Javier Milei e l'etica dei favori

Immagine: Heinz Klier
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da EMILIO CAFASSI*

L’ipocrisia di un discorso che si proclama demolitore e anticorruzione, ma che di fatto amplifica le peggiori pratiche della “vecchia” politica

Il patto distopico che permea gran parte del globo aleggia come un turbine sul gradualismo neoliberale, vessandolo, pressandolo e vantandosi di esserne la versione coerente, un discendente fedele e coraggioso, privo di esitazioni. In un recente servizio televisivo sull’unico canale a cui rilascia interviste, di proprietà del quotidiano più obsoleto del Paese, “La Nazione", il presidente Javier Milei ha spiegato sinceramente la sua percezione di sé come "il politico più importante del pianeta Terra insieme all'ex presidente americano Donald Trump".

Quest'ultimo, nel suo recente litigio con Kamala Harris, ha mostrato ancora una volta il suo stile combattivo, anche se misurato rispetto al veleno che trasudava nei confronti precedenti, come con Hillary Clinton. Anche se gli artigli di Trump non hanno raggiunto graffi personali, la sua retorica carica si è concentrata sulla squalificazione della competenza di Kamala Harris, sul mettere in discussione la sua capacità di leadership. Il suo sarcasmo era diretto maggiormente verso le politiche dell'amministrazione di Joe Biden, con il suo veleno che risparmiava solo Kamala Harris.

Javier Milei, dal canto suo, lungi dal tirarsi indietro, continua la sua crociata incendiaria, fianco a fianco con i titani del capitale globale per disdegnare come “irrilevanti” i politici vernacolari, che descrive come “topi invisibili che non potranno mai aspirare a ciò ( …) Che visione può avere un topo – ci si chiede – rispetto a un gigante?” Con una retorica che ricorda il climax della favola dello scorpione e della rana, Javier Milei avvelena il proprio ambiente politico, attaccando non solo i suoi avversari, ma il tessuto stesso che sostiene la sfera pubblica, i media e l'informazione.

Come scrive Eduardo Fidanza sul quotidiano Profilo, da una prospettiva liberale indignata, il delirio di Javier Milei non è solo un delirio, è l'assalto sfrenato di un patto suicida, in cui lo scorpione non può fare a meno di pungere la rana, anche quando è la sua unica possibilità di passare all'altro lato.

I politici, che lui definisce in modo dispregiativo “la casta”, non sono infondatamente individuati come parassiti che si aggrappano all’accesso privilegiato alle risorse pubbliche per benefici privati. Figure che approfittano del vincolo rappresentativo per mettere al primo posto gli interessi personali, attraverso vari meccanismi di traffico di merci e di influenza.

Javier Milei accusa i giornalisti che monitorano questo gioco oscuro, o che lo esaltano e lo bramano, di essere “avvolti”, cioè corrotti dal potere. Tuttavia, ben al di là del fatto che preferisce presumibilmente fare a meno della divisione dei poteri e della rappresentanza plurale, esercitando una sorta di monarchia decreatoria, spetta alla casta stessa approvare leggi e politiche o, almeno, poter decretare a livello volontà, come di fatto è stato fatto. Per fare questo, ha costruito uno spazio politico peculiare, in cui ogni candidato doveva autofinanziare la propria campagna, in una grottesca dimostrazione di presunta austerità. a basso costo, che ha portato immediatamente a una sorta di regime di franchising politico, con diverse accuse di vendita di candidature.

Accuse provenienti da personaggi insospettabili e non allineati alla destra, come Carlos Maslatón o Juan Carlos Blumberg. Sebbene il caso giudiziario sia stato archiviato, ciò è avvenuto dopo la sua ascesa al potere, lasciando una scia di sospetti e debiti politici.

Il caso del senatore Abdala, vicepresidente provvisorio del Senato e terzo in linea di successione, è un chiaro esempio di come la retorica anti-casta di Milei si sgretola di fronte alle pratiche reali all'interno del suo spazio politico. In un'intervista condiscendente, Abdala ha ammesso senza mezzi termini di aver avuto 15 aiutanti pagati dal Congresso che lavoravano nella sua provincia natale, San Luis, per gettare le basi della sua futura corsa a governatore. Tuttavia, successive indagini e un procedimento giudiziario aperto hanno rivelato che, in realtà, gli appaltatori erano 20, tutti finanziati con fondi pubblici.

Questo “sincericidio” è servito solo a mettere in luce l’ipocrisia di un discorso che si proclama demolitore e anticorruzione, ma che in realtà amplifica le peggiori pratiche della “vecchia” politica. Molti di loro appartengono alla cerchia di Adolfo Rodríguez Saa, ex governatore quasi permanente di San Luis (insieme a suo fratello), ex presidente effimero durante le successioni successive alla crisi del 2001 e persino ex senatore. Abdala, arrivato al Senato come sostituto di Rodríguez Saa, non si è lasciato sfuggire nessun vantaggio a suo vantaggio, compresa l'affiliazione dei cittadini deceduti al partito libertario, fatto emerso durante il processo giudiziario.

Membro di spicco della casta che denuncia, Abdala è l'immagine vivente della contraddizione politica: un uomo che usa gli stessi strumenti che condanna a proprio vantaggio e a scapito della fiducia pubblica.

Il caso della senatrice Vilma Bedia è l'esempio perfetto di come, sotto le spoglie di un pastore evangelico misericordioso, si sia costruito un feudo familiare nelle viscere del Potere Legislativo. Guidato apparentemente da una morale cristiana che, incapace di moltiplicare i pani e i pesci, scelse di moltiplicare i posti di lavoro al Senato, incorporando tre figli, un fratello, una nipote e una cognata. Beato nepotismo.

Il politologo Andrés Malamud, con il suo consueto approccio conservatore in una prospettiva liberale, ha definito i membri della coalizione di Milei, “Freedom Advances”, una “casta ambiziosa”. Secondo la sua esperienza come opinionista televisivo si tratta di un gruppo di improvvisatori che aspirano ad unirsi alla casta presumibilmente diffamata.

In un processo che non vede necessariamente come irreversibile, alludendo alla possibilità di superamento attraverso la conoscenza e l’esperienza, la sua critica punta però al fatto che la squadra di governo si comporta come un “andare controcorrente”, lanciando turpitudine ad ogni girare. Personalmente, penso che, sebbene esistano aspetti (a)morali indispensabili a livello individuale per sostenere tali pratiche, poiché aiutano a evitare la repulsione etica e ad esercitare resistenza al loro utilizzo, la spiegazione è materiale e sistemica, non soggettiva. Queste aberrazioni sono possibili perché il dispositivo politico le consente e le incoraggia.

Secondo i dati di maggio di quest'anno, il Senato conta 1.314 consiglieri distribuiti tra i 72 senatori, ovvero una media di 18,25 per deputato. Tuttavia, alcuni di essi sono notevolmente lontani dalla media. Ci sono senatori che, iniziato il loro mandato nel dicembre 2023, hanno già più di 30 consiglieri. Il sistema funziona attraverso “moduli”, ogni senatore ha 7.338 moduli da distribuire ai propri “agenti” in posizioni temporanee. In termini monetari, questa cifra quasi raddoppia le scandalose parcelle che ricevono.

Pertanto, possono combinare questi moduli per assegnare gli stipendi che vanno dal più basso (categoria A14) al più alto (A1), a seconda di come vogliono favorire ciascun consulente. Questa flessibilità genera disuguaglianze: alcuni preferiscono avere più consulenti con salari modesti, mentre altri scelgono di avere meno consulenti, ma altamente favoriti, con ampie variazioni intermedie. Oltre a questi consiglieri, ciascun senatore può “ereditare” personale con incarichi a tempo indeterminato, per il quale non utilizza il numero di moduli che riceve.

Alla Camera dei Deputati, anche se cambiano le proporzioni e alcuni dettagli, il sistema è relativamente simile. In quale direzione crede che agirà questo esercito di consulenti? Per lo meno, perpetuarsi come tali, compresi i loro benefattori.

L’atteggiamento acritico nei confronti di questi meccanismi o dispositivi istituzionali, che non sono altro che macchine clientelistiche al servizio dei propri interessi o fazioni, è stato espresso allo stesso modo sia dalla sinistra che dal progressismo. Questi sistemi non sono stati progettati per difendere l’etica pubblica, ma per sottometterla. In Argentina, l’autoproclamata sinistra rivoluzionaria non solo è rimasta in silenzio di fronte a questi vantaggi istituzionalizzati, ma, in molti casi, ha fatto ricorso ad essi per ripagare i propri attivisti.

È sorprendente che, fin dall'adolescenza, i gruppi studenteschi siano in competizione per la fotocopiatrice del centro studentesco come risorsa per finanziare la propria organizzazione? Questo silenzio acquiescente spiega in gran parte perché l’estrema destra riesce a presentarsi come un’alternativa antisistemica, critica e repulsiva che spinge al “cambiamento”. Almeno fino a quando il tempo – sempre irritantemente incerto – rivelerà questo stesso estremo diritto come il nuovo usufruttuario e, peggio ancora, come un predatore esponenziale della moralità pubblica e del supporto pratico dei meccanismi corrotti che pretende di condannare.

Mentre concludo queste righe, la seduta della Camera dei Deputati inizierà a discutere il veto di Javier Milei sulla nuova legge sulla mobilità delle pensioni. Saranno proprio i consiglieri a far pendere l’ago della bilancia, consigliando di mantenere l’originaria posizione di gradimento, o, al contrario, di evitare che si ricostituisca la maggioranza originaria di oltre due terzi per mantenere la legge votata e, così, revocare la veto? La natura stessa del legame tra consigliere e suo incaricato porta ad escludere in questo caso un'influenza. Ci sono altri interessi in gioco, più sostanziali, anche se non meno pretestuosi.

Nel sogno dell’etica si sviluppano gli incubi della diffamazione. Il destino peggiore è svegliarsi senza memoria.

*Emilio Cafassi è professore senior di sociologia presso l'Università di Buenos Aires.

Traduzione: Fernando Lima das Neves.


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