da EUGENIO TRIVINO*
La regolamentazione delle reti Big Tech, che presuppone una regolamentazione continua, una volta stabilita giuridicamente, è anche politicamente legittima, in quanto richiesta pubblica e democratica
La transizione incorniciata
La presunta demassificazione nell’ambito della comunicazione elettronica – processo erroneamente associato a varie forme di appropriazione sociale e di utilizzo delle tecnologie digitali e interattive, a partire dalla fine degli anni Sessanta – ha seminato, quantomeno, un orizzonte irreversibile: le piattaforme digitali (di relazioni e partecipazione, educazione e informazione, ricerca e consultazione, intrattenimento e scambi commerciali) hanno rappresentato, di fatto, la campana a morto per il monopolio dell'informazione controllato dai mezzi analogici di comunicazione di massa.
Sulla scia della diffusa informatizzazione, della miniaturizzazione delle tecnologie digitali e della cultura del siti, chat e blog, queste piattaforme hanno portato alla conseguenza ultima di trasferire, in mani comuni, non solo la proprietà diretta di tutti i contenuti circolanti, ma anche la possibilità di reazione immediata ad essi e di creazione basata su di essi, oltre a distribuirli e/o irradiarlo in una catena ramificata, con supporto per profili auto-personalizzati.
Alla cosiddetta “acefalia” dei consumatori di massa media convenzionale – telespettatori di massa, ascoltatori radiofonici, lettori, ecc. – seguiti da miliardi di teste interattive, perni di una complessa rete di interconnessioni locali, regionali, nazionali e internazionali (la portata geografica dipende dalla potenza e dalla portata degli apparati e della rete in gioco, nonché la capacità dromoaptica – legata alla velocità – dell'utente). La natura e la funzione storico-sociale di questa dinamica ciberculturale, con conseguenze politiche imprevedibili, sono lungi dall’essere comprese in modo profondo e definitivo.
Per ricordare Jean Baudrillard, restano tante incognite quanto la natura, la funzione e le conseguenze delle masse legate ai sistemi televisivo, radiofonico e della stampa. Ecco il punto principale: l’agognata conquista politica e culturale della liberazione dei segni (notizie, immagini, informazioni, ecc.) dalla prigionia industriale-monopolista di massa e della loro transizione commerciale verso l’universo postindustriale e algoritmizzato delle teste comuni e mani è culminata in un’esuberante produzione simbolica collettiva tecnocraticamente inquadrata nell’ideologia transnazionale ed egemonica dei modelli di business miliardari, proposti e gestiti nel cyberspazio dalle cosiddette Big Tech (la maggioranza ancora con sede nella Silicon Valley, sulla costa occidentale del gli Stati Uniti.
Oltre a catalizzare la percezione e competere per l’attenzione degli individui come forma di capitalizzazione monopolistica del desiderio di appartenenza, partecipazione e condivisione, l’ideologia tecnocratica delle Big Tech favorisce – e si alimenta – pulsioni reattive (spesso compulsive e infra-razionali, anche se non inconsciamente), in condizioni neoliberiste (cioè deregolamentate e presumibilmente libere, all’ombra dello Stato, sotto la fantasia onnipotente dell’individualismo produttivista e sotto la fede utopico-irresponsabile nell’esclusività del mercato come vortice per generare bene -essendo).
Questo incentivo a feedback di reazioni immediate scommette sull’autoregolazione interattiva del sociale stesso, come se le pulsioni psico-emotive – provenienti da ogni luogo e da nessun luogo – potessero operare (e concatenarsi in) una razionalità priva di problemi, nonostante il flusso di un mercato acefalo. altrettanto in balia degli umori oscillanti dei panorami informativi, oggi originati e replicati sui cosiddetti “social network”.
In tali condizioni – le stesse in cui le istituzioni educative appaiono da secoli incapaci di gestire (per non parlare di controllare) banali pulsioni umane (come razzismo, misoginia, lgbtfobia, xenofobia, ecc.), inclinazioni psico-emotive patriarcali in termini di costruzione dell’immagine degli altri e delle interazioni interpersonali) –, l’universo utente funziona efficacemente come un vortice di risonanza di vissuti irrisolti (traumi interazionali insistenti, rancori intergruppi incancellabili, frustrazioni inaspettate e non compiute, ecc.) e di proiezione incontinente di pratiche pregiudiziali e stigmatizzanti – demoni di l'Io e l'inconscio, intemperanti e, in generale, sublimati in contesti conflittuali.
Le prove del periodo mostrano chiaramente che questa autoregolamentazione sociale – in questo caso, attraverso forme di appropriazione e uso collettivamente casuali di tecnologie digitali e reti interattive – ha spinto la società a inclinarsi politicamente e pericolosamente verso l’estrema destra, avvantaggiando tutti i tipi di persone. persone intenzionalità risentita e vendicativa, espressa in modi incivili di trattare gli altri. Sulla scia prodiga della produzione audiovisiva dei mass media (almeno a partire dagli anni Trenta), tale autoregolamentazione ha purtroppo – è necessario ricordarlo – contribuito anche ad approfondire la idiozie socioculturali e imbecillità antiscientifiche. I notizie false ne sono una sintesi già visto maestoso, con gravi riverberi politici e sociali.
La suddetta tendenza (verso l’estrema destra) è inseparabile dall’insoddisfazione ultraconservatrice nei confronti degli attuali modelli del sistema capitalista, scolpiti sotto pressioni storiche (negli ultimi due secoli), nelle strade e nelle piazze, da milioni di lavoratori e disoccupati – senza terra , senza –senzatetto, spesso apolidi – a favore dei diritti civili, sociali e previdenziali. Questo lungo e sanguinoso viaggio internazionale di massa è culminato in sistemi socioeconomici fortemente regolamentati dallo stato; in una serie di contenimenti o restrizioni legali alla spinta espansionistica del capitale, in particolare del grande capitale (qui prioritario); in (molto imperfetti) schemi di tassazione progressiva per alleviare le disuguaglianze materiali; una maggiore partecipazione delle classi popolari e svantaggiate ai processi decisionali democratici sui percorsi di civilizzazione; e nella diversificata liberalizzazione degli usi e dei costumi (dalla quale gli incentivi commerciali non sono separati dal capitale stesso), tra le altre tendenze conquistate a fatica per minimizzare rischi e danni.
In Brasile, questo scenario di egemonia statale sotto la Magna Carta socialdemocratica è fortemente malvisto da tutti gli aspetti ultraconservatori, scontentando i settori tecnologicamente avanzati e, allo stesso tempo, politicamente reazionari del capitale e dei suoi rappresentanti (tranne quando ci sono sussidi statali... ) - dalla campagna alla città (o, se si vuole, dall'agroalimentare all'industria degli armamenti e start-up neoliberisti miliardari, cooptatori parassiti della rete).
Non esiste frustrazione che non trovi uno specchio nel passato. Per natura storica e propensione epica, il capitale – qualunque sia il suo ramo – ha sempre stimolato la libertà incondizionata in una direzione esplorativa multilaterale. Sottoposti o meno a responsabilità legali, i loro proprietari e rappresentanti, sia adempiendole sia eludendole, ritengono insopportabile qualsiasi legame statale e morale alla realizzazione e alla riproduzione allargata del valore di scambio, ad eccezione delle leggi che pareggiano gli scambi economico-finanziari ai livelli concorrenziali attesi. livelli. Tale schema di catarro si approfondì dopo la seconda guerra mondiale.
In termini macroeconomici recenti, il neoliberalismo – e questo contestualizza la voracità del prefisso “neo” – significa, non a caso, una certa “ribellione” politica, tanto calcolata quanto organizzata, all’interno dell’ordinamento giuridico, per cercare di far implodere le disposizioni giuridiche – uno per uno – che limitano l’avidità del capitale, questo fiutando opportunità di rapido profitto nel più breve tempo possibile, qualunque siano le conseguenze socioculturali, politiche ed etiche. L’ambiente, nella ferita aperta di un riscaldamento planetario difficilmente reversibile, è un sintomo grossolano di questa follia con fondate ragioni. Cibo in tavola, con fertilizzanti e pesticidi anche scientificamente controversi.
L'aspettativa di un capitale compiacente costituisce una pericolosa fantasia umanista: con le mani intrecciate, prega davanti a branchi diversi. Una grande iniziativa con capitale placata dalla dottrina dei diritti umani e sociali è rara. Gli insuccessi strategici in ognuno dei suoi rami si osservano esclusivamente sotto la pressione intensa e continua delle forze politiche e sociali opposte, sostenute o meno dallo Stato.
Infobusiness endofascisti
L’osservazione politica più acuta dell’argomento precedente merita un’enfasi riconsiderata: le tendenze fattuali hanno da tempo replicato, ovunque, il modo in cui alcuni segmenti delle Big Tech condizionano lo spazio libero e il semaforo verde per visioni del mondo e sentimenti che inebriano, con veemenza organizzata, interazioni civili, minando, qualcosa di più, la necessaria apertura a modi di vita diversi. In particolare, la struttura dinamica delle piattaforme digitali di relazione, partecipazione e condivisione – che, insieme ai sistemi di interazione via smartphone e compresse (per applicazioni), consentono la formazione di reti sociali (come YouTube, Facebook, mani intrecciate.
Il risultato è chiaro: l’espansione delle Big Tech, grazie al loro ascendente infotecnologico su tutte le istanze sociali, va di pari passo con la proliferazione di gruppi nazifascisti, suprematisti e simili. Per gli stessi motivi, il imprese cibernetiche sono, direttamente o indirettamente, coinvolti nella pressione dell’estrema destra sui sistemi e sui valori democratici. Senza un progetto stabilito a favore di queste pressioni, le Big Tech, tuttavia, contribuiscono alla disgrazia di dolorose conquiste storiche.
L'argomentazione secondo cui ci sia una coincidenza accidentale in questo enorme dettaglio è frivola e, in malafede, disinformata. In termini di costruzione aziendale, i modelli di business di queste mega aziende incoraggiano effettivamente regressioni storiche, politiche e istituzionali.
La suddetta relazione simmetricamente proporzionale – tra l’espansione del condizionamento digitale aziendale e la proliferazione di narrazioni e pratiche autoritarie di destra – obbedisce a regole socioeconomiche relativamente stabili nel capitalismo. Le piattaforme digitali di relazione, partecipazione e condivisione vengono liberamente appropriate (cioè incorporate nel proprio ambito, nella realtà individuale) da categorie sociali che sono economicamente e cognitivamente preparate a farlo (per quanto precari possano essere le attrezzature e il pacchetto di accesso alla rete). ), soprattutto in periodi o contesti di controversia politica, religiosa e/o morale.
Nel gioco casuale di queste appropriazioni e usi, gruppi, partiti e un vasto entourage dell’estrema destra hanno, per anni, ampiamente preso il sopravvento, con un controllo più avanzato sui fattori della malavita. online (la chiamata buio ou deep Web) che associazioni e filoni di sinistra, in campo politico e culturale.
Quando si tratta di iniziative nel molteplice ambito delle tecnologie interattive (intelligenza artificiale in prima linea) come vettore di sviluppo della civiltà, l’“insieme di lavori” sopra riportato, visto da una diversa prospettiva, rivela ciò che non sorprende da un punto di vista punto di vista storico: esistono carte di innovazione che equivalgono (e/o sono in uscita da) infobusiness endofascisti.
Architetture aziendali nel segmento dell'informazione in tempo reale, queste cyberbusiness non sono, originariamente, modelli commerciali fascisti di sofisticato intreccio tecnologico. Una volta aperti a tutte le forme di appropriazione e utilizzo, finiscono, nella capitalizzazione intensiva della partecipazione ed espressione individuale, aprendosi, tuttavia, nei loro spazi socio-tecnologici interni, a tutti i tipi di narrazioni e tendenze di estrema destra, con conseguenze dannose impreviste.
Iniziano come sperimentalismi regionali o nazionali di imprenditorialità neoliberale in rete e, a causa dell’adesione transfrontaliera di miliardi di persone, si convertono, spesso in tempi record, in mega-aziende ultra-profitte, con ramificazioni globali. È il caso di trarre profitto dalla miniera delle relazioni interpersonali (e, in sostanza, del desiderio di essere e apparire, appartenere e condividere) attraverso le macchine e le reti digitali (tavolo e mobile).
Nessuna rovina solo una frangia politica rilevante (in genere dimenticata) della nozione di responsabilità sociale (falsamente prigioniera dell'esclusività del campo ambientale): assetata di profitto ad ogni costo, l'argomentazione, anche frivola, si lava le mani della necessità per una preoccupazione permanente per la costruzione della società alla luce costituzionale del benessere collettivo ed effettivo. Le iniziative aziendali con forti conseguenze sociopolitiche e morali fanno sempre più parte di questo acquoso cinismo.
Se ci fosse un genuino e continuo interesse da parte delle Big Tech in direzione opposta a questa palese indifferenza, varrebbe comunque la pena di non dimenticare che il sociale ha capricci inappellabili: una costruzione storica troppo complessa per essere disegnata a tavolino, non sarà mai una costruzione algoritmica. organismo darwinista statistico incline al successo del dromoaptos che ruota attorno a macchine e piattaforme digitali 24 ore su XNUMX. (Da un punto di vista individuale, la dromoaptitude riguarda l’introiezione e l’incorporazione della velocità come valore sistemico del tempo.) Il sociale non si piega – e non si piegherà, lo ricordiamo – alle semplificazioni interpretative di qualsiasi mentalità aziendale.
Il caso delle Big Tech non fa eccezione: quanto più robusto è il tentativo di sovradeterminare il sociale, tanto più imperfetto è il risultato. Tali semplificazioni, che fanno molto invidia alla pia etica, non si stancano di rasentare programmaticamente il pericolo: il sociale non può essere ridotto – né sarà mai ridotto – alla mera somma di reti di comunicazione controllate dal capitale privato e, nel “servizio forniti”, pubblicizzato come “spazio pubblico” per le interazioni (con esseri umani e artificiali).
Il sociale non è riducibile ad una sorta di creta modellabile da modelli di business nel segmento interattivo, virtuale e/o algoritmico, tanto più quando ne permettono, di nascosto e/o a proprie spese, la definizione (politica, sempre) di chi domina o meno i suoi spazi corporativamente condizionati e, all’ombra elettorale di questo processo, di chi ha il diritto di fagocitare la totalità sociale. Anche in condizioni di incertezza, il principio del riciclo strutturale di tutto e di tutti è solitamente implacabile: ciò che funziona in un determinato momento storico-politico – a causa dell’impreparazione socio-tecnologica delle forze di opposizione – difficilmente potrà ripetere successivamente lo stesso identico successo.
L'impossibilità di qualsiasi sofisticato ingegneria aziendale che svaluta il potere multiplo del sociale quando cerca di adattarlo alle sue ingiunzioni aziendali, si trova gravato dall’evidenza che l’autoregolamentazione totale da parte del mercato delle appropriazioni e degli usi minaccia le attuali dinamiche repubblicane e democratiche. In una certa misura, l'arco completo di questa rovina politica passa attraverso l'occupazione dei poteri statali, in un sinistro vespaio oggi stimolato dall'esistenza delle reti sociali. Vale la pena, a titolo di chiarezza, invocare il mantra progressista convertito da anni in senso comune (quello di un mattatoio, appunto): il fondamentalismo neoliberista dell’estrema destra ha bisogno che il gioco democratico si impadronisca dell’apparato statale, erodere le conquiste del lavoro e della sicurezza sociale (scolpite nella scia del sangue almeno dall’inizio del XIX secolo) e implementare dinamiche dittatoriali e/o autocratiche supportate da tutti i tipi di deregolamentazione, anche a scapito del (risorgere del) lavoro schiavo condizioni.
L’argomentazione secondo cui le reti digitali aziendali sono aperte a qualsiasi visione e sentimento riguardo al mondo – più precisamente, tutte sono benvenute, anche quelle genocide – assume, in questo contesto, un’aria di errore, così come una presa in giro populista: la il tentativo di fornire spazi pubblici uguali o paritari per la comunicazione non equivale a omaggio compensativo per qualsiasi iniziativa imprenditoriale; la mera diversità quantitativa non galvanizza l’equilibrio delle forze sociali che garantiscono l’ideologia della democrazia.
Gli errori non potranno mai mascherare del tutto la loro astuzia: opinioni contrarie all’estrema destra, oggi per lo più confluenti a favore dell’estrema destra status quo, non minacciano, né dall’interno né dall’esterno, questa forma plurale di governo. Se fosse minimamente valido, il discorso di pareggiamento delle condizioni aperto alla miriade di appropriazioni e usi delle reti digitali sarebbe, invece, come proposta commerciale, primario: converte la democrazia in democratismo. Ogni corruzione politica è, se non ingenua, spregevole, non è mai stupida: in questo caso, va allo scoperto per generare profitto (materiale o simbolico, immediato o differito).
La banalità di questo rozzo involucro – la corruzione convince solo gli ignari – presto svela la verità iceberg Totale. Il profilo delle Big Tech è, infatti, basato (non esclusivamente) su ideologia finanziaria (in breve, l’ideologia monetaria), presumibilmente neutrale nella sua cruda propensione oggettiva. notizie false e le esilaranti smentite di gruppi e associazioni estremiste portano molti soldi alle piattaforme. Dal punto di vista di queste imprese, l’acuta discordia politica, soprattutto il tumulto (con le tendenze e ciclo lungo), si trasforma in un pilastro della capitalizzazione virulenta.
Ancora contrariamente alla suddetta fallacia populista, se la democrazia elogia la matematica (essendo, nei tempi moderni, uno dei risultati, a causa di un quorum di maggioranza), non equivale a condizioni linearmente quantitative. La gravità della ragione esige l’esperienza storica: la democrazia non può calmare le forze politiche che vogliono distruggerla. Può avere diversi inconvenienti (e convivere con tutte le critiche, da quelle legittime a quelle amare), salvo flirtare con l'ignoranza o l'inettitudine. Se sovraespone la propria spina dorsale, contiene contro sé – in modo stranamente masochista – la nostalgia dei regimi totalitari: fa il gioco del nemico, mettendogli il budino in bocca.
Keynesismo cyberculturale
L’insieme dei fattori di cui sopra, che segnala una certa esacerbazione neoliberista del business algoritmico, contribuisce al fatto che, oggi, le Big Tech devono accettare l’unica soluzione politica possibile per loro – una soluzione ampiamente emergente, difesa in diversi segmenti specializzati e in alcuni casi dello Stato, in Brasile e all’estero: la regolamentazione democratica delle piattaforme digitali* – qualcosa che la speranza della giustizia, nella necessaria diplomazia, non commette l’errore di etichettare come keynesismo ciberculturale.
Negli anni ’1930, John Meynard Keynes scoprì cicli di incertezza e disequilibrio nello sviluppo auto-organizzato del capitalismo industriale: cicli critici insolubili senza L’intervento statale come agente macropolitico di rilanciare l’economia.
Questo intervento presupponeva, in modo collegato, quattro politiche essenziali: fiscale, finanziaria, del debito e degli investimenti. La riscossione delle imposte (compatibile con le esigenze di sostegno dello Stato), la regolamentazione del tasso di interesse (posizionato al di sotto del tasso di profitto sul capitale, per scoraggiarne la permanenza nel sistema finanziario improduttivo), la cattura del credito (sotto forma di debito assicurazioni) e il rafforzamento della spesa pubblica produttiva (generare occupazione e, con essa, un conseguente ciclo di reddito prospero e domanda effettiva) – questi obiettivi principali del diagramma keynesiano – convergevano per allontanare lo spettro della stagnazione economica del capitalismo.
Contrariamente a questa corrosione strutturale, la maggiore espansione dell’offerta di posti di lavoro formali (da parte dello Stato o del capitale privato) e, contemporaneamente, il mantenimento di una più ampia occupabilità contenevano sintomi di massimizzazione dell’attività produttiva. Attualmente è fuori dubbio che tali misure – allora controverse in seno al liberalismo – abbiano dato impulso alla riproduzione del modello di società capitalistico, scosso dalla grave crisi del 1929, con effetti depressivi durante il terzo decennio del XX secolo.
La razionalità di questa salvaguardia ha permesso di arginare le “disfunzioni” socio-strutturali tipiche del libero mercato, che potrebbero, in quanto contraddizioni, portare il capitalismo ad un nuovo collasso – contraddizioni, ad esempio, come la convivenza (in ogni caso mai abolito) tra, da un lato, regolarità di alti tassi di profitto industriale e commerciale, combinati con la massima concentrazione del benessere in una fascia ristretta della popolazione, e, dall’altro, una continua disoccupazione sistemica, con un ampliamento incontrollato del i margini della povertà e della miseria. L’intercessione statale proposta da Keynes rispondeva al tentativo – illusorio, ovviamente – di condizionare, nel medio e lungo termine, una più equa divisione della ricchezza, al fine di mitigare danni e rischi sociali, stabilizzare la piena occupazione e garantire il benessere nazionale. essendo.
Apparentemente, la necessità di una regolamentazione democratica delle Big Tech ha richiesto che l’humus tecnico di questa concezione macroeconomica fosse, mutatis mutandis e in termini generali, carichi di illusioni intrinseche e trasferiti nel contesto interattivo della cybercultura, dovuti, solo ed esclusivamente, ai riverberi sociali (di appropriazioni e usi) delle piattaforme digitali – ovviamente, lì e qui, per diversi fattori (e come hanno dimostrato i primi due argomenti di questo testo di per sé).
La regressione storico-politica operata dalle appropriazioni e dagli usi estremisti di queste piattaforme, sotto le Big Tech deregolamentate, è stata tale che la legittima e intensa preoccupazione per la sicurezza socio-istituzionale della democrazia ha iniziato a combinarsi con il ricorrere di procedure tecnico-riformiste simili a quelle del recente passato capitalista – una concertazione che, a sua volta, auto-valida (dissotterramento) espressioni precedenti e compatibili, come il “keynesismo”, per porre fine minimamente alla scabrosità – minimamente: cioè senza garanzie. I colpi di scena regolari nella storia non fanno altro che sorprendere, più dell’ignaro puerilità evolutiva, religiosa o meno.
Nell’intervallo tra le due principali guerre tecnologiche del XX secolo, il keynesismo, in quanto politica regolatrice dello Stato, era essenzialmente economico-finanziario. Nella cybercultura come epoca storica – la fase tecnologica più avanzata del capitalismo ereditata dalla fine del XVIII secolo, basata su processi digitali e interattivi (dalla robotica di rete agli algoritmi e all’intelligenza artificiale, e oltre) – l’equivalente keynesiano assume espressione politica .informativo, con ricadute economico-finanziarie e culturali.
Proprio come la riproduzione espansa del capitalismo industriale ha generato la tecnica macroriformista del keynesismo, dello shock antiliberale per contenere le crisi sistemiche-recessive, equalizzare minimamente gli effetti strutturali dannosi del mercato e respingere la minaccia entropica, la democrazia formale (come costruzione di lo Stato di Diritto) sotto il capitalismo algoritmico ha richiesto, come tecnica di prudenza politica, un riformismo glocale di tipo keynesiano, di shock anti-neoliberista nella sfera dell’informazione e della cultura, per placare la voracità amorale delle Big Tech, disidratare i sinistri estremista e isolare la minaccia autoritaria.
Questa ingiunzione significa che, nelle società caratterizzate da appropriazioni e usi casuali che tendono a egemonizzare elettoralmente l’estrema destra, c’è un bisogno urgente di una regolamentazione democratica delle reti sociali su iniziativa della società civile progressista e con il sostegno partecipativo dello Stato – entrambi i quali sono decisivi. Il Brasile è uno di questi casi – e, a quanto pare, sarà così per molto tempo.
Dall’angolo opposto – e in tutte le parole, per ribadire con forza la stessa posizione –, il nucleo ideologico del keynesismo cyberculturale presuppone che Ministeri e Segreterie di Stato, insieme ai segmenti democratici della società civile, guidino il processo di regolamentazione delle piattaforme digitali per ridurre i danni e rischi di autoregolamentazione collettivamente casuale (in balia di pericolosi appelli politici e morali, mercato e pubblico), in tempi di infestazione della rete da parte di gruppi nazifascisti, suprematisti e simili, con abituale distillazione odiosa.
In particolare, lo Stato – istituzione finanziata dalla società, subordinata alla Magna Carta e, quindi, costituita (almeno in attesa) nella forma dello Stato di diritto, custode della democrazia (patrimonio collettivo, questo, in corso, ricevendo la difesa accanita come una conquista irreversibile) – non può mai, in questo orizzonte, prescindere dai compiti articolatori: è una trave cruciale per la completa risoluzione del problema.
Una flessibilità fondamentale del processo è stato ricordato (e proposto) da Sergio Amadeu da Silveira: la complessità della costruzione sociale di un quadro giuridico di questa natura “comporta la definizione di una commissione multisettoriale che possa verificare, adeguare e monitorare permanentemente l’attuazione e l’applicazione delle regolamento". Inoltre – e prima di tutto – questo quadro giuridico deve ovviamente derivare da un’ampia discussione pubblica, alla luce di principi e criteri precedentemente concordati e di procedure trasparenti, al di là di ogni dubbio, tra cui “la spiegazione, la responsabilità del funzionamento e della gestione dei contenuti, dei dati e sistemi algoritmici delle piattaforme. Va aggiunto che questa istanza socio-istituzionale, di carattere stabile, autonomo e indissolubile, attuata dallo Stato, deve essere impermeabile a interferenze di qualsiasi natura e impassibile ai cicli di governo.
In termini pragmatici e concisi, la necessità giuridica impone di consolidare la versione finale del disegno di legge (sia quella in elaborazione dal 2020, sia un’altra) e di farla passare al Congresso Nazionale, con approvazione plenaria. Successivamente la questione dovrà passare alla Presidenza della Repubblica, per sanzione o veto. Se c'è un veto parziale, il rispettivo contenuto ritorna al Congresso.
A rigore, non ci sono motivi per vantare impreparazione, simulazioni di stupore e paure infondate. Da un punto di vista macrostrutturale e socio-istituzionale, il keynesismo ciberculturale – un meccanismo giuridico con un profilo socialdemocratico, in una prospettiva morbido e diplomatica, di giusto intervento in una parte del mercato delle tecnologie di rete –, in un certo senso, configura ancora, in senso etimologico, una strategia conservatrice: si intende preservare la democrazia nella sua formalità di Stato di Diritto, una fase sine qua non (che dovrebbe essere) un respiro storico ed espansivo della dignità umana nel processo di civilizzazione.
Gli aspetti progressisti del centrosinistra e delle componenti politiche, giuridiche e culturali che difendono i diritti umani e fondamentali ricorrono così al primato dello Stato di Diritto contro ogni forma di autoritarismo, per riordinare le ingiunzioni socio-tecnologiche degli scacchi politici e, con Questo per evitare che i progressi e le minacce che l’esperienza storica ha già dimostrato possano corrodere dall’interno lo stesso Stato di diritto, così come il sistema democratico – giovane e (ancora) fragile in Brasile, che merita attenzione.
Né va sottolineato – come ovvio e superfluo – che dare priorità alla questione del condizionamento aziendale degli spazi digitalizzati per pratiche e discorsi di estrema destra non trascura mai l’urgenza di una regolamentazione ora per proteggere e garantire, senza ritirate e tergiversazioni, la privacy e i diritti personali. dati, in considerazione di procedure aziendali poco trasparenti circa la destinazione di tali informazioni senza il consenso degli utenti. Questo avvertimento amplia in modo significativo l'ambito delle piattaforme in questo studio [incluso Google (e altri browser), TikTok, Pinterest, Reddit, Kwai ecc.].
La regolamentazione delle reti Big Tech – che, di fatto, presuppone una regolamentazione continua; e, una volta stabilito giuridicamente, è anche politicamente legittimo, come richiesta pubblica e democratica – costituisce una battaglia di vita o di morte per la sopravvivenza della democrazia come valore universale, forma di Stato, regime di governo e modus vivendi quotidiano. In questo dettaglio non può esserci alcun indebolimento della resistenza nel campo progressista.
Senza questo regolamento di imprese cibernetiche – va notato – la rabbia delle Big Tech minaccia l’espansione storico-sociale della stessa civiltà democratica. O le Big Tech fanno affari sulla base di patti socio-giuridici nazionalizzati oppure il futuro dei regimi politici in diversi paesi, soprattutto repubblicani e/o parlamentari, risulterà desolante: per ora, la logica sociale delle piattaforme digitali tende a scartare le istanze repubblicane e meccanismi della democrazia nella discarica della storia, la stessa in cui, almeno dal 1945, riposa, scintillante e inquieto, il nazifascismo.
Inoltre, “sono le democrazie che dovrebbero regolamentare le piattaforme e non le piattaforme che dovrebbero definire cosa è o dovrebbe essere la democrazia”, osserva giustamente Sergio Amadeu da Silveira.
La preoccupazione politica per il lungo termine ha, in questo scenario, una giustificazione indiscutibile: come affermato in precedenza, la regolamentazione delle piattaforme digitali deve assumere un carattere permanente mentre i sistemi educativi sono insufficienti o impotenti, come le istituzioni sociali, a consolidare, per così dire, una pedagogia di ricezione critica dell’attuale agenda mediatica e, lungo questo percorso, una ciberacculturazione di massa degli utenti, al punto da evitare che diventino ostaggio di discorsi e narrazioni estremiste, sia in buio ou deep Web, nonché in qualsiasi gruppo o elenco di interazioni di rete. Se il keynesismo ciberculturale sarà in grado di realizzarlo, solo l’esperienza politica diretta lo dimostrerà.
Funzione socio-strutturale delle piattaforme digitali
Questa funzione normativa dello Stato e della società civile non può mai essere vista come censura, nemmeno in uno schema semantico classico. Si tratta piuttosto di una necessità macrostrutturale a favore del mantenimento della democrazia come valore universale. L’obiettivo ideologico del keynesismo ciberculturale consiste nell’evitare, nella sfera civile della coagulazione dei flussi di massa, distorsioni sistemico-repubblicane che pongono un pericolo politico a tale preservazione.
La censura è, in questo caso, un meccanismo statale che cade arbitrariamente e direttamente sullo strato contenutistico: una produzione simbolica indesiderata comincia a subire una sanzione autoritaria nella sua circolazione perché contraddice gli interessi attuali. Al contrario, il keyenesianesimo ciberculturale, che copre uno strato diverso, presuppone, innanzitutto, il funzionamento a livello della funzione macrostrutturale esercitata nella società dalle piattaforme digitali.
Se questa ingiunzione finisce per raggiungere, alla fine, contenuti minacciosi, è una conseguenza del fatto che il sociale equivale alla produzione simbolica quotidiana (verbale e non verbale) ed è, quindi, intessuto dalla profusione di discorsi e narrazioni , senza minuto libero. Lo spostamento dell’attenzione dalla questione del contenuto (prodotto dalla partecipazione individualizzata, creando una traccia di dati) alla questione della funzione macrosociale rappresenta un aspetto cruciale del dibattito sulla regolamentazione in gioco.
Il discorso autodifensivo e accusatorio contro la presunta censura delle piattaforme digitali costituisce un puerile stratagemma dissuasivo, volto a camuffare socialmente le ferite aperte (da parte degli infobusiness endofascisti) distogliendo l’attenzione del pubblico su aspetti equivoci o di contorno – e invocando anche, in questo espediente, la nome della democrazia. Tale diversismo è subordinato alla tesi della moderazione dei contenuti. Proposto come soluzione alternativa assoluta a ogni controversia, il provvedimento è stato – nel bene e nel male (con condiscendenza e anche con un occhio) – portato avanti dalle stesse aziende. I gruppi estremisti, tuttavia, continuano a proliferare sui social media, sotto l’influenza permissiva dei vincoli aziendali.
La libertà di iniziativa privata, qualunque essa sia, non può mai garantire abusi o eccessi che, a favore della prosperità delle imprese legali, riversino gli interessi di profitto nell’universo simbolico-politico della società (in un’operazione di capitalizzazione dei desideri di inclusione, di partecipazione e condivisione), fino ad aprirsi a pulsioni e intenzioni di violenza e di morte contro persone con modus vivendi diverso, contro lo Stato di diritto e contro la democrazia come valore universale.
Post scriptum
Di norma, il sistema dei media (di massa, interattivi e ibridi), così come tutti i segmenti della lotta politica attorno a spazi, posizioni e ragioni (all’interno e all’esterno dello Stato) ruotano attorno a discorsi e narrazioni – che si concentrano nel campo della produzione di contenuti pratiche. Questi contesti sono soggetti alla decisiva spuma simbolica del giorno, in cui dispute di ogni genere mettono in gioco possibilità (materiali e simboliche) di vita e di morte.
L’Università, al contrario, è libera di inglobare la funzione socio-strutturale sia di questa spirale di discorsi e narrazioni, sia dei sistemi e delle istanze tecnoculturali utilizzate nella sua irradiazione. Non è un caso che questo articolo sia stato scritto dal punto di vista di questa funzione macrostrutturale – quella dell’Università –, minacciata e denigrata dalla volontaria rusticità dell’estrema destra. (La versione integrale del testo sarà pubblicata su rivista scientifica).
*Eugène Trivinho é professore del programma post-laurea in comunicazione e semiotica presso la PUC-SP.
Nota
* Il controverso disegno di legge 2.630/2020, informalmente denominato “PL das falso Notizie” [o, per l’estrema destra, “PL da Censura”], doveva essere votato alla Camera dei Deputati nell’aprile 2023, dopo l’approvazione del Senato Federale in regime di emergenza (cioè senza passare per le Commissioni interne) . Il disegno di legge e la reazione ultraconservatrice ad esso hanno riacceso il dibattito pubblico. Come previsto, le Big Tech hanno agito con forza – all’interno e all’esterno della rete – contro l’approvazione della proposta. Il raffreddamento della polemica è evidente. La questione è all'ordine del giorno. Deve lasciare in eredità al Paese la rispettiva “Legge sulla libertà, responsabilità e trasparenza di Internet”.
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