da TESSUTO MARIAROSARIA*
Riflessioni sul centenario della nascita dello scrittore italiano
Negli ambienti culturali brasiliani, Italo Calvino è ricordato principalmente come saggista, nonostante l'ampia diffusione della sua opera di narrativa., Lo scrittore si distinse anche come giornalista e, nell'esercizio di tale attività, soprattutto nel secondo dopoguerra, il cinema servì anche a illustrare alcuni dei temi trattati (religione, psicologia del fascismo, sesso e sentimenti amorosi) in le cronache per l'edizione piemontese in L'Unità.,
Dal 1953 in poi collaborò con diversi giornali e periodici, tra cui Il Contemporaneo, Lui Ponte, Il Giorno, Quaderni di cinema, Corriere della Sera, La Repubblica, e principalmente, CinemaNuovo,, di cui partecipò a sondaggi, dibattiti e come corrispondente al Festival di Venezia, di cui presiedette la giuria nel 1981, quando venne assegnato il Leone d'Oro Die bleierne Zeit (gli anni di piombo) ha sollevato controversie a causa dell'argomento e del modo in cui è stato affrontato.
Italo Calvino avrebbe preferito che il premio fosse andato anche al film di Nanni Moretti, sogno d'oro (Sogni d'oro), premiato con il Leone d'Argento per la migliore regia, per dimostrare al pubblico che “l'umorismo intelligente è un altro modo 'serio' (altrettanto serio, dico) per raggiungere la verità e la propria liberazione”, come ha osservato Natalia Aspesi.
Nonostante ciò, anche a nome degli altri giurati, si è schierato in difesa del lavoro di Margarethe von Trotta contro chi vi vedeva un'esaltazione della lotta armata: “Nessuno tra noi ha mai pronunciato la parola terrorismo, nessuno ha pensato di discutere il suo contenuto in modo forzato. Eravamo tutti d'accordo nel vederlo come un film di sentimenti, che scava nella coscienza; nel giudicarlo da un punto di vista umano e non da un punto di vista formale o politico”.
“Secondo me il film contiene elementi molto chiari di rifiuto del terrorismo. Contiene la crescita esponenziale del fanatismo e della crudeltà che il terrorismo comporta nella società, a tutti i livelli. Credo che questi elementi siano più forti di un altro molto forte, che va nella direzione opposta: cioè la progressiva identificazione della sorella non terrorista con la sorella terrorista, dopo la sua morte. […] un dramma della coscienza può essere affrontato solo con questa serietà e con questo rispetto”.,
Come redattore, Italo Calvino cercò di convincere, per lettera, Cesare Zavattini a pubblicare le sue sceneggiature per Einaudi nel 1952,, ma non accettò e incontrò difficoltà nella produzione del volume Sei film (Le amiche. Il grido. L'avventura. La notte. L'eclisse. Deserto rosso) (1964), proposto da Michelangelo Antonioni, nell'ottobre 1962.
È interessante notare che quasi due decenni dopo, in un'intervista a Lietta Tornabuoni, lo scrittore dichiarò di detestare le sceneggiature pubblicate, che per lui “sarebbero interessanti solo se offrissero tutte le varie fasi che attraversa una sceneggiatura, tutte le successive riscritture di una scena o di un dialogo, tutti i tagli, gli avanzi, le rinunce, le parole che non sono state trasformate in immagini, ciò che non è mai stato filmato”.
Nonostante queste incursioni, Italo Calvino non ebbe però con il cinema un rapporto così intenso come quello instaurato con la letteratura, che però non cessò di essere notevole, come lui – il cui “apprendimento da spettatore fu lento e contrastato” dalla famiglia durante l’infanzia – si innamorò della settima arte nell’adolescenza (“tra il 1936 e la guerra”, quindi tra “i tredici e i diciotto anni”), andando al cinema quasi quotidianamente, se non due volte al giorno ,, e iniziando a recensire film per il Giornale di Genova, a metà del 1941, come San Giovanni Decollato (1940), di Amleto Palermi, interpretato da Totò, secondo “Cronologia”.
Come già accennato, Italo Calvino ha dedicato diversi scritti all’arte cinematografica – tra cui la “lettera aperta” a Michelangelo Antonioni, in occasione dell’uscita di L'amico (Gli amici, 1955); la prefazione di Film Quattro (1974), di Federico Fellini; la polemica con Alberto Moravia a proposito Salò o le 120 giornate di Sodoma (Saló o i 120 giorni di Sodoma, 1975), di Pier Paolo Pasolini.
pubblicato su Novità Einaudi (novembre-dicembre 1955), sotto il titolo “L'amico”, nella “lettera aperta”, Calvino, anche a nome di Giulio Einaudi e di altri amici di Cesare Pavese, si congratula con Antonioni per la trasposizione cinematografica del romanzo Tra donne sole (Donne sole, 1949). Ha elogiato la sceneggiatura, preparata dallo stesso regista, da Suso Cecchi d'Amico e dalla scrittrice Alba de Céspedes, per aver conservato un certo “sapore pavesiano”.
Apprezzava lo “sguardo sensibile”, ma per niente indulgente, che il regista sapeva rivolgere sulla media borghesia torinese, in modo “spoglio e acre, basato sul rapporto di paesaggi sempre un po' squallidi e invernali con discorsi sospesi e quasi casuali tra i personaggi, uno stile cinematografico che rimanda alla lezione di attenuazione di tanti scrittori moderni, compreso Pavese”. C'erano riserve su alcuni personaggi femminili, come nel caso di Clelia, la principale, disapprovando addirittura l'interpretazione dell'attrice che l'ha interpretata, considerava il personaggio di Nene il più pavesiano di tutti, praticamente creato dalla sceneggiatura e dal rappresentazione del suo interprete.
Antonioni fu uno dei registi più apprezzati di Calvino. In un sondaggio condotto da CinemaNuovo, all'inizio del 1961, “Quattro domande sul cinema italiano”, relativo ai film Rocco ehi i suoi fratelli (Rocco e i suoi fratelli1960), L'avventura (L'avventura, 1960) e La dolce vita (La dolce vita, 1960), finì per preferire l'opera di Antonioni a quella di Fellini e Luchino Visconti, come metodo, rifiutando l'etichetta di “avanguardia decadente” – come ricorda Guido Fink –, che il critico cinematografico Guido Aristarco gli attribuiva ( all'insegna delle teorie di György Lukács), in quanto è un romanzo di solitudine esistenzialista: “È un film pessimista, che non cerca di addolcire la pillola, che non vuole moralizzare, di riformare le abitudini della borghesia come come cattolici di sinistra e radicali. Sei nel pantano e resta lì: questa è l'unica presa di posizione morale seria. Perché decadente? È un film di grande severità, con una moralità sempre vigile, perché basato sulla realtà umana, perché non è gratuito, non è letterario”.
Significativamente intitolato “Autobiografia di uno spettatore” (“Autobiografia di uno spettatore”), la prefazione al volume che raccoglieva quattro sceneggiature di Fellini – I vitelloni (L'accoglienza1953), La dolce vita, 81/2 (Otto e mezzo, 1963) e Giulietta degli spiriti (Giulietta degli spiriti, 1965) – successivamente ne entrò a far parte La strada per San Giovanni (Il sentiero di San Giovanni, diciannove novanta). Questa la prefazione, insieme all'intervista rilasciata a Lietta Tornabuoni per il quotidiano La Stampa, da Torino (23 agosto 1981), costituisce la maggiore fonte di riflessione di Italo Calvino sul cinema.
Incoraggiato dallo stesso Fellini a scrivere la sua autobiografia da spettatore, lo scrittore dedicò solo un quarto del testo alla sua opera filmica. Secondo Italo Calvino, da allora il cineasta si dedicò ininterrottamente all'elaborazione della storia della sua vita I vitelloni, “ma in lui la biografia diventa anche cinema, è il fuori che invade lo schermo, il buio della stanza che si riversa nel cono di luce. […] la biografia dell’eroe Felliniano – alla quale il cineasta ritorna ogni volta dall’inizio – è più esemplare della mia perché il giovane lascia la provincia, va a Roma e si sposta dall’altra parte dello schermo, fa cinema, diventa lui stesso cinema. Il film di Fellini è cinema alla rovescia, macchina di proiezione che inghiotte lo spettatore e macchina cinematografica che volta le spalle al set, ma i due poli sono ancora interdipendenti, la provincia acquista senso quando si ricorda Roma, Roma acquista senso quando si ricorda arrivati dalla provincia, tra le mostruosità umane dell'una e dell'altra si instaura una mitologia comune, che ruota attorno a gigantesche divinità femminili come Anita Ekberg di La dolce vita. E portare alla luce e classificare questa convulsa mitologia è il fulcro dell'opera di Fellini, con l'autoanalisi di Otto e mezzo come una spirale di archetipi. […] è necessario ricordare che nella biografia di Fellini l'inversione dei ruoli da spettatore a regista fu preceduta dall'inversione da lettore di settimanali umoristici a fumettista e collaboratore delle stesse riviste. La continuità tra il fumettista-umorista Fellini e il cineasta Fellini è data dal personaggio di Giulietta Masina […]. E non a caso, la filmanalisi del mondo di Masina, Giulietta degli spiriti, ha come riferimento figurativo e cromatico dichiarato i coloratissimi cartoni animati di Corriere dei piccoli: è il mondo grafico della diffusa carta stampata che rivendica fin dalle origini la sua speciale autorevolezza visiva e la sua stretta parentela con il cinema”.
In 1975, il Corriere della Sera ha pubblicato gli articoli “Sade è Dentro di noi (Pasolini, Salò)” (30 nov.), “Salute per Pasolini, salute contro società” (6 dicembre) e “Perché ho parlato di 'corruzione'” (10 dicembre), poi ribattezzato “Su Pasolini: una risposta a Moravia”. Nel primo testo, oltre a chiedersi se il regista fosse riuscito, effettivamente, a far penetrare lo spettatore nell'universo sadiano, Italo Calvino ha portato la sua analisi sul lato personale della vita di Pasolini, vedendo nel film la sua sofferenza per non aver riuscire a sfuggire alle maglie della corruzione che il denaro genera, contaminando tutto ciò che lo circonda. La proposta a Salò sarebbe stato poco chiaro, perché il suo autore non avrebbe avuto il coraggio di affrontare il “tema fondamentale del suo dramma: il ruolo che il denaro aveva cominciato ad avere nella sua vita da quando era diventato un cineasta di successo”.
Lo scrittore romano fu scontento dell'articolo, perché, interpretando male le parole dell'autore ligure, pensò di aver dato del corrotto a Pasolini, quando non era stata questa la sua intenzione. Inoltre, non gli piaceva affatto l'espressione “cineasta di successo”, alla quale Italo Calvino ha risposto con la sua controreplica: “Dicendo che era diventato un 'cineasta di successo', non dico, come Moravia vuole che dica, che era "di dentro", cioè faceva film con l'obiettivo del profitto, ma era "per gli altri", con tutto ciò che implica il fatto che sia diventato un personaggio dei "mass media" per qualcuno che continua a pensare , reagire, provocare secondo la sua esclusiva vocazione di intellettuale”.
Vale la pena ricordare che Italo Calvino non ha mai nascosto di non amare le opere cinematografiche di Pasolini; ha espresso la sua mancanza di apprezzamento durante la visione Accattone (Disadattamento sociale,, 1961), a Torino, e nelle lettere a Guido Aristarco, mentre scrive Il Vangelo secondo Matteo (Il Vangelo secondo Matteo, 1964) come “qualcosa di privo di significato e di dilettantistico”, e al critico letterario Gian Carlo Ferretti, quando affermava di non leggere i testi dell'intellettuale bolognese, né di guardare i suoi film, “che qui, a Parigi, provocano un delirio di entusiasmo”.
In un messaggio indirizzato allo stesso Pasolini, il 3 luglio 1964, elogiando la poesia “Vittoria”, gli chiese: “Quando la smetterai con il cinema?” Anche nel testo scritto dopo la morte del regista, “Ultima lettera a Pier Paolo Pasolini"(Corriere della Sera, 4 nov. 1975), ha evitato di fare riferimento alla sua produzione cinematografica.,
Nonostante i suoi scritti cinematografici, Italo Calvino si considerava uno spettatore. Uno “spettatore medio”, che da adolescente era sempre alla ricerca di nuove attrazioni e apprezzava sia le commedie che i film d’avventura, che anni dopo avrebbe considerato il genere popolare per eccellenza: “Sapevo già in anticipo quale film passavo per ogni sala, ma il mio occhio cercava i manifesti, affissi di lato, che annunciavano il prossimo film in cartellone, perché lì c'era la sorpresa, la promessa, l'attesa che mi avrebbe accompagnato nei giorni successivi”.
“I film d'avventura e i film comici corrispondono entrambi, credo, allo stesso elementare bisogno interiore: lasciarsi sorprendere da un'emozione, che può essere quella che provoca una risata o quella che ci libera dalla tensione del pericolo. Vorrei sostenere la creazione di una buona narrativa d'avventura e di un buon cinema d'avventura. L’Italia non ha mai avuto né l’uno né l’altro. E il racconto d'avventura è l'unico racconto popolare possibile; e il cinema d’avventura è l’unico cinema popolare possibile”.,
Cinema, quindi, come sorpresa e anche come evasione, non in senso negativo, ma come il mezzo che, più velocemente e facilmente, lo trasportava lontano, che permetteva «di soddisfare un bisogno di straniamento, di proiettare la mia attenzione dentro uno spazio diverso, un'esigenza che credo corrisponda a una funzione primaria del nostro inserimento nel mondo, tappa indispensabile in ogni formazione. […]
Rispondeva a un bisogno di distanza, di dilatare i limiti della realtà, di vedere aprirsi intorno a me dimensioni incommensurabili, astratte come entità geometriche, ma anche concrete, assolutamente piene di volti e situazioni e ambienti che, con il mondo dell'esperienza diretta, hanno stabilito una propria (e astratta) rete di relazioni”.
La sua passione per la settima arte, però, non si tradusse in un contributo costante all'industria cinematografica, né lo portò a voler cambiare campo: “Sentivo […] che, in nome del mio antico amore per il cinema , dovevo preservare la mia condizione di mero spettatore, e chi perderebbe i privilegi di questa condizione se si mettesse dalla parte di chi fa i film”.
Nonostante questa affermazione, lo scrittore produsse alcuni testi cinematografici e televisivi, non tutti filmati: una sceneggiatura di undici pagine dattiloscritte, senza titolo, divisa in sette parti – “Una fabbrica che proibisce il matrimonio”, “Il matrimonio segreto” , “Una luna di miele in piedi”, “Un capufficio intraprendente”, “L'autocolonna degli amanti”, “Gli orari che non combinano” –, scritto nel dopoguerra e che darà origine al racconto “L'avventura dei due sposi” (“L'avventura dei due sposi”, 1958), il testo di Canzone triste (1958), con musiche di Sergio Liberovici, e la sceneggiatura del primo episodio di Boccaccio '70 (Boccacci 70, 1961), “Renzo e Luciana”, scritto in collaborazione con Giovanni Arpino, Suso Cecchi d'Amico e Mario Monicelli;
Proposte di serie televisive TV comica, Mi fidanzati impossibile e Grande Guignol; un argomento ambientato durante il periodo della Resistenza, Viaggio in camion, pubblicato in Cinema Nuovo (25 aprile 1955); Marco Polo (1960), una lunghissima sceneggiatura scritta su richiesta di Mario Monicelli, Suso Cecchi d'Amico e il produttore Franco Cristaldi per un documentario mai realizzato, ma primo passo verso La citazione invisibile; l'argomento Tikò e il pesce (c. 1958-1960), liberamente ispirato al romanzo Ti-Koyo et son requin, di Clement Richter, pubblicato nel ABC (9 settembre 1962) e portato sullo schermo, con il titolo di Ti-Koyo e il suo pesce, di Folco Quilici (1962), che insieme allo scrittore, Augusto Frassinetti e Ottavio Alessi, ne scrisse anche la sceneggiatura;
Due testi per film non realizzati da Michelangelo Antonioni – del primo (probabilmente della metà degli anni Sessanta), interpretato da Soraya, seconda moglie dello Scià di Persia, Mohammad Reza Pahlavi, resta la sceneggiatura, della durata di circa dodici pagine, suddivisa in sei seguiti – “Risveglio e telefono”, “Il bagno”, “Dal parrucchiere”, “Il tucano fuggito”, “La madre del carcerato” e “La ragazza difficile” –, mentre del secondo è rimasto solo il contratto con il produttore Carlo Ponti, per il quale lo scrittore si è impegnato a scrivere la sceneggiatura del regista, Tecnicamente dolce (Tecnicamente dolce) [10] –, con il quale avrebbe dovuto collaborare anche alla sceneggiatura Saltare (Blow-up – dopo quel bacio, 1966), ma il momento non era propizio, come spiegò in una lettera al regista; sei favole teatrali, su bozzetti del pittore e scenografo Toti Scialoja, per Ho aperto il teatro, programma per bambini trasmesso in TV nel 1978, secondo le informazioni raccolte in “Cronologia”.
Secondo Giovanni Bogani furono poche anche le sue opere portate sullo schermo, estratte da raccolte di racconti brevi Gli amori difficili, Marcovaldo ovvero le sue stagioni in città, Ti con zero (Tu con zero, 1967, a cui successivamente si unì Tutte le cosmicomiche) E Ultima visita al corvo, o quello delle cronache Un ottimista in America, 1959-1960 (pubblicato postumo nel 2014) e il romanzo Il cavaliere insistente. Essi sono: il già citato episodio “Renzo e Luciana”; L'avventura di un soldato (1962), di Nino Manfredi, trasposizione del racconto omonimo (“L'avventura di un soldato”), Abenteur eines Lesers (1973), di Carlo di Carlo, film televisivo tedesco, ispirato a “L'avventura di una lettera"("L'avventura di un lettore") e Avventura di un fotografo (1983), di Francesco Maselli, film per la tv, tratto dal racconto omonimo (“L'avventura di un fotografo”); Marcovaldo (1970), di Giuseppe Bennati, serie televisiva in cinque capitoli; Die Verfolgung (1972), di Carlo di Carlo, film televisivo tedesco, tratto dal racconto “L'inseguimento”; Palookaville (1995), di Alan Taylor, liberamente ispirato a “Ultimo viene il corvo”; America paese di Dio (1967), di Luigi Vanzi; Il cavaliere insistente (1969-1970), di Pino Zac, un mix rispettivamente di fiction e animazione. Da un'altra storia di Ti con zero, “Il guidatore notturno”, sia Michelangelo Antonioni che Jean-Paul Torok pensarono di realizzare un film. Inoltre Calvino si oppose sempre ad autorizzare la trasposizione cinematografica del suo primo romanzo, Mi sono sentito allo stesso modo, come nel caso del regista esordiente Giorgio Viscardi.
Come confidò a Lietta Tornabuoni, ciò che Italo Calvino voleva, però, era essere plagiato, perché gli sembrava più lusinghiero, anche se per niente redditizio. Questo è quello che sarebbe successo con la telenovela, Furto in pasticceria, che Alessandro Blasetti non ha potuto filmare, ma che avrebbe ispirato il seguito I soliti ignoti (Le eterne incognite, 1958), in cui i ladri mangiano nella cucina dell'appartamento che erano andati a derubare, secondo Furio Scarpelli, uno degli sceneggiatori del film di Mario Monicelli.
Bogani, inoltre, avanza l'ipotesi che abbia ispirato “L'inseguimento”. L'ingorgo (Il grande ingorgo, 1979), di Luigi Comencini, mentre Il cavaliere insistente sarebbe alla base dell'armatura vuota che appare in Io paladino (1983), di Giacomo Battiato. Questo è anche quello che è successo con il primo capitolo del romanzo. Paura di volare (Paura di volare, 1975), in cui “L'avventura di un soldato”, è stato tradotto ancora una volta in parole dopo aver dato origine a un film fatto interamente di immagini, secondo una lettera di Calvino a Erika Jong.
Nonostante la sua collaborazione con l’industria cinematografica, però, il focus di questo testo è lo spettatore Italo Calvino, uno spettatore privilegiato, il cui atteggiamento nei confronti del cinema cambiò nel corso della sua vita, come lui stesso dichiarò: “Dopo la guerra, molte cose erano cambiate: Ero cambiato e il cinema era diventato un'altra cosa, un'altra cosa in sé e un'altra cosa rispetto a me. La mia biografia di spettatore riprende il suo corso, ma è quella di un altro spettatore, che non è più solo spettatore”.
“Con tante altre cose in mente, se rivisitassi il cinema hollywoodiano della mia adolescenza, pensavo che fosse povero […]. Anche i miei ricordi della vita di quegli anni erano cambiati, e tante cose che avevo considerato insignificanti della quotidianità adesso si coloravano del significato di tensione, di premonizione. Alla fine, quando ho riconsiderato il mio passato, il mondo sullo schermo mi si è rivelato più pallido, più prevedibile, meno emozionante del mondo esterno”.
“I sapori dell’adolescenza sono stati spazzati via, parlarne è come se appartenessero alla vita di qualcun altro. […] Quando ho cominciato a far parte del mondo della carta stampata, il cinema fatto da persone che conoscevo non mi colpiva più molto. Non c'era più il sentimento della lontananza, del mistero mitico, dell'espansione dei limiti della realtà: per ritrovarlo dovevo guardare film giapponesi, che appartenevano a un mondo completamente lontano. Si è persa l'emozione dello stupore, quella dello spettatore incantato, a bocca aperta come un bambino, caratteristica di un tempo in cui la gamma delle immagini era limitata, l'esperienza di contemplare le immagini era insolita e rara, e non consueta e quotidiana come è oggi”.,
Quando la realtà, e non più la sua rappresentazione, entra nell'esistenza del giovane Italo, egli diventa “attore”, come ricorda Goffredo Fofi: “è partigiano, attivista, impiegato, giornalista, scrittore, intellettuale. Si butta nella vita, vi partecipa in prima persona, assume responsabilità sociali in modo estremamente intenso, con una precisa posizione politica. Poi arriva il 1956, la fine della Guerra Fredda, l' boom, l'Italia del benessere. E Italo Calvino è ancora una volta spettatore”.
Uno spettatore più disincantato, invece, ancora alla ricerca dell’“incontro eccezionale” tra sé e un film, per caso o grazie all’arte: “Nel cinema italiano ci si può aspettare molto dal genio personale dei registi, ma ben poco da opportunità. Questo deve essere uno dei motivi per cui a volte ho ammirato, spesso apprezzato, ma mai amato il cinema italiano. Sento che dal mio piacere di andare al cinema ha preso più di quello che ha dato. Perché questo piacere va valutato non solo sulla base dei 'film d'autore', con i quali instauro un rapporto critico di tipo 'letterario', ma anche sulla base di ciò che può apparire nuovo nella media e piccola produzione, con i quali cercare di ristabilire un rapporto di mero spettatore. […] per ricreare il piacere del cinema devo uscire dal contesto italiano e riscoprirmi mero spettatore”.
Il repertorio cinematografico della sua adolescenza – che arricchì d'estate, recuperando film degli anni precedenti – si era ampliato nei cineforum, nella Cineteca francese e nei cinema del Quartier Latin (dove recuperava cassette degli anni '1920 e '1930, o guardava gli ultimi polacco e brasiliano,) e a Londra, ma non con letture di opere teoriche o di storia del cinema. Il nuovo spettatore emerso in età adulta, se da un lato continuava legato ad un cinema “ben fatto”, che andava oltre quello meramente artigianale, come i banger-bang di stampo nordamericano o italiano, dall’altro aveva superato interessarsi a film più cerebrali, ma senza lasciarsi intrappolare dallo psicologismo o da uno “spettacolo esclusivamente tecnologico” o da “sofisticazioni intellettuali”, come dichiarava Lietta Tornabuoni, che lo portava a rifiutare Senza fiato (molestato, 1960), di Jean-Luc Godard, che, in un sondaggio di CinemaNuovo (1961), considerato “Letterario e libero […], e quindi immorale, e quindi – arrivati fin qui – decadente”, ovvero il gioco di incastri di L'anno scorso a Marienbad (L'anno scorso a Marienbad, 1961), di Alain Resnais. Inoltre, come affermato in una lettera a Guido Aristarco e in un'intervista a Lietta Tornabuoni:
“Non mi hanno nemmeno convinto deserto rosso [il deserto rosso, 1964, di Antonioni], non Il silenzio [Tystnaden/Il silenzio, 1963, di Ingmar Bergman] […]”.
“Il film più interessante che ho visto nel 1964 è Il servitore [O criad, 1963], di [Joseph] Losey. Mi sembra infatti un esempio unico, nella storia del cinema, di film filosofico, oltre ad avere una rigorosa narrazione cinematografica. 2001: Odissea nello spazio, [2001: un'odissea nello spazio, 1968], di [Stanley] Kubrick è un film bellissimo, immenso, Apocalisse ora [Apocalisse ora, 1979], di [Francis Ford] Coppola, mi sembra bellissimo, tranne Marlon Brando: ma non voglio mettermi a teorizzare, a fare discorsi sul gusto cinematografico o sulla poetica. […]”
«Sono stato tra i difensori del cinema popolare e artigianale finché non è diventato una bandiera per tanti intellettuali che lo hanno teorizzato trasformandolo in un'altra sciocchezza. Senza alcuna prevenzione, cerco di essere disponibile per quello che vale: di regola, però, e non solo nel cinema, preferisco la professionalità alla levità considerata ispirata”.
Per Italo Calvino il cinema era stato “un'altra dimensione del mondo” oppure “una dimensione, un mondo, uno spazio della mente”. Opponeva l'organicità dell'universo cinematografico ad una realtà informe, il cui richiamo lo affascinava e lo trasportava in altre dimensioni: “Un mondo altro da quello che mi circondava, ma per me solo quello che vedevo sullo schermo aveva le proprietà di un mondo , la pienezza, la necessità, la coerenza, mentre fuori dallo schermo elementi eterogenei ammucchiavano, come gettati insieme a caso, i materiali della mia vita, che mi sembrava priva di ogni forma. […]”
“Quando […] sono entrato al cinema alle quattro o alle cinque, quando sono uscito sono rimasto colpito dalla sensazione del passaggio del tempo, dal contrasto tra due dimensioni temporali diverse, dentro e fuori il film. Era entrato in pieno giorno e fuori aveva trovato il buio, le strade illuminate che prolungavano il bianco e nero dello schermo. Il buio un po' attutiva la discontinuità tra i due mondi e un po' l'accentuava, poiché segnava il passaggio di quelle due ore che non avevo vissuto, assorbito in una sospensione del tempo, o nella durata di una vita immaginaria, o nel salto indietro attraverso i secoli. […] Quando nel film pioveva, ascoltavo per vedere se avesse cominciato a piovere anche fuori, se un temporale mi avesse sorpreso perché ero scappato di casa senza ombrello: era l’unico momento in cui, pur restando immerso in quell'altro mondo, mi ricordava il mondo esterno; ed è stato un effetto straziante. La pioggia nei film risveglia ancora in me quel riflesso, un sentimento di angoscia”.
“[…] bastò l’intervallo tra la prima e la seconda parte del film (altra strana usanza, esclusivamente italiana, che inspiegabilmente continua ancora oggi) per ricordarmi che ero ancora in quella città, quel giorno, a quell’ora : e, a seconda dell'umore del momento, aumentava la soddisfazione di sapere che, da un momento all'altro, mi sarei ritrovato nuovamente proiettato nei mari della Cina o nel terremoto di San Francisco; oppure l’avvertimento mi opprimeva perché non dimenticassi che ero ancora qui, per non perdermi, lontano”.
Il “cinema di distanza” della sua giovinezza, però, scompare per lasciare il posto al “cinema di prossimità”: “Dal dopoguerra in poi il cinema è stato visto, discusso, fatto, in modo totalmente diverso. Non so quanto il cinema italiano del dopoguerra abbia cambiato il modo in cui vediamo il mondo, ma sicuramente ha cambiato il modo in cui vediamo il cinema (qualsiasi cinema, anche quello americano). Non esiste un mondo dentro lo schermo illuminato nella stanza buia e fuori un altro mondo eterogeneo separato da una discontinuità netta, oceano o abisso. La stanza buia scompare, lo schermo è una lente d'ingrandimento posta sull'esterno quotidiano, e ci costringe a guardare ciò attraverso cui l'occhio nudo tende a scivolare senza sosta. Questa funzione ha – può avere – una sua utilità, piccola, o media, o in alcuni casi enorme. Ma quel bisogno antropologico e sociale di distanza non è soddisfatto”.
A questi film “capaci di affascinare con la forza”,, lo scrittore ha lanciato una sfida, per conquistare il grande pubblico; Pertanto, mentre i critici elogiavano i registi considerati neorealisti,, gli interessavano di più registi come Pietro Germi (“anche se Germi sa sempre benissimo quello che vuole”), il duo Steno-Monicelli – autori di Custodire e rubare (Guardie e ladri, 1951) – e Luigi Zampa da L'onorevole Angelina (Angelina, il vice, 1947) e, soprattutto, di Il romano (Il romano, 1954),, che finì per apprezzare, pur ritenendo, come riferisce Michele Canosa, che il film fosse stato danneggiato dalla sceneggiatura schematica e misurata degli scrittori Giorgio Bassani e Alberto Moravia – quest'ultimo autore del romanzo omonimo (1947) –, da cui ha avuto origine, completando: “Il film d'autore è qualcosa di molto bello, ma resterà sempre un'opera eccezionale, è un film che facciamo per noi stessi e poi guardiamo con un occhiolino e un clic della lingua. Ma il problema interessante del nuovo cinema era vedere se il linguaggio dei Visconti, dei De Sica, dei Rossellini, dei Castellani, potesse proliferare, se, con il suo stile poetico, potesse diventare linguaggio comune, e dare vita a una bella serie di popolari e delle farse popolari di media produzione. Allora avremmo avuto la prova che non si trattava solo di un movimento culturale, ma dialetticamente legato a un movimento di istanze e di gusti pubblici”.
“Zampa è un regista che ci interessa sempre, per la sua capacità di offrire immagini tangibili agli umori, al moralismo pessimistico dell’italiano medio, al suo giudizio sugli ultimi tempi, e di creare maschere comiche o drammatiche contemporanee”.,
I nomi di Zampa, Monicelli, Steno e Germi riportano alla mente la commedia all'italiana, con la quale lo scrittore mantenne un rapporto conflittuale, pur rendendo omaggio, direttamente, in Renzo e Luciana, di Mario Monicelli, per essere stato uno degli sceneggiatori di quella che era considerata la parte più debole del Boccaccio '70 (Boccaccio '701961),, e, indirettamente, in L'avventura di un soldato, di Nino Manfredi, episodio del film collettivo L'amore difficile (1962), basato esclusivamente su gesti e silenzi, che, secondo Roberto Poppi, la critica consacrò come il miglior racconto breve non solo del film di cui faceva parte, ma di tutto il cinema italiano realizzato in quel periodo.
Questo sentimento di attrazione/rifiuto, che riguardava la rappresentazione del modo di vivere dei suoi connazionali, era lo stesso che, nel profondo, suscitava in lui alcune opere di Fellini: “Dovrei allora parlare della commedia satirica di costume che in tutto il decennio del 1960 costituiva la produzione media tipica dell'Italia. Nella maggior parte dei casi lo trovo detestabile, perché quanto più la caricatura dei nostri comportamenti sociali vuole essere spietata, tanto più si rivela compiacente e indulgente; in altri casi la trovo amichevole e di buon carattere, con un ottimismo che rimane miracolosamente genuino, ma poi sento che non mi costringe a fare un solo passo avanti nella conoscenza di noi stessi. In ogni caso, guardarsi direttamente negli occhi è difficile. È giusto che la vitalità italiana incanta gli stranieri, ma lascia me indifferente”.
“[…] Fellini può andare molto avanti sulla via della repulsione visiva, ma sulla via della repulsione morale si ferma, recupera il mostruoso per l’umano, per indulgente complicità carnale. Vuole la provincia vitellona La Roma di entrambi i cineasti è un girone infernale, ma allo stesso tempo è una terra di abbondanza di cui si può godere. Ecco perché Fellini riesce a disturbare fino alla fine: perché ci costringe ad ammettere che ciò da cui vorremmo più allontanarci ci è intrinsecamente vicino”.
“Come nell’analisi della nevrosi, passato e presente mescolano le loro prospettive; come nello scatenamento della crisi isterica, essi si esteriorizzano nello spettacolo. Fellini fa del cinema la sintomatologia dell'isterismo italiano, quello specifico isterismo familiare che, prima di lui, veniva rappresentato come un fenomeno prevalentemente meridionale e che lui, da quel luogo di mediazione geografica che è la sua Romagna, ridefinisce in Amarcord come il vero elemento unificante del comportamento italiano”.
L’autore, nel ricordare la sua formazione di spettatore, evitava di affidarsi a testi di riferimento o specialistici, anche se, all’epoca, seguiva con interesse le critiche di Filippo Sacchi e Pietro Bianchi: “I miei sono ricordi di chi sta scoprendo il cinema in quel momento […].
Questi ricordi fanno parte di un magazzino mentale e personale in cui non contano i documenti scritti, ma solo il deposito casuale di immagini nel corso dei giorni e degli anni, un magazzino di sensazioni private che non ho mai voluto mescolare con i depositi della memoria collettiva.
Il repertorio calvinista delle immagini in movimento venne nutrito dal cinema americano, prima, e, nel corso degli anni, da quello francese, italiano e giapponese. Questi, che ammirava le opere di Koji Shima e Akira Kurosawa, fu colui che più lo portò a ribellarsi all'abitudine, in vigore nel suo Paese, di non proiettare film in lingua originale: “è una mutilazione culturale vedere doppiati in italiano anche i film giapponesi, nei quali l'avvenimento fonico, i toni, l'ansimare, il ritmo del dialogo sono essenziali”.,
Con il cinema francese ha incontrato un altro tipo di stranezza: gli odori di cui era pieno; la presenza carnale delle attrici, che si installavano “nella memoria come donne vive e, allo stesso tempo, come fantasmi erotici”, e non come esseri idealizzati; realismo, che gli ha permesso di collegare ciò che vedeva sullo schermo con la sua esperienza; le “cose più inquietanti e vagamente proibite” da lui proposte, come in Il porto delle nebbie (Molo dell'Ombra, 1938), di Marcel Carné, in cui Jean Gabin “non era un ex combattente che voleva dedicarsi alla coltivazione di una piantagione nelle colonie, come il doppiaggio italiano cercava di farci credere, ma un disertore in fuga dal anteriore, un argomento che la censura fascista non avrebbe mai consentito”. A differenza del cinema francese degli anni Trenta, per lui “il cinema americano di allora non aveva nulla a che fare con la letteratura”, era “qualcosa di separato, quasi senza prima né dopo” nella storia della sua vita.
Ciò che lo affascinava del cinema di Hollywood era la gamma di volti maschili e femminili che offriva. Tra gli attori, Calvino elencava William Powell, Leslie Howard, Fred Astaire, Spencer Tracy, Clark Gable, Gary Cooper, Franchot Tone, James Stewart, che, accanto ai comprimari, costituivano una costellazione di tipologie, generalmente prevedibili, come quelle da IL commedia dell'arte. Li contrappose al volto di Jean Gabin, “fatto di un'altra materia, fisiologica e psicologica”, che si alza dal piatto, macchiato di zuppa e pieno di umiliazione, nella sequenza iniziale di La bandiera (La bandiera, 1935), di Julien Duvivier.
Tra le attrici, ha messo in risalto quelle che rappresentavano l'autonomia delle donne americane, da Jean Arthur a Carole Lombard, passando per Claudette Colbert, Joan Crawford, Katharine Hepburn, Barbara Stanwyck, così come Marlene Dietrich e, più tardi, Marilyn Monroe, che hanno introdotto nuove comportamenti in una società di provincia come quella italiana di quel periodo: “da Myrna Loy avevo ricavato il mio prototipo dell'ideale femminile, quello di moglie, o forse di sorella, o, qualunque sia, dell'identificazione del gusto, di stile, prototipo che conviveva con i fantasmi dell'aggressività carnale (Jean Harlow, Viviane Romance) e della passione estenuante e languida (Greta Garbo, Michèle Morgan), per la quale l'attrazione che provava si venava di un senso di paura; o con quell'immagine di felicità fisica e di gioia vitale che fu Ginger Rogers, per la quale ebbi un amore infelice fin dall'inizio, anche nella mia vita. fantasticherie – perché non sapevo ballare”.
«Possiamo chiederci se costruire un olimpo di donne ideali e finora irraggiungibili sia stato un bene o un male per un giovane. Aveva certamente un aspetto positivo, poiché incoraggiava a non accontentarsi del poco o del molto che si trovava, e a proiettare i propri desideri più lontano, nel futuro o altrove o nel difficile: l'aspetto negativo era che non insegnava come guardare le donne vere con un occhio pronto a scoprire bellezze inedite, non conformi ai canoni, a inventare nuovi personaggi con ciò che il caso o la ricerca ci fa trovare al nostro orizzonte”.
Date queste affermazioni, non c'è bisogno di ricordare che, tra il 1955 e il 1959, Italo Calvino ebbe una relazione con un'attrice, l'affascinante contessa Elsa de' Giorgi, sposata e di nove anni più grande di lui. I due si sono conosciuti a Firenze, durante una sessione di lettura di “Il midollo del leone”, uno dei saggi che lo scrittore aveva appena pubblicato. Tra gli altri film, l'attrice ha recitato in “La ricotta”, episodio di RoGoPaG, 1963) e ha interpretato uno dei narratori di Salò, entrambi di Pasolini. Nel 1955, l'autore riuscì a farlo io coetanei, l'opera memoriale dell'attrice, fu pubblicata, entrando in contrasto epistolare con un altro editore Einaudi, lo scrittore Elio Vittorini, per la sua lettura del libro.
Come registrato da Paolo Di Stefano, nel 1992, pubblica Elsa de' Giorgi Ho visto il tuo treno partire, in cui raccontava la sua storia d'amore con lo scrittore, estraendo il titolo da una delle innumerevoli lettere d'amore che lui le aveva inviato. Secondo Domenico Scarpa, nell'epistolario, “la passione si manifestava senza difese psicologiche e senza cautele stilistiche”.
Nel cinema propugnato da Italo Calvino, che per lui era fatto meno di registi che di attori e attrici, questi non esistevano del tutto, poiché non conosceva le loro voci, sostituite da quelle dei doppiatori italiani, voci che suonavano assurde, " metallicamente deformato dai tecnici mediatici dell'epoca, e ancor più assurdo per la leziosità del doppiaggio italiano, che non aveva alcuna relazione con alcuna lingua parlata del passato o del futuro. Eppure, la falsità di quelle voci doveva avere in sé una forza comunicativa, come il canto delle sirene, e […] sentivo il richiamo di quell’altro mondo che era il mondo”.
“[…] di ogni attore o attrice c’era solo la metà, cioè solo la figura e non la voce, sostituita dall’astrazione del doppiaggio, da una dizione convenzionale e strana e blanda, non meno anonima delle parole stampate sulla schermo che in altri paesi (o almeno in quelli dove gli spettatori sono considerati più agili mentalmente) informano ciò che la loro bocca comunica con tutta la carica sensibile di una pronuncia personale, di un acronimo fonetico fatto di labbra, denti, saliva, fatto soprattutto delle diverse origini geografiche del melting pot americano, in un linguaggio che, per chi lo capisce, rivela sfumature espressive e, per chi non lo capisce, ha un pizzico di potenzialità musicale in più (come quello che ascoltiamo oggi in film giapponesi o anche svedesi). Pertanto, la convenzionalità del cinema americano mi è venuta doppiata doppiamente (scusate il gioco di parole) dalla convenzionalità del doppiaggio stesso, che però è giunta alle nostre orecchie come parte del fascino del film, inseparabile dalle immagini. Segno che la forza del cinema nasce muta, e la parola – almeno per gli spettatori italiani – è sempre stata sentita come una sovrapposizione, una didascalia a stampa. (Infatti i film italiani dell’epoca, se non erano doppiati, erano come se lo fossero. […])”.
Il pubblico era un altro motivo di interesse per lo scrittore, per il quale il cinema era costituito non solo dal film stesso, ma anche dalla presenza degli spettatori: “il cinema è e ha la realtà più immediata e l'idealizzazione più eccessiva, una libertà di espressione grande quanto il mondo visibile e una convenzione estremamente codificata, la fama più alta e sfacciata, l'atmosfera di ricchezza onnipotente e, insieme, il sentimento di lavorare per un mondo di poveri, per le folle anonime che si accalcheranno le stanze buie."
“Cinema significa sedersi in mezzo a un pubblico che sbuffa, ansima, schernisce, succhia caramelle, dà fastidio, entra, esce, legge anche ad alta voce i sottotitoli, come nel muto; Il cinema sono queste persone, più la storia che accade sullo schermo. […] Questo pubblico ha un rapporto dialettico con la creazione cinematografica: si lascia riempire dal cinema, ma, a sua volta, si impone sul cinema”.,
Italo Calvino fu uno spettatore tra altri spettatori, è vero, ma uno spettatore privilegiato poiché, come hanno sottolineato alcuni critici, tra cui Lietta Tornabuoni e Antonio Costa,, sarebbe possibile stabilire un rapporto tra la settima arte e la sua opera saggistica e romanzata, in cui sarebbe interessante evidenziare come il cinema e gli altri media audiovisivi siano stati importanti nella costituzione del suo immaginario visivo e della sua visione del mondo.
Come affermava Pasolini, in Calvino c'è sempre stata una tensione tra il mondo così com'è e il mondo come lui vorrebbe che fosse. In questo modo, l'autore ligure sarebbe una sorta di essere ibrido: un ragazzo ancora spinto dalla curiosità e un vecchio aggrappato al proprio passato, che, concependo la cultura come un insieme di fossili, non riesce a proiettarsi nel futuro. . In altre parole, meno crude, c'era nello scrittore un lato razionale e un lato pessimistico, un pessimismo aggravato dalla fine di una cultura (e di un'ideologia) all'interno della quale si era formato e nella quale il cinema aveva un ruolo preponderante.
*Mariarosaria Fabris è professore in pensione presso il Dipartimento di Lettere Moderne della FFLCH-USP. Autore, tra gli altri libri, di Il neorealismo cinematografico italiano: una lettura (edusp).
Versione ampliata del testo omonimo pubblicato nel Atti dei testi integrali del XVIII Convegno SOCINE, San Paolo, Socine, 2015.
Riferimenti
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__________. Lettera 1940-1985. Milano: Mondadori, 2000 [“A Cesare Zavattini – Roma” (11 dicembre 1951); “Michelangelo Antonioni – Roma” (novembre-dicembre 1955); “Michelangelo Antonioni – Roma” (3 ottobre 1962); “Michelangelo Antonioni – Roma” (12 ottobre 1962); “A Guido Aristarco – Milano” (22 febbraio 1965); “Michelangelo Antonioni – Roma” (29 settembre 1965); “A Gian Carlo Ferretti – Milano” (3 febbraio 1969); “A Giorgio Viscardi – Roma” (8 aprile 1974); “Erika Jong – New York” (10 aprile 1975)].
________. “Sade è dentro di noi (Pasolini, Salò)”; “Su Pasolini: una risposta a Moravia”. In: Saggi 1945-1985. 2 t. Milano: Mondadori, 1995.
________. “Cinema del Sud: contributo a una bibliografia”. In: PELLIZZARI, on. cit. [da dove sono stati estratti dati e brani tratti dagli articoli “Tra i pioppi della risaia la 'cinecittà' delle mondine”; “La paura di sbagliare”; “Gina burocratica”; “Quattro domande sul cinema italiano”; “Ultima lettera a Pier Paolo Pasolini”; “A coscienza dramma”; “Film di bambini (Austria e Brasile)”].
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TORNABUONI, Lietta. “Calvino: il cinema insistente”. In: PELLIZZARI, on. cit.
note:
[1] Opere di Calvino finora tradotte in portoghese dalla Companhia das Letras: Un colpo di pietra. Discorsi di letteratura e società (Argomento chiuso – Discorsi su letteratura e società1980), Raccolta di saggezza (Raccolta della sabbia1984), Lezioni americane – So cosa proponete per il prossimo millennio (Sei proposte per il prossimo millennio – Lezioni americane1988), Perché leggere i classici (Perché leggere i classici1991), Mondo scritto e mondo non scritto (Mondo scritto e mondo non scritto – Articoli, conferenze e interviste2002), Nato nel sonno in America. Intervistato 1951-1985 (Sono nato in America… una vita in 101 conversazioni (1951-1985), 2022) – saggi e interviste; La strada per San Giovanni (Il sentiero di San Giovanni1990), Eremita a Parigi. Pagina dell'autobiografia (Eremita a Parigi – Pagine autobiografiche, 1996), , Un ottimista in America, 1959-1960 (Un ottimista in America 1959-1960, 2014) – testi autobiografici; Premi e dici "Pronto" (Un generale in biblioteca, 1958) – aploghi e racconti; Mi sono sentito allo stesso modo (Il sentiero del nido del ragno1947), Il visconte dimezzato (Il visconte si spaccò a metà1952), Il barone rampante (Il barone tra gli alberi1957), Il cavaliere insistente (Il cavaliere inesistente, 1959), i tre si riunirono Non ti ho aspettato (I nostri antenati1960), L'edilizia speculativa (Speculazione immobiliare1963), Il lavoro di uno scrutatore (Una giornata da scrutatore1963), Ho destinato il castello agli incrociati (Il castello dei destini incrociati1973), Se una sera d'inverno è un viaggiatore (Se un viaggiatore in una notte d'inverno1979), colombaia (colombaia, 1983) – romanzi; Ultima visita al corvo (Per ultimo arriva il corvo1949), Entra in guerra (Entrata in guerra1954), Marcovaldo ovvero Le stagioni in città (Marcovaldo o le stazioni della città1963), Le cosmicomiche (Le cosmicomiche1965), Gli amori difficili (Amori difficili1970), La citazione invisibile (le città invisibili1972), Sotto il sole giaguaro (Sotto il sole del giaguaro1986), Tutte le cosmicomiche (Tutte le cosmicomiche, 1997), – racconti e romanzi; Fiabe italiane raccolte dalla tradizione popolare nel secolo scorso e trascritte in lingua da vari dialetti di Italo Calvino (Favole italiane1956), La scommessa a chi primo s'arrabbia (Perde chi si arrabbia per primo, 1956) – letteratura per ragazzi; Racconti fantastici dell'Ottocento (Racconti fantastici dell'Ottocento scelti da Italo Calvino, 1983) – organizzatore.
[2] “Bing Crosby teologo” (30 giugno 1946), “Valenti oleografico” (25 luglio 1946), “Hollywood puritana” (10 novembre 1946), “Tra i pioppi della risaia la 'cinecittà' delle mondine” (14 luglio 1948) e “Film cecoslovacchi” (6 gennaio 1950).
[3] “La televisione in risaia” (3 aprile 1954) e “Gina burocratica” (20 novembre 1954); “Inchiesta su censura e spettacolo in Italia” (novembre 1961); “Le donne si salvano?” (29 aprile 1962); “Réponse à 'Questions aux romanciers'” (dicembre 1966); “Sade è dentro di noi (Pasolini, Salò)” (30 novembre 1975), “Perché ho parlato di 'corruzione'” (10 dicembre 1975) e “Quel gran cinico Groucho Marx” (28 agosto 1977); “Un dramma di coscienza” (12 settembre 1981), “Diario di uno scrittore in giuria: un giudizio sicuro e subito il dubbio” (13-14 settembre 1981), “L'anima e il gioco blasfemo” (31 luglio 1983) e “La parola alla Difesa” (24 novembre 1983), rispettivamente.
[4] “Il realismo italiano nel cinema e nella narrativa (1 maggio 1953); “Venezia primo tempo: l'inaugurazione” (1 settembre 1954); “La paura di sbagliare” e “Gli amori difficili dei romanzi coi film” (25 settembre 1954); “Demone dell'oro” (25 ottobre 1954); “Viaggio in camion (“Proposte per film”)” (25 aprile 1955); “La noia a Venezia” (25 agosto 1955); “Padre Marrone e don Camillo” (25 marzo 1956); “Sciolti dal Giuramento"(15 dicembre 1957); «Malraux da speranza a De Gaulle”(luglio-agosto 1958); “Due film e Stalin” (gennaio-febbraio 1959); “Impressioni di viaggio americane: alla sera non si esce, quindi al cinema non ci siva” ((luglio-agosto 1960); “Quattro domande sul cinema italiana” (gennaio-febbraio 1961); “Un Traven falsificato” (maggio-giugno 1962); “I migliori film dell'anno (1964)” (marzo-aprile 1965); “Film di bambini (Austria e Brasile)” (novembre-dicembre 1985); “[ Dalla corrispondenza]” (maggio-giugno 1986).
[5] Benché qui raccolte in un unico testo, si tratta di due affermazioni di Calvino pubblicate dal quotidiano romano La Repubblica (12 settembre 1981): la prima, tratta dall'articolo “'Abbiamo Voto per la sua umanità'”, di Natalia Aspesi; il secondo, da “Un dramma di coscienza”, dello stesso autore, come riportato in “Sul cinema: contributo a una bibliografia”.
[6] Zavattini è stato uno degli sceneggiatori e sceneggiatori di Dai un milione (1935), di Mario Camerini, uno dei film italiani che Calvino continuò ad apprezzare, come afferma Lietta Tornabuoni.
[7] Poiché la maggior parte delle citazioni che compongono questo testo sono state tratte da “Autobiografia di uno spettatore”, non verranno più evidenziate.
[8] Commenti su Accattone e sul cinema pasoliniano sono stati estratti rispettivamente dal volume delle lettere di Fofi e di Calvino. La composizione “Vittoria” fa parte del volume pasoliniano Poesia sotto forma di rosa (1964).
[9] Citazioni di Calvino e affermazioni tratte rispettivamente da Tornabuoni e Canosa sono riunite in un unico testo.
[10] La sceneggiatura Tecnicamente dolce finì per essere scritto da Antonioni, a metà degli anni Sessanta, mentre lavorava al Saltare. Pubblicato nel 1976 da Einaudi, in esso il regista anticipa situazioni e personaggi da Professione: giornalista (Il passeggero, 1975). La lettura della sceneggiatura, effettuata dagli attori, è parte integrante della Retrospettiva Michelangelo Antonioni, presentata nell'ambito del 47° Festival Internazionale del Cinema di San Paolo (2023).
[11] Citazioni di Calvino e un'affermazione tratta da Tornabuoni sono riunite in un unico testo.
[12] In un articolo del 1985, “Film di bambini (Austria e Brasile)”, invece, il giudizio Il saci, di Rodolfo Nanni, è negativo.
[13] L'espressione è ripresa da una lettera del 1947 indirizzata a un giovane scrittore, in cui Calvino afferma di aver letto la sua storia con il cuore in bocca, cioè con la stessa sensazione provata guardando Roma città si stringe (roma città aperta, 1944-45), di Roberto Rossellini: “Non saprei dire se è brutto o bello, né il film né la storia, sono cose che ci affascinano con la forza, ma tutti sono capaci di affascinare con la forza” .
[14] Calvino non apprezzò tutte le opere realizzate da registi legati al Neorealismo, ma a Visconti piacquero le già citate Rocco ehi i suoi fratelli, Senso (Seduzione da carne, 1954), impegnandosi nella campagna in sua difesa, e Ossessione (Ossessione, 1942), come riferito a Lietta Tornabuoni: “Ricordo di aver visto Ossessione, di Visconti, ancora sotto il fascismo; Mi colpì moltissimo e capii che la sua poetica era la stessa dei romanzi americani che si leggevano all’epoca”. Inoltre, ha seguito le riprese di Risate amare (riso amaro, 1948), da Giuseppe De Santis, scrivendo l'articolo “Tra i pioppi della risaia la 'cinecittà' delle mondine”, pubblicato su L'Unità (Torino, 14 luglio 1948). Sottolineando anche il ruolo svolto dai veri falciatori, il giovane giornalista ha sottolineato che il regista “sa che non si è affezionato a loro come motivo decorativo, sa che solo con questi contatti tra il cinema e la gente si può fare il vero cinema”. ”.
[15] A Il romano, ha dedicato buona parte dell'articolo “La paura di sbagliare”, oltre a un articolo sulla sua interprete, Gina Lollobrigida: “Gina burocratica”, entrambi del 1954.
[16] Le dichiarazioni tratte rispettivamente da Fink e Canosa sono state riunite in un unico testo.
[17] Per ridurre la durata del film, Renzo e Luciana venne tagliato dalla versione che circolava fuori dall'Italia. Solo la sequenza finale dell'episodio deriva dal racconto calvinista. La sceneggiatura è un adattamento gratuito e aggiornato del romanzo Prometto sposi (La sposa e lo sposo, 1840-1842), di Alessandro Manzoni. Nella Milano dei primi anni Sessanta, i due sposi, trasformati in operai, devono affrontare un capo e le logiche del capitalismo selvaggio per sposarsi.
[18] Dati e citazione estratti rispettivamente da Canosa e Tornabuoni.
[19] Citazioni tratte rispettivamente da Luca Clerici e Canosa.
[20] Secondo Costa, il romanzo colombaia, “è, tra l'altro, un continuo interrogarsi sul senso della vista capito mentre organo della visione, ma anche con il significato dell’atto del vedere”. Inoltre, in due lezioni americane, “Esattezza” e, soprattutto, “Visibilità”, Calvino si interrogava su “come si forma l'immaginario di un tempo in cui la letteratura non è più riferita ad un'autorità o ad una tradizione come sua origine. o come obiettivo, ma mira alla novità, all’originalità, all’invenzione?”
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