da NICOLE MALINCONI*
Urge rileggere la vicenda dall'inizio, col rischio di essere accusati sia di antisemitismo che di islamofobia
Vediamo sui nostri schermi il popolo di Israele che piange inorridito; vediamo la gente di Gaza che vaga tra le macerie. Sentiamo l’urgenza di rileggere la storia, di discernere in mezzo a questo caos, ma non possiamo più farlo. Tuttavia non abbiamo altra scelta che riprovare.
Ricordo un viaggio nel deserto giordano, quando dal nostro autobus vedemmo, lontano all'orizzonte, un gruppo di tende. Rifugiati, ci è stato detto. O forse i beduini; a meno che non fossero rifugiati beduini. La maggior parte di noi non ha cercato di saperne di più e il viaggio è continuato. Avevamo diciotto anni, era l’estate del 1964, e stavamo terminando gli studi umanistici con un “pellegrinaggio in Terra Santa”. A quel tempo eravamo ignoranti quasi quanto il resto del mondo riguardo ai palestinesi.
Abbiamo dovuto scoprire con orrore, qualche anno dopo, le immagini dei dirottamenti aerei, della presa di ostaggi, degli attentati, delle esplosioni e delle morti, per chiederci chi fossero questi che disponevano solo di questi unici mezzi omicidi per farsi conoscere al mondo, e per apprendono che hanno chiesto di ritornare nel paese da cui erano stati espulsi. Al Paese, cioè alle loro case e alle loro terre, ormai abitate e coltivate da altri dal 1948.
Questi “altri”, gli ebrei, che le nazioni dell’Occidente erano state così sollevate nel vedere andare lì, desiderosi di riconoscere il loro nuovo Stato d’Israele, un modo per dimenticare e far dimenticare che avevano chiuso gli occhi e quindi finivano, loro confini, quando il nazismo attuò il suo piano di sterminio. Anche le nazioni tacevano, ora che questo nuovo Stato espelleva dalle loro case diverse centinaia di migliaia di persone, da allora chiamate “profughi” e divenute erranti.
Ricordo anche il 13 settembre 1993, a Oslo, quando Yitzhak Rabin e Yasser Arafat si strinsero la mano e si guardarono negli occhi davanti al presidente americano Bill Clinton e davanti alle telecamere di tutto il mondo. È successo dopo tanti anni pieni di guerre, bombardamenti e attacchi missilistici, attentati, accordi firmati e infranti, confini ridisegnati, negoziati mai conclusi, manifestazioni per la pace, assassinii di coloro che lavoravano per la pace, infinite rappresaglie e morti da entrambe le parti.
Guardando la foto di Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, ci è stato detto che se tali nemici si fossero stretti la mano nonostante quello che gli sarebbe costato, il loro popolo, prima o poi, sarebbe stato costretto a fare lo stesso e forse avrebbe acconsentito a qualcosa che sembrava senza precedenti. nel mondo, che consisteva nel vivere nello stesso Paese in due Stati con due nomi diversi, cioè vicini ma separati. Naturalmente, ciò sarebbe avvenuto a prezzo di immensi sacrifici, come, ad esempio, per alcuni, la rinuncia alla propria intransigente onnipotenza e, per altri, l’abbandono dell’odio e della sete di vendetta.
Ma le nazioni del mondo che hanno sostenuto l’uno o l’altro non hanno mai imposto questo prezzo come condizione per il loro sostegno. A parte i deboli avvertimenti annunciati dall'ONU per salvare la faccia, hanno taciuto quando hanno ricominciato a piovere razzi e bombe e che, invece di due stati confinanti, c'era sempre solo Israele, accanto al quale due sottili territori separati portano il nome di Enclave palestinesi, una delle quali è sempre più dilaniata dalle colonie che Israele vi costruisce, distruggendone villaggi e campi di ulivi.
L’altra, una stretta lingua di terra stretta tra il mare e il muro fortificato che la separa da Israele, Gaza, dove la maggioranza di chi vi nasce muore senza poter mai uscire, dove manca tutto, dall’acqua e elettricità a tutte le cose necessarie a un essere umano affinché si possa dire che conduca una vita umana. Recinzioni e sistemi altamente migliorati murano qualcuno e proteggono gli altri che si sentono minacciati da coloro che murano, perché la guerra continua, come potrebbe essere altrimenti?
Tuttavia, non abbiamo altra via d’uscita.
Ma da ottobre villaggi e kibbutz hanno massacrato gli abitanti, uomini, donne, anziani, bambini, persino neonati, tagliando teste, mutilando corpi, saccheggiando case e poi tornando a Gaza, portando via più di duecento sopravvissuti tra uomini, donne, anziani persone e bambini in ostaggio.
Il tutto al suono delle grida e degli slogan del loro movimento religioso, Hamas, secondo il loro desiderio di vedere Israele cancellato dalla carta geografica. Nient'altro in queste azioni poteva essere chiamato guerra né seguiva quelle che chiamiamo leggi di guerra; il terrore è diventato legge e gli uomini che lo hanno fatto hanno perso il loro fascino come soldati o combattenti in cambio del fascino di terroristi e assassini.
Visti i resoconti dei sopravvissuti, è grande la tentazione di dire che è stato superato un punto di non ritorno, che ogni speranza di pace è perduta. In effetti, quali voci ufficiali parlano ancora di pace, da entrambe le parti, quando alcuni persistono nella loro barbarie e la sete di vendetta ha semplicemente cambiato schieramento?
Soprattutto perché si aggiunge un errore quando la voce di Hamas intende parlare a nome del popolo palestinese, cercando di indurre tutti a confonderlo. Al punto che il mondo stesso si sta contaminando, stando per essere diviso tra chi ha applaudito la barbarie di Hamas e chi approva all’unanimità le rappresaglie di Israele, rifiutandosi di sapere che anche lì, sotto il blocco totale di Gaza, più di un milioni di uomini, donne, anziani e bambini muoiono di fame, di sete, per mancanza di cure o schiacciati sotto le macerie delle loro case.
Vediamo sui nostri schermi il popolo di Israele che piange per l'orrore, per i morti, per i genitori scomparsi, per i bambini rapiti; vediamo la gente di Gaza affluire in ciò che resta di alcuni ospedali, ferita, vagare tra le macerie, camminare lungo le strade verso altre macerie, come se fosse una patetica ripetizione, solo peggio.
Sentiamo l’urgenza di rileggere la storia dall’inizio, di svelare tutto, di poter discernere in questo caos, ma non possiamo più farlo. Tuttavia, non abbiamo altra scelta che riprovarci, col rischio di essere accusati sia di antisemitismo che di islamofobia.
Nicole Malinconi è uno scrittore e romanziere belga. Autore, tra gli altri libri, di Ce qui qui resta (Nuove impressioni).
Traduzione: Maria Amorim.
Originariamente pubblicato sul giornale La Libre Belgique.
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