Imitazione, emulazione e poesia in Racine

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Nel Seicento francese, la trattazione delle fonti poetiche antiche faceva parte del processo inventivo.

“Bisogna assaggiare questi frutti maturati al sole del Grande Secolo, dove i succhi provenienti dal profondo della tradizione antica e cristiana si sono trasformati in miele”. (Ruggero Bastide).

Jean Racine (1639-1699) è certamente uno dei grandi maestri del teatro moderno e, insieme a Shakespeare, Corneille e Molière, rappresenta ancora oggi un riferimento obbligato per chi voglia ricostruire la traiettoria delle arti drammatiche occidentali.

Poco o nulla si dice della sua capacità di riciclare le opere dell'antichità classica greco-latina a favore di una nuova arte drammatica che emerge dal Rinascimento e che si sviluppa fino ai giorni nostri. La capacità di “riciclare” o, semplicemente, di “alludere” non è nuova, come possono immaginare alcuni che studiano sistematicamente la tanto pubblicizzata e venerata intertestualità, pietra di paragone della postmodernità.

Per molto tempo, soprattutto nel periodo romantico, molti autori sono stati etichettati come poco originali e persino plagiari per aver preso motivi dalle pratiche letterarie dell'antichità classica e averli messi al servizio di una poetica innovativa. Tale vituperio, tuttavia, non aveva e non ha alcuno scopo teorico, poiché ciò che hanno fatto, quando si trattava dell'antica fonte poetica, non era altro che applicare alcuni antichi concetti retorici all'interno del processo di invenzione (influenza) che, tra l'altro, prevedeva il riutilizzo dei temi, secondo categorie proprie della paideia contemporanea del prodotto inteso.

Non era altrimenti che i critici romantici del XIX e XX secolo osservavano, ad esempio, un persistente plagio di Gregório de Matos in relazione alla poesia di Gôngora, o addirittura pretendevano ed esigono una certa “originalità” dai poeti precedenti al XIX secolo . Da parte sua, la critica romantica francese non lo risparmia, ad esempio, il drammaturgo M. Auguste Vacquerie propone, tra numerose squalifiche, che Shakespeare “questo è un chêne, / Racine è un pieu".

Questa è anche l'opinione di Victor Hugo, pur lodandone alcuni aspetti Esther e Atalia, è enfatico nel rifiutargli il talento drammatico. Così, la metafora presentata, ben oltre a minimizzare le qualità di Racine, le squalifica, proponendole come superficiali, limitate, superficiali e, in fondo, sterili, se paragonate a quelle della quercia di Shakespeare che, di norma, è anche depositaria di luoghi comuni da la stessa fonte dell'Antichità, soprattutto se si considera il colorito senecano delle sue tragedie e altri aspetti di circostanze che circondano i temi delle sue opere, inserite nel contesto rinascimentale.

Come la stragrande maggioranza degli autori seicenteschi, Racine è considerato da autori e critici ottocenteschi minore, insignificante e inetto rispetto ai maestri classici della modernità, tra i quali spicca l'autore del Giulio Cesare. Cioè, l'Ottocento leggeva e legge il Seicento sotto l'egida della deformità, dell'eccesso e della corruzione del Cinquecento e, quindi, difficilmente un poeta di quel periodo potesse costruire qualcosa di nuovo e degno di essere riconosciuto, preso vantaggio o addirittura riutilizzato dalle generazioni future nell'ambito dell'invenzione poetica. Inoltre, i criteri di esclusione proposti sono assolutamente innocui dal momento che si basano, romanticamente, sull'originalità che Shakespeare avrebbe, e altri come Racine no.

Tali deduzioni critiche, tuttavia, suonano oggi assolutamente irragionevoli, se non anacronistiche, poiché i concetti di originalità e plagio non facevano parte del programma retorico-poetico di chi lo proponeva per diletto e utilità (dolce et utile) l'elaborazione di testi che convenzionalmente vengono chiamati letterari. E questo, sia in Grecia nel V secolo aC, sia a Roma nel secolo augusteo, sia in Francia alla corte di Luigi XIV.

Questi periodi, così a lungo separati, conservano in sé interessanti approssimazioni rispetto alla produzione di testi relegati, o meglio, dimenticati da illustri maestri. imitazione (mimesi, imitazione), emulazione (zelosi, aemulation), originalità e plagio sono concetti che dovrebbero essere nelle mani di chiunque voglia osservare la poesia e la prosa prima del secolo malvagio.

Se non lo facesse, certamente, il suo stesso tempo lo seppellirebbe e noi - lontani - non potremmo assaporare la sua ingegnosità (ingenio) e arte (ars).

L'endemica vicinanza di Racine all'antichità classica, a sua volta, può essere misurata non solo dall'imitazione e dall'emulazione proposte in Fedra, Andromaca, La Tebaide, Alexandre le Grande, Britannicus, ecc., ma anche e, più precisamente, dai suoi scarni scritti (cfr. Varie Opere. Gallimard, La Pleiade. 1952.), dove sono presenti attente e preziose note delle sue letture di Omero (Iliade e odissea); di Pindaro (Olimpico); di Eschilo (I Coefere); di Sofocle (Aiace, Electra, Edipo Re, Edipo in Colon e Le Trachinie); di Euripide (Medea, Hipolito, Le Baccanti, I Fenici e Ifigenia in Aulide); di Platone (Banchetto, Apologia di Socrate, Fedone, Fedro, Gorgia, Repubblica e Le leggi); di Menandro; di Aristotele (Poetica e Etica nicomachea) e Plutarco. Per non parlare, ovviamente, delle osservazioni fatte ad autori latini come Orazio (odi e Satire); Cicerone (Da Inuenza, Di Oratorio, Epistole ad Attico, Epistole ad familias, tusculanas e De Divinazione) Seneca (Di Clementia, Di breuitate uitae), Plinio il Vecchio (Storia Naturale) e Plinio il Giovane (Cfr. Cavaliere, RC – Racine e la Grecia).

Questa vasta eredità (copia rirum) erudito non poteva non servire il suo mestiere. Racine è un classico fino alle ultime conseguenze, viscerale, quindi nulla gli sarebbe più grato dell'imitazione di ciò che hanno prodotto le culture greca e latina. Così come era lecito a Seneca elaborare la sua Medea, la sua Fedrasuo Edipo Re, dopo, ovviamente, la manifestazione di Euripide e Sofocle; Racine si trovò assolutamente autorizzato dalla tradizione a realizzare il suo progetto di emulazione.

Tuttavia, per noi post-romantici, la parola imitare porta con sé un senso peggiorativo, dopotutto, quasi tutti intendono essere originali e creativi nel nostro tempo, e questo era, senza dubbio, un imperativo nel XIX secolo. Tuttavia, per gli antichi, l'originalità era una possibilità, forse, solo divina, poiché l'origine è tutto ciò che non c'è niente prima. In questo modo gli dei avrebbero la funzione originaria, il principio, il arco. Tutto ciò che segue il principio passa per imitazione e, in questo senso, il concetto acquista una funzione propedeutica e didattica. Dopotutto, non c'è niente di più sicuro che dire che qualsiasi processo educativo osserva l'imitazione. Come propone Aristotele in Poetica, gli uomini imitano perché si dilettano nell'imitare e si dilettano nell'imitare (cfr. Poetica, IV).

Tuttavia, non si può confondere l'imitazione con la copia servile. L'atto di imitare presuppone un processo il cui fine risiede nel superamento dell'imitatore sull'imitato, l'emulazione (aemulation, zelosi). E tale superamento dipende esclusivamente dall'ingegno (ingenio), un concetto che preannuncia la capacità innata e acquisita, simultaneamente, che presuppone a volte una specifica abilità di fronte al materiale poetico, a volte una capacità di riconoscere procedure tecniche che devono essere utilizzate correttamente e decorosamente.

Si può quindi osservare la distinzione tra originalità e novità. Racine, certamente, non cercava l'originalità romantica, tuttavia intendeva la novità. L'essere innovativo ha rappresentato l'apice del suo ruolo di poeta. E, in effetti, lo era. Perché, appropriandosi, ad esempio, di temi classici e persino di opere complete come Fedra, riuscì ad adattarli all'universo francese alla corte di Luigi XIV. Si noti l'affermazione di José Eduardo do Prado Kelly (Fedra e Hipolito. Tragedie di Euripide, Seneca e Racine. 1985): “Rimproverando al poeta di aver dipinto con antichi nomi aulici del Re Sole, il critico lo giustifica riflettendo che tutto il teatro rappresenta il costume contemporaneo e osservando che la Corte era il luogo dove si sviluppò l'arte del convivere. ridotto a 'massimi' ed eretto a precetti. Il merito di Racine sarebbe stato quello di imporre i suoi drammi"le bienséances della società".

La novità in Racine, quindi, indica la figurazione di elementi antichi, osservati alla luce della retorica (senza limiti imposti dal romanticismo in cui vi è la soggettivazione dell'elocuzione, e, di conseguenza, il suo uso implica una sfumatura limitata e peggiorativa dell'arte di parlare bene e di scrivere bene), associato alle consuetudini del tempo. Filippo Butler (Classicisme et Barroque dans l'oeuvre di Racine) afferma inoltre che nell'opera di Racine la retorica occupa un posto preminente e assume il ruolo particolare di stilizzazione in cui i discorsi dei personaggi mettono in relazione parole e atti.

In questo modo, questo stile innovativo mira a tradurre il volto intelligibile dei movimenti delle anime disposti nel testo e, mai, solo, a presentare una foto statica e istantanea della realtà osservabile. Questa caratteristica va indubbiamente contro la presunzione dell'esistenza di una società barocca soggetta e sottoposta al simulacro, all'apparenza e al protocollo (cfr. Gracián, Baltazar. Manuale Oracle o El Discreto). L'autore afferma un'esigenza di tempo, temporale e datata per cui le figurazioni dovrebbero seguire regole dettate. Un'etichetta stilisticamente scolpita che dovrebbe permeare la vita cortese e la sua inevitabile allegoria, il testo prodotto.

Ruggero Bastide, appunto, stabilisce la sintesi quando dice che Racine va assaporato, in vista dell'osservazione di due tradizioni complementari: quella classica e quella cristiana. Cioè, se da un lato l'autore è mosso da temi classici, dall'altro sono al servizio di un mondo controriformista. Così, nel quadro di Maravall (La cultura del barocco), il testo di Racine, così come quello di Quevedo, possono però servire a comprendere un'epoca, senza mai trascurare «i fattori stilistici e ideologici radicati nel terreno di una data situazione storica».

Più di altri nel suo tempo in Francia, Racine ha messo da parte le regole aristoteliche della composizione drammatica e si è interessato solo a una teoria della composizione drammatica rivolta all'emozione. Appare così lo spettacolo poetico della fragilità umana. L'uomo disegnato dal poeta “è un individuo in lotta, con tutto l'entourage di mali che accompagnano la lotta, con i possibili benefici che il dolore porta con sé, più o meno nascosti. In primo luogo, l'individuo è in lotta interna con se stesso, fonte di tante inquietudini, cure e persino violenze che dal suo interno germogliano e si proiettano nei suoi rapporti con il mondo e con gli altri uomini” (Maravall, JA op.cit.).

In effetti, questa osservazione dell'emozione come punto centrale della composizione significa che, tra le due possibilità di argomentazione del discorso, cioè l'etica (ethos) e il patetico (pathos), autore di Berenice scegli il secondo. Cioè, tutto in Racine è mediato dal pathos, da qui l'eccesso di iperbole, accumuli e gradazioni nel disegno dei personaggi drammatici. Da qui il cosiddetto eccesso barocco. Anche in quella che è vista come una possibilità del tempo, caratteristica dello stile, segue qualcosa che non è del suo tempo all'origine, ma qualcosa di esplicitato da un precetto retorico fondamentalmente aristotelico. (Cfr. Aristotele. Retorica,II).

Racine, dunque, dalle simmetriche dispute tra Oreste e Pirro, dai discorsi fluviali di Agrippina, dalle appassionate suppliche di Burro e dalle accuse di Ulisse, oltre a rappresentare una tradizione classica che, a quanto pare, languirà in preda al Settecento, contribuisce come emulo, appropriandosi di vecchi disegni per ritrarre l'anima dell'uomo del suo secolo e di una cultura francese del XVII.

* Paulo Martins Docente di Lettere Classiche all'USP e autore di Immagine e potere (Edusp) eRappresentazione e suoi limiti (Edusp, in corso di stampa) tra gli altri.

Originariamente pubblicato su giornale pomeridiano, Taccuino di sabato 24 aprile 1999.

 

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