri, significherebbe squalificare gli altri dolori del mondo.
Queste quattro fotografie strappano il cliché derivante dalla feticizzazione dell'estetismo dalla memoria dell'Olocausto. Sono diverse, del resto, come sappiamo, le produzioni cinematografiche sui campi di concentramento, tra le quali, le miniserie televisive Olocausto, prodotto dall'emittente americana NBC nel 1978, diretto da Marvin J. Chomsky; O campione d'incassi la lista di Schindler, di Steven Spielberg, del 1983; La vita è bella, dell'italiano Roberto Benigni, del 1997; È figlio di Saulo, dell'ungherese László Nemes, del 2015. Quest'ultimo film, però, che romanzava la rivolta dei prigionieri e la produzione delle quattro foto nel Crematorio V, a differenza degli altri, è stato elogiato da Didi-Huberman in una lettera personale indirizzata al suo direttore. In quella lettera, poi pubblicata nel libro Sortir du Noir (“Out of the Darkness”), sempre nel 2015, l'autore si congratula con László Nemes per aver tolto questo episodio (e le camere a gas) dal “buco nero” in cui si trovavano, respingendo la tesi dell'impossibilità della loro “ rappresentazione” (DIDI-HUBERMAN, 2015, p.15). [Ii]
In questi film, così come nel fotogiornalismo di Sebastião Salgado o Don McCullin, tra gli altri, le scene che ci fanno orrore, che ci terrorizzano sono “belle immagini”, tecnicamente molto ben realizzate, con “splendide inquadrature” e luci impeccabili. (GALARD, 2012, p. 111). Sono “immagini mirabili” di “realtà inquietanti”, “immagini belle di scene rivoltanti” come se, in questi casi, si permettesse alla bellezza di “approfittare della sofferenza”. (GALARD, 2012, p. 151). Sono immagini che “pericolosamente” offuscano i “limiti del disonore e della bellezza”. (GALARD, 2012, p. 18). Alcuni autori affermano, come Jean Galard (2012, p.17), che in queste “immagini la bellezza si combina troppo con il dolore”.
Nelle immagini della “Shoah” così come negli innumerevoli reportage fotografici di tragedie umane o catastrofi naturali, ciò che colpisce soprattutto lo sguardo dell'osservatore non è esattamente il tema, né la testimonianza, ma il modo in cui queste immagini sono state prodotte, cioè “l'estetismo invasivo, che anestetizzando la realtà rende l'orrore accettabile, osservabile”. (GALARD, 2021, p.29). Sono immagini che sprigionano un'emozione diretta, senza mediazioni: un piacere sensibile, immediato e sentimentale. Questo abuso di bellezza che rende lo spettatore ostaggio della sua fascinazione per l'immagine gli fa dimenticare che c'è qualcosa al di fuori dell'inquadratura, nel controcampo, cioè: l'ambiente o il cosiddetto “reale”.
Lo sguardo estetico che ci lega all'immagine, per quanto terribile possa essere, è possibile solo, in pittura o al cinema, perché la “realtà”, in questi casi, è costruita (o “figurativa”), il che significa che è dato. , qui, come assente, attraverso un mezzo che opera apparentemente come mediazione (o medio). (GALARD, 2012, p. 47-58). Sono tecniche, o mediazioni del linguaggio, che permettono allo spettatore di non distogliere lo sguardo dall'orrore in opere di “conturbante bellezza”, come La piccola crocifissione (1470) di Matihias Grunewald, I disastri della guerra (1810-1815) di Francesco Goya, o Guernica (1937) di Pablo Picasso.
D'altra parte, alle foto di Alberto Errera non va attribuita alcuna “intenzione artistica”, né l'osservatore deve aspettarsi uno “sguardo estetico” dall'osservatore, perché sarebbe addirittura “aberrante, o sciocco”, presumere che ciò accada , quando l'orrore viene regalato. (GALARD, p.28). Vale la pena ricordare che per Barthes (1984, p.15) “una foto porta sempre il suo referente”, il che vuol dire che ne è letteralmente la “emanazione”; ovvero, mentre altre immagini sono il risultato del modo in cui il loro oggetto è figurato o simulato, la fotografia si annulla come medium “finché non aderisce a ciò che rappresenta” (BARTHES, 1984, p.73). È in questo senso che la fotografia, per Roland Barthes (1984, p. 127), non solo rimanda alla realtà, ma è il “marchio meccanico di ciò che è accaduto” (“That was”!); Ecco perché alla foto della vera sofferenza non viene data la stessa veste estetica che si dà alla “bellezza difficile” di un'opera d'arte, o alla “bellezza eccessiva” di un'immagine spettacolare. (GALARD, 2021, p. 146).
Occorre però accogliere con riserva l'affermazione di Roland Barthes, secondo la quale la fotografia aderisce pienamente al referente, cioè che, in essa, “il messaggio è il codice”, come già avvertito, tra gli altri, da Vilém Flusser (1985 , p.25) affermando che ci sarà sempre un livello di astrazione o di formalizzazione nell'immagine fotografica, poiché essa è il risultato di un “dispositivo” (il programma della fotocamera) o, nei termini molto caratteristici dell'autore, del “codificatore scatola nera di processo”. Si può dire, però, che ognuna delle quattro foto di Errera sia il risultato di un rapporto conflittuale tra “collaborazione e combattimento” tra il fotografo e l'apparato, nei termini di Vilém Flusser (1985, p.38), de in tale un modo in cui, di fronte al misframing delle sue fotografie, l'osservatore può chiedersi se sia stato il dispositivo ad appropriarsi dell'intenzione del fotografo, dirottandola verso gli scopi programmati, o se sia stato il fotografo ad appropriarsi dell'intenzione del dispositivo sottoponendola alla propria Intenzione. Mentre nelle immagini cliché il dispositivo devia gli scopi del fotografo verso i loro scopi programmati, tra i quali prevale una certa inquadratura, nel caso di Errera, la sua intenzione di fotografare al buio con la macchina fotografica parzialmente coperta nella quasi impossibilità di guardarsi intorno intento di codifica del dispositivo. Il suo gesto fotografico è, in altre parole, il suo gioco contro il programma fotografico.
Sono state, del resto, le scelte di emergenza adottate dal fotografo nel tentativo di assistere ai crematori, a determinare l'uscita dell'immagine dall'inquadratura (una posizione assunta). Manifesta la testimonianza disperata che esige dall'osservatore un “atto del vedere altrettanto disobbediente”. (BUTLER, 2015, p.105). Se queste foto vengono "catturate" da un membro del Sonderkommando sono più testimoniali degli altri è perché in loro, il testimone (testicolo), non si presenta “come terzo (terzili) in una causa o in una lite tra due contendenti”, come le foto ottenute dai sovietici al momento della liberazione dei campi, ma come testimone (superstiti) "qualcuno che ha vissuto qualcosa, che ha attraversato fino in fondo un evento e può quindi testimoniarlo”. (AGAMBEN, 2008, p.27). Queste foto (testimonianze superstiti) “ci insegnano a vedere le cose dal punto di vista del conflitto”, da un agonista. (DIDI-HUBERMAN, 2017, p.61). Ed è attraverso «questo sguardo – un interrogarsi di questo tipo – che vediamo che le cose cominciano a guardarci dai loro spazi sepolti e dai loro tempi fatiscenti» (DIDI-HUBERMAN, 2017, p. 61). Ecco perché, davanti alle foto del Crematorio V sulle lapidi del “Museo Memoriale”, l'osservatore stesso “cade” per l'emozione. (DIDI-HUBERMAN, 1998, p.71).
Si può dire che nelle foto spettacolari la bellezza abusiva approfitti della sofferenza fino a neutralizzarla esasperando il valore espositivo dell'immagine, mentre nelle foto testimoniali del Sonderkommando l'orrore è mostrato in presentia, non per l'assenza di codici perché quelli sono ineliminabili, ma per il gioco straziante che il fotografo gioca con il dispositivo. È vero che molte immagini fotogiornalistiche di guerra o calamità naturali, o anche attacchi politici, ribellioni o repressioni, vengono catturate in fretta e furia in situazioni in cui il fotografo mette in pericolo la propria vita.
In questi casi spesso non si intende produrre immagini belle, ben inquadrate, accuratamente contrastate, ma piuttosto immagini imperfette, precarie, sfocate o poco illuminate finalizzate proprio a produrre un “effetto reale”. Il fatto che un fotoreporter lo sia in presentia dell'orrore, però, non lo rende partecipe di un conflitto o vittima di una tragedia, per quanto le sue foto mirino a testimoniarli, perché sarà sempre un terzo (terzili), sia tra due eserciti, sia tra le vittime di una catastrofe, e non un “testimone” (superstiti).
Per questo le quattro foto testimonial di Errera (superstiti) risvegliano nell'osservatore, a differenza degli altri, una pulsione scopica, un vagabondaggio o nomadismo dello sguardo che è spinto a muoversi, incessantemente, dalla rappresentazione di oggetti (icone), tronchi, il cielo, il fumo, la facciata del crematorio, sia pure più o meno figurato, più o meno velato, all'indice (alla presenza di un'assenza), cioè al punto di ognuna di queste foto: “quello che c'è dentro mi punge (ma anche mi mortifica, mi ferisce)”: la sua mancata corrispondenza. (BARTHES, 1984, p. 46). Queste foto producono così un effetto dirompente, una sorta di follia dello sguardo, che circola tra la forza “patica” del punto e l'aspetto informativo dello “studium” (o della sua dimensione referenziale). (BARTHES, 1984, p. 48). Tuo punto (o gesto fotografico de Errera) è un lampo nel buio che, indicando un incontro con il “reale”, mette in luce l'esperienza del fotografo che era effettivamente lì, assolutamente, inconfutabilmente presente, nel crematorio V.
Queste foto che aprono alla “realtà intrattabile” sono capaci di disorganizzare lo sguardo dell'osservatore, a differenza delle immagini comodamente addolcite che diluiscono il punto no studium, rafforzano solo l'immaginario del buon gusto. (BARTHES, 1984, p.175). Il suo carattere di “controtransfert” – non “ciò che vediamo, ma ciò che ci guarda”, secondo l'espressione di Didi-Huberman – prende forma, in fruizione, come “immagine-ritorno”. (DIDI-HUBERMAN, 1998, p. 79). Così come “chi è visto o crede di essere visto, guarda indietro”, vedere cosa c'è in queste foto significa “investirli del potere di guardare indietro” (BENJAMIN, 1989, p.140); poiché “questo che c'è”, “c'è”, in esso (nella foto) si svolge, come presenza di fronte all'osservatore, “vicino a lui” e anche, in un certo senso, “in lui”: “un'immagine fluttuante, rimandata”, un tumulto silenzioso, che permea la sua immaginazione, permettendogli di immaginare ciò che è considerato, da alcuni, inimmaginabile. (DUBOIS, 1994, p. 191; 325).
Se nella realizzazione di queste foto, nel passaggio dal Crematorio V alle fosse di incenerimento, per poi tornare al punto di partenza, Errera si è sentita sicuramente osservata dalle guardie del campo, e guardata con apprensione dagli altri membri della Sonderkommando che hanno accompagnato l'operazione con l'obiettivo di dargli protezione – come se tutti ricambiassero lo sguardo che lui evitava di dar loro – ora, nell'atto del godimento, l'osservatore che guarda le foto, riceve da loro la ricompensa dello sguardo che ha investe in essi.
Queste foto contengono barbarie o orrore nell'immanenza della loro forma. Non solo la sofferenza, però, trova in essi la sua forma di espressione (non inquadratura), ma anche la sua negazione. Le foto durante la messa in onda del pathos attivano l'immaginazione e forza il pensiero. In esse non c'è opposizione, presupposta da Barthes o da Brecht, tra emozione e distacco (alienazione), tra pathos e loghi, né la convinzione che l'affetto impedisca il "pensiero critico". (DIDI-HUBERMAN, 2021, p. 85). Rendono possibile, al contrario, passare dallo sguardo, dalla sofferenza al conoscere o immaginare.
Le sue zone di indiscernibilità, o indistinzione, come le superfici nere, bianche e grigie, che spostano lo sguardo all'infinito, dall'icona all'indice, e da questo all'indice, non operano come interdizione, ma, al contrario, è ciò che permette l'incontro che guarda con orrore in presentia. La zona di opacità dell'immagine non è, quindi, un punto cieco che blocca l'occhio, come vorrebbero i difensori dell'impossibilità di immaginare la “Soluzione Finale”, ma, al contrario, è proprio ciò che permette di vedere e Sapere qualunque altra cosa su quello che è successo lì. È il segno visibile del gesto di Errera che ha convertito l'iniziale passività (da prigioniero nel campo) in un'impasse esistenziale e politica ("Cosa fare?"), che, a sua volta, è stata superata nell'atto fotografico che mirava a rendere pubblico lo sterminio nazista in corso.
Questa opacità dell'immagine è sintomo di sofferenza, del limite (insopportabile) del dolore, ma anche della sua potenza, ovvero della possibilità che in esso risiede di passare dall'affetto (o emozione) all'azione trasformatrice nel mondo. Il presupposto qui, contrariamente a un topos della tradizione filosofica, è che il potere di essere influenzato (pathos) non significa necessariamente passività, in quanto può implicare anche “affettività, sensibilità o sensazione” come mostrato, tra gli altri, da Gilles Deleuze (2017, p.144), dato che “il dolore può trasformarsi in desiderio, gli impotenti in possibilità, e passione” in rivolta; sottolineando che queste foto non sono la semplice documentazione di una rivolta, in quanto esse stesse costituiscono una rivolta. (DIDI-HUBERMAN, 2021, p.192).
Le foto di Alberto Errera sono immagini struggenti. Se le sue foto commuovono, è perché mostrano il gesto insurrezionale di un soggetto emotivo. L'emozione è presente sia nella produzione della foto, nel pathos dell'atto fotografico registrato nel punto, come nella sua fruizione da parte dell'osservatore. In entrambi i casi, “l'emozione non dice io”, perché “non è dell'“ordine dell'io, ma dell'evento” [o dell'intensità dell'affetto]: “È molto difficile cogliere un evento, ma non credo che questa apprensione coinvolga la prima persona”, afferma Deleuze. (2016, p.194).
È in questo senso che l'emozione trasmessa dalle foto di Errera, che uniscono unicità e collettività, istituiscono nel momento stesso in cui vengono prodotte (nell'"atto fotografico"), una comunità - composta non solo da detenuti del campo, ma da "un essere chiunque” non nel senso che chi vi partecipa è indifferente, ma nel senso che “chi vi partecipa, chiunque sia, chiunque sia, o qualunque cosa sia, non è indifferente verso gli altri suoi partecipanti” – come diceva Agamben vuole (1994, p.64-68).
Allo stesso modo, la fruizione di queste foto da parte di chi le guarda e ne è colpito può costituirsi come un'emozione che articola una dimensione collettiva (in direzione di una rivolta). Liberandosi dalle trappole soggettiviste (“l'emozione che dice io”), le foto aprirebbero le emozioni ad altre forme sociali oa nuove “partizioni del sensibile”. (RANCIÈRE, 2005). Dimostrerebbero che “nel potere di essere influenzato [pathos] c'è la possibilità di una svolta emancipatrice”, attraverso il rovesciamento della disperazione in “desiderio, che è di natura rivoluzionaria”. (DIDI-HUBERMAN, 2021, p. 69). Come l'utente è mobilitato dal pathos è possibile ipotizzare che la sua capacità di essere influenzato diventi, nel processo di fruizione, un potere di trasformazione; cioè; che il “gesto patetico” di Errera diventa “potere di agire” (in praxis).
D'altra parte, nella società dello spettacolo, nel mondo dei mass media e della rete digitale, le emozioni sono state sopravvalutate perché hanno acquisito valore di scambio, diventando merce. La società dell'ipervisibilità, ovvero l'eccesso di immagini molto intense dal punto di vista sensoriale, ma vuote dal punto di vista dell'esperienza vivida, sia individuale che storica, ha istituito un mercato di emozioni fungibili. Questa feticizzazione delle emozioni è visibile nel “mercato del grido” delle immagini cliché, tipiche delle serie televisive, dei talk show e del fotogiornalismo catastrofale che “isterizzano la sofferenza”. (DIDI-HUBERMAN, 2021, p. 84).
Se la fruizione di immagini struggenti è segnata dall'esperienza simultanea dell'estetico e del politico, dell'emotivo e del collettivo, il consumo di immagini lacrimose (o lamentose) che commuovono immediatamente l'osservatore, provoca un facile sentimentalismo, uno stato di immobilità che riafferma narcisisticamente la realtà data. Questa commozione messa in scena dalla “superindustria dell'immaginario” attraverso la bellezza abusiva, che spesso innesca un effetto di contagio o di mimetismo, è in realtà un sintomo della contemporanea perdita di emozioni tragiche, che sono politiche e quindi collettive. (BUCCI, 2021).
Questa commozione drammatizzata veicolata anche nelle immagini delle catastrofi manifesta l'impossibilità di vivere insieme pathos lutto, che, in fondo, appartiene a tutti. Tra le modalità di inquadratura delle foto shock e dei film sensazionalistici sui campi di concentramento, non ci sono solo l'esacerbazione stereotipata di un gesto, l'accelerazione vertiginosa del montaggio con effetti virtuosistici o pirotecnici, nella tecnologia alta tecnologia, ma anche nella “accentuazione enfatico-decorativa” del dolore per renderlo visibile. (DIDI-HUBERMAN, 2017, p.95).
Per celebrare il settantacinquesimo anniversario della liberazione del campo di Auschwitz-Birkenau da parte dei sovietici il 27 gennaio 1945, il “Museum Memorial” autorizzò una selezione di una trentina di foto, tra le trentottomila prodotte tra il 1941 e il 1945 furono colorato dal fotografo britannico Tom Marshall e dall'artista brasiliana Marina Amaral. Il processo di colorazione di queste foto, che è stato realizzato interamente in photoshop (in una ricaduta, in versione digitale, del pittorialismo di fine Ottocento) con “accurata precisione e toni realistici [o, meglio, iperrealisti]”, avrebbe lo scopo, nelle intenzioni dei coloristi, “di dare vita al passato”, “mostrando i prigionieri come veri esseri umani”. (AMARAL apud KOKAY, 2018). L'intenzione di Amaral nel colorare queste foto era di "umanizzarle" in modo che, da quel momento in poi, potessero "raccontare la sua storia". (AMARAL apud KOKAY, 2018).
Le sue scelte sono state guidate dal grado di nitidezza delle foto, poiché quelle con la risoluzione più alta sono le più favorevoli alla ricostruzione digitale, e anche dal presupposto dell'“impatto visivo” che ognuna di esse avrebbe provocato sul pubblico, principalmente, “sulle giovani generazioni”. (KOKAY, 2018). Attraverso il colore, “le persone si sarebbero avvicinate alla realtà del passato” […] “portando all'oggi il senso lontano che il bianco e nero delle immagini suggeriva”: “Volevo dare alle persone l'opportunità di entrare in contatto con le vittime in a livello emotivo, in un modo forse impossibile se li vediamo in bianco e nero, a rappresentare qualcosa di antico, un evento storico accaduto tanti anni fa”. (AMARAL apud KOKAY, 2018).
Con il colore, inoltre, non avrebbe lo scopo di alleviare il dolore? Con l'argomento di facilitare l'accesso alla storia, nella colorazione delle foto dell'archivio di Auschwitz-Birkenau, il passato è stato “frettolosamente” colorato per “renderlo più vivo”, conferma Didi-Huberman (2017, p. 100). Questa colorazione spettacolare è un sintomo del legame tra la bellezza esorbitante (e lo "stravagante edonismo estetico") e la struttura del capitalismo aziendale della sfera dei dati e big-tech. (JAMESON, 2006, p. 216). Questi ritratti riformulati dal pittorialismo dei pixel che li priva della loro dimensione testimoniale finiscono così, in larga misura, neutralizzati nell'immensa noia mondiale delle immagini cliché sullo “Schermo Totale” (BAUDRILLARD, 2005).
Questa esaltazione, che attira l'attenzione dello spettatore sul virtuosismo della colorazione, distoglie lo sguardo dalle dimensioni referenziali e indicali dell'immagine. Le struggenti foto dei detenuti, un tempo sottoposti alla cosmetica digitale che li priva pathos, diventano immagini pseudostoriche, sommesse o regressive, facilmente spostabili. La ricerca di più realtà attraverso la colorazione per renderle più reali del reale finisce per produrre, in un apparente paradosso, la derealizzazione del reale, cioè la cancellazione del senso e della storia (del referente). In direzione opposta all'empatia fugace, in cui lo sguardo imprigiona l'oggetto, fonte di piacere sensoriale e di godimento narcisistico (“Soffro davanti a queste immagini perché sono sensibile alle tragedie o alle ingiustizie della vita e questa emozione appartiene solo a me ”, come si dice di solito). pensa), è possibile assumere, come abbiamo cercato di mostrare sopra, che di fronte a pathos veicolato nelle quattro foto, lo spettatore, eludendo le convenzioni dello sguardo, attiva l'immaginazione e forza il suo pensiero nel tentativo di comprendere il gesto fotografico di Errera, al tempo stesso singolarissimo, perché vissuto in termini concreti nella storia, e generico perché relativo alla “comunità umana”. (“Soffro davanti a queste immagini perché capisco 'lo stato di emozione degli altri', di ciò che è 'fuori di me', “fuori di me”, perché questo stato riguarda l'umanità del dolore nella sua condivisione”). (DIDI-HUBERMAN, 2021, p. 196).
È necessario immaginare, nonostante tutto, l'orrore del campo di Auschwitz-Birkenau e non prenderlo come irrappresentabile o incomprensibile. Le foto di Alberto Errera non sono semplici rappresentazioni del Crematorio V, immerso nell'ombra, o delle fosse di incenerimento nei suoi dintorni, ma una testimonianza viva che mostra l'orrore vissuto lì, così come l'affermazione della vita, attraverso il suo gesto fotografico, come negazione di questo orrore. La forza della resistenza alla barbarie nasce, secondo Didi-Huberman, qui vicino ad Adorno, dalla volontà di “capire anche l'incomprensibile”. (ADORNO, 1995, p.46).
Assumere l'inimmaginabile è cedere all'incantesimo dell'oblio che, rafforzando le tendenze totalitarie, può portare alla ripetizione della barbarie. L'“incomprensibile”, situato in un “trascendente oltre l'umano”, postulato dalla “metafisica dell'olocausto”, va scrutato, mostrato, esplicitate le sue molteplici cause: “Il pericolo che tutto accada di nuovo è che non si ammette il contatto con la questione rifiutando anche chi ne fa solo accenno, come se, così facendo senza giri di parole, diventassero loro i responsabili, e non i veri colpevoli”. (ADORNO, 1995, p.125). Oltre alla deliberata politica di cancellazione dell'orrore, e persino di cancellazione della stessa cancellazione, come spesso accade nei regimi totalitari, si è verificata non di rado un'altra forma di sua negazione: la cancellazione parziale e involontaria, attraverso la riformulazione, o addirittura lo scarto di un'immagine considerata nullo.
Em Immagini dopo tutto, testo da cui partiamo, Didi-Huberman (2020, p.96) si è dedicato a “guardare da vicino” le quattro fotografie di Alberto Errera” “con l'obiettivo di tratteggiarne la fenomenologia” con lo scopo di “situare il loro contenuto storico” , per evidenziarne il “valore inquietante per il pensiero”. Per farlo è necessario rompere la cornice di un'immagine, cercando ciò che è fuori dalla cornice, in base a ciò che vi è incriminato; il che è possibile solo attraverso l'attività dell'immaginazione che è considerata dall'autore “la facoltà politica e critica per eccellenza” capace di “restituire tutta la potenza alle emozioni” investite in ogni immagine “da ciò che la storia ci presenta”, sempre, "davanti agli occhi". (DIDI-HUBERMAN, 2021, p.89).
È necessario indagare il significato delle nostre immagini, che appartengono a tutti. Alla tua domanda: “Ma cosa ci si può aspettare da un'immagine?”, dopo averla letta, si può rispondere, a mio avviso, con un'altra domanda: “Cosa si aspetta da noi, in fondo, ogni immagine, considerata nella sua unicità? ”. Solo allora sarà possibile rendere giustizia al gesto fotografico di Errera. La sua descrizione e interpretazione delle foto sulle lapidi del “Museo della memoria” di Auschwitz-Birkenau mostra che “il modo in cui si guarda e si comprende un'immagine” è necessariamente un “gesto politico”. (DIDI-HUBERMAN, 2017, p.106). Il suo lavoro di guardare la zona di opacità delle foto che allo stesso tempo effettuano il distanziamento (cancellando la loro funzione referenziale) e pathos non solo fa luce sull'eroicità del gesto di Errera, al centro dell'Olocausto, ma mette anche in luce la forza del desiderio necessaria per una rivolta.
Scattare quattro fotografie nell'area del crematorio V di Auschwitz-Birkenau in un momento di “apocalisse omicida”, nell'agosto del 1944, era “mantenere una scintilla di speranza in mezzo a una realtà atroce” – proprio come un lampo di luce squarcia l'oscurità in ognuna di queste quattro foto – mentre “la vita continuava a germogliare, fragile ma persistente” in questa “immensa notte di orrore”. (DIDI-HUBERMAN, 2020, p. 116). Il gesto di Alberto Errera ha così trasformato la “realtà storica”, fatta di orrore e sconvolgimento, “in una possibilità di memoria per il futuro”, ricorrendo solo a un pezzo di celluloide. (DIDI-HUBERMAN, 2017, p. 109).
*Ricardo Fabbrini È professore presso il Dipartimento di Filosofia dell'USP. Autore, tra gli altri libri, di L'arte dopo le avanguardie (Ed. Unicamp).
Versione parzialmente modificata dell'articolo “Immagini della Catastrofe”, pubblicato su “Rivista di filosofia moderna e contemporanea (RFMC), vol. 9, no. 3.
Riferimento
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note:
[I] Vedi “Des voix sous la cendre. Manuscrits des Sonderkommando d´Auschwitz-Birkenau”. In: Revue d'histoire de la Shoah, n.171, Paris: Centre de Documentation Juive Contemporaine/ Somogy éditions d´art, Janvier-Avril, 2001. Le foto delle camere a gas sono rare, come è noto, dato che la politica attuata dai gestori dei campi di concentramento, soprattutto dal gennaio 1945 in poi, fu la distruzione delle prove dei suoi crimini. Ci resta, invece, l'“Album di Auschwitz”, il cui scopo è incerto, composto da 56 pagine e 193 fotografie, comprese le immagini del triage degli ebrei ungheresi ad Auschwitz-Birkenau, dei crematori in mezzo ai boschi di betulle, e anche dei suoi camere a gas prodotte tra i mesi di maggio e giugno 1944. Questa assenza di una numerosa documentazione visiva delle camere a gas sarebbe stata rafforzata, secondo Didi-Huberman (2017; 2020), dalla tesi della irrepresentabilità dell'Olocausto, secondo cui sarebbe impossibile rappresentare o immaginare l'enormità dell'orrore senza mitigarlo o estetizzarlo con una qualche forma di “inquadratura”, come vedremo.
[Ii] Non abbiamo incluso, in questa lista, film di riferimento sulla “Shoah” che meriterebbero commenti dettagliati, come: il melodramma Kapo (1960) di Gillo Pontecorvo; il saggio cinematografico notte e nebbia (1955) di Alain Resnais; e il già citato “documentario testimoniale” Shoah (1985) di Claude Lanzmann. Si veda l'articolo di Ilana Feldman, “Immagini nonostante tutto: problemi e controversie intorno alla rappresentazione, dalla 'Shoah' al 'Figlio di Saul'”. ARS, San Paolo, 2016, v. 14, n. 28, pagg. 135-153. Di figlio di Saulo (2015), citato sopra, dice l'autore: “Rifiutando la banalità realistica e l'indecenza del melodramma nel contesto dello sterminio dei campi di concentramento, il regista [László Nemes] opta per un linguaggio rigoroso, di una parzialità radicale: proprio come il protagonista, non vediamo 'il' campo e non abbiamo accesso ad alcuna forma di totalità di quanto sta accadendo. Parte di questo effetto di restringimento del campo visivo è dato dallo schermo quadrato, nel formato ridotto 1:37” che “oltre a contrastare l'eccessiva visibilità del cinemascope, produce nello spettatore una sensazione di soffocamento e reclusione. Formato ristretto, quasi quadrato”, analogo, vale la pena ricordare, alle foto 6cm x 6cm, di Alberto Errera. (FELDMAN, 2016, p.150).
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