Jean-Luc Godard e Giorgio Agamben

Immagine: Elyeser Szturm
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da RICARDO EVANDRO S. MARTINS*

Considerazioni sul regista francese recentemente scomparso.

Un'immagine mostra due soldati vestiti di tessuto verde oliva. Indossano berretti neri sopra la testa. Guardano l'orizzonte. Uno ha lo sguardo più apprensivo, mentre l'altro sembra più sereno, forse come se si sentisse padrone della situazione. Appare una colonna sonora con strumenti ad arco in sottofondo, sofferta, ma che genera un'attesa che qualcosa accada. Forse la stessa aspettativa dei soldati. Un canto tra apprensione e serenità, di chi attende un attacco mentre domina qualcosa o qualcuno.

Inizia così il cortometraggio di Jean-Luc Godard, Je Vous Salue, Sarajevo (1993). Come sappiamo dal titolo, è facile collocarsi nel tempo e nello spazio dell'immagine: la guerra tra croati, serbi e bosniaci, nel territorio dell'ex Jugoslavia. Si tratta della battaglia nella capitale della Bosnia, Sarajevo. E questa battaglia ha una storia. Il generale Tito era un soldato resistente ai nazisti e ottenne una leadership sufficiente per unificare questi popoli dopo la fine della seconda guerra mondiale. Ma con la sua morte e la fine dell'Unione Sovietica, i primi anni '1990, nei Balcani, furono segnati da una vera e propria guerra civile – o come dicevano i greci, stasi.

Il film di Jean-Luc Godard si basa sulla mostra di una singola foto, scattata nel 1992 da Ron Haviv, un fotoreporter che ha assistito alla guerra a Sarajevo. Gradualmente, con la voce di Godard dentro MENO, scopriamo perché c'è una certa serenità in mezzo all'apprensione di uno dei soldati. La sua voce roca parlava di paura, che “in un certo senso... è figlia di Dio.”. La paura è la figlia derisa, maledetta, non bella che viene "redenta il venerdì sera". Quando finisce di caratterizzare la paura, la partitura musicale si interrompe, come se Jean-Luc Godard interrompesse chi guarda il suo film per fare una precisazione preventiva: “Ma non fraintendetemi, essa [la paura] si prende cura di ogni agonia mortale, intercede per l'umanità".

Nel fare questa osservazione – questo Disclaimer – a proposito di “paura”, sullo schermo compare un'altra immagine, con una nuova affermazione in tono esplicativo: “Perché c'è una regola e un'eccezione.”. La frase viene pronunciata nello stesso momento in cui viene rivelato un terzo soldato. Sullo schermo appare l'immagine della sua mano sinistra, che tiene una sigaretta tra le dita. Da quel momento in poi, la narrazione comincia a contrapporre quella che è la “regola” e quella che è l'“eccezione”. Sempre con l'immagine della sigaretta, la voce di Jean-Luc Godard dice: “La cultura è la regola…”. E durante l'esposizione di questo piccolo estratto dalla foto di Ron Haviv, scopriamo che la mano destra del terzo soldato impugna un'arma da fuoco puntata verso il basso, momento in cui la voce narrante completa: "...l'arte è l'eccezione.". La frase completa di Jean-Luc Godard è: "La cultura è la regola, l'arte l'eccezione".

Ritorna l'immagine della mano sinistra, con una sigaretta. In questa parte del film, Jean-Luc Godard fornisce esempi di questa relazione tra regola ed eccezione: “Tutti parlano la regola: sigarette, computer, magliette, televisione, turismo, guerra.”. E alla menzione della parola "guerra", il sentiero si interrompe di nuovo. L'immagine della mano destra del terzo soldato appare più e più volte, con in mano una pistola, a quel punto dice: "Nessuno parla l'eccezione".

Jean-Luc Godard afferma questo e poi fornisce esempi di come si esprime l'eccezione. I suoi esempi sono citati, poi, sotto l'esposizione di una parte della foto, fino ad allora non mostrata nel film. Questo è il momento in cui il film rivela la direzione in cui punta la pistola di questo terzo soldato: è verso i civili accovacciati, arresi, con le mani sulla testa. E nella narrazione, sullo sfondo, Jean-Luc Godard dice: “Non si dice [l'eccezione], si scrive: Flaubert, Dostoievski. Essa [l'eccezione] è composta: Gershwin, Mozart. [L'eccezione] è dipinta: Cézanne, Vermeer. [L'eccezione] è girato: Antonioni, Vigo. Oppure si vive e diventa arte di vivere: Serbenica, Show, Sarajevo.”.

Perché Sarajevo viene citata come esempio di “eccezione”, e nella categoria dell'eccezione vissuta? Godard non elabora ulteriormente. Poi dice solo una frase che segna una svolta nel film. Jean-Luc Godard rivela infine che questi tre soldati sono nella stessa immagine fissa. Insomma, due di loro guardano nella stessa direzione, mentre un terzo domina i civili, con la mano destra puntata contro di loro una pistola e, con l'altra, una sigaretta in mano. È a questo punto che Jean-Luc Godard accenna all'Europa e al rapporto tra regola ed eccezione, applicato a questo contesto di arte, guerra e morte: “La regola vuole la morte dell'eccezione. Quindi la regola per l'Europa culturale è quella di organizzare la morte dell'arte di vivere, che ancora fiorisce”.

La traccia aumenta di volume. la voce dentro MENO interrompe di nuovo. La foto di soldati e civili è mostrata più ampiamente. Ora sappiamo un altro fatto: il terzo soldato ha sulla schiena una specie di bazooka, o lanciatore portatile, e sta per colpire alla testa uno dei civili prostrati. Qui puoi avere un quadro della relazione tra regola ed eccezione. La guerra – la regola – vuole la morte di Sarajevo, della sua gente, del suo stile di vita – l'eccezione.

 

Giorgio Agamben

Nel primo volume della serie di libri, in Homo sacer: potere sovrano e nuda vita I (1995), il filosofo italiano Giorgio Agamben ricorda la guerra in Bosnia e nelle regioni dell'ex Jugoslavia come un momento in cui regola ed eccezione si confondono come “stato di eccezione come struttura permanente”. Così, il filosofo afferma che quanto accaduto a Sarajevo sono “avvenimenti premonitori che annunciano, come araldi sanguinari, il nuovo nomos della terra (…) che tenderà ad estendersi su tutto il pianeta.”.

In un altro volume del tuo progetto Homo SacerSu Iustitium: Stato di eccezione II, I (2003), Giorgio Agamben sviluppa un po' meglio questa idea. L'eccezione si confonde con la regola in modo simile alla legge quando si confonde con la vita. In questo stato di cose, anche l'eccezione che si confonde con la regola non è una situazione da risolvere con un “ritorno”, un “ritorno” a qualche regola di diritto, in cui regola ed eccezione, norma e anomia, diritto e la vita sarebbe presumibilmente ben definita, discernibile. Agamben è più propenso a mostrare che, se si vuole fermare la macchina giuridico-politica dello stato di eccezione, che si fa di regola, la via è conoscere la mancanza di sostanza in questa confusione, la mancanza di fondamento di ciò che collega violenza e diritto, vita e norma giuridica, regola ed eccezione. E questo rivela anche due movimenti opposti: uno, che cerca di mantenere il rapporto fittizio tra vita e diritto – confondendoli –, e un altro, che cerca di separare questi elementi “violentemente legati”.

Così, dice Giorgio Agamben, che “[nel] campo delle tensioni della nostra cultura, dunque, agiscono due forze opposte: una che istituisce e che pone e l'altra che disattiva e depone.”. E quello che Agamben chiama lo “stato di eccezione”, divenuto la regola, è “il punto di massima tensione di queste forze”. E questo vivere nello stato di eccezione «significa sperimentare queste due possibilità e intanto separare sempre di più le due forze, cercando, incessantemente, di interrompere il funzionamento della macchina che sta portando l'Occidente alla guerra civile mondiale».

In un altro dei suoi testi, quando scrive specificamente del regista francese, per titolo, Cinema e storia: su Jean-Luc Godard, Giorgio Agamben cerca di mostrarci almeno alcune ipotesi sulla sua opera cinematografica, che si possono riassumere nelle seguenti tesi: l'opera di Godard sembra, in sostanza, occuparsi del “legame costitutivo tra storia e cinema”; che il senso della storia, in questo confronto con il cinema, non sarebbe cronologico, ma messianico, “una storia che ha a che fare con la salvezza. [a]qualcosa deve essere salvato”; e ciò che deve essere salvato è l'immagine – “L'immagine verrà al momento della Risurrezione”, disse una volta Jean-Luc Godard, con un tono che ricorda San Paolo; e, citando Serge Daney, Agamben lo segue, affermando che la forza messianica dell'immagine sarebbe in un elemento essenziale del cinema: il montaggio, e nella sua doppia forma condizionante, cioè quella della “ripetizione” e quella della “pausa”.

Di queste due condizioni, ripetizione e pausa, che “formano sistema nel cinema”, Agamben dice anche che “[insieme] assolvono il compito messianico del cinema”. Sempre nel suo testo su Godard, Giorgio Agamben spiega che la ripetizione è già stata un tema di interesse per filosofi come Kierkegaard, Nietzsche, Heidegger e Deleuze. Ed è attraverso la nozione di ripetizione di questi pensatori che Giorgio Agamben darà la sua concezione del cinema: “la memoria di ciò che non era”. I significati, qui, dati ai concetti di ripetizione e di cinema, rimandano all'idea che ripetere non significhi “ritorno dello stesso, ma ritorno della possibilità di ciò che era. Ciò che ritorna, ritorna come possibilità. E Giorgio Agamben lo paragona alla memoria, sostenendo che “la ripetizione, da parte sua, è la memoria di ciò che non era”.

Attraverso questa interpretazione di Godard da parte di Agamben, è possibile inferire che il cinema sarebbe allora la memoria che ritorna come possibilità irrealizzata. E questo ci riporta facilmente a una nozione molto presente nel pensiero del filosofo tedesco Walter Benjamin, soprattutto nei suoi celebri Tesi sul concetto di storia (1940). Nella copia personale di tesi di Benjamin – che, tra l'altro, è sotto la tutela di Giorgio Agamben –, così si legge nel Tesi VI, su questa nozione di ripresa di qualcosa di rimosso nella memoria storica: “[in]ogni epoca, bisogna riprovare a liberare la tradizione da un nuovo conformismo, che sta per sottometterla. Perché il Messia non viene solo come Redentore, viene come vincitore dell'Anticristo”, e questa “vittoria” contro l'Anticristo è data “(…) dal dono di alimentare quelle scintille di speranza nel passato (…) ”; perché “(…) anche i morti non saranno al sicuro se il nemico vince. E quel nemico non ha cessato di vincere”.

Questo passaggio enigmatico mostra la visione teologico-politica di Benjamin del ruolo dello storico materialista: quello di percepire la memoria come possibilità di portare alla luce ciò che era possibile, ma non ancora compiuto. E per farlo sarebbe necessaria una vittoria su coloro che si ostinano a impedire la liberazione della tradizione del conformismo. E il nemico, anzi l'“avversario” del Nuovo Testamento – l'Anticristo – non ha cessato di vincere le forze liberatrici delle passate possibilità contro la violenza storica della classe dirigente.

È attraverso questi sensi di memoria e ripetizione che Agamben vede l'opera di Godard come un modo per rivelare il compito messianico del cinema. Per Agamben, Godard svela “il cinema attraverso il cinema”: come il compito di uno storico materialista, il compito messianico del cinema, del cineasta, è cogliere una memoria, una memoria di ciò che non si è ancora realizzato. le classi dominanti e le loro spoglie, i loro beni culturali, nonché contro ogni tipo di fascismo, contro ogni soggezione sui vivi e sulla memoria dei morti.

Resta, allora, da parlare della seconda forma condizionante del sistema cinema. Oltre alla ripetizione, c'è una pausa nell'immagine. Ancora dentro Cinema e storia: su Jean-Luc Godard, Giorgio Agamben cerca di essere più esplicito nel suo tentativo di spiegare il legame tra storia e cinema, attraverso la nozione di “compito messianico del cinema”. Il filosofo italiano arriva a mettere in pausa l'immagine cinematografica e la rivoluzione proletaria come sinonimi. Come dice, la pausa riguarda: "l'interruzione rivoluzionaria di cui parlava Benjamin".

Il compito messianico del cinema si compie non solo ripetendo ciò che non è ancora accaduto, le promesse non mantenute delle classi sottomesse, ma anche con la forza rivoluzionaria di interrompere il corso della storia delle vittorie della classe dominante; questo percorso storico-politico che ha fatto dello stato di eccezione – che sospende diritti e garanzie – la regola, e in nome del progresso, dello sviluppo ad ogni costo. In una delle sue note su tesi, Benjamin rilegge il marxismo in modo diverso anche dalla lettura marxista dominante del suo tempo: “Marx afferma che le rivoluzioni sono le locomotive della storia mondiale. Ma forse questo è totalmente diverso. Forse le rivoluzioni sono la pressione del freno di emergenza da parte dell'umanità che viaggia su questo treno”.

E la pausa nel cinema è analoga alla forza rivoluzionaria in questo senso. Una forza che non solo “ripete”, nel senso solo di riprendere le promesse storiche non mantenute, ma che “si ferma”, nel senso di interrompere la storia borghese, dei vincitori, che lasciano in eredità beni culturali, che sono, allo stesso tempo, , tempo, “documenti di barbarie” (Benjamin).

Così, dice Giorgio Agamben, il compito messianico del cinema e della storia non è solo quello di creare il nuovo, ma anche quello di “discreare” (Deleuze). Forse come in quel senso di quella forza di cui parlava Agamben nella sua stato di eccezione: quello di “disabilitare” ciò che unisce violentemente diritto e vita, nomos e anomia, regola ed eccezione. Solo così l'immagine del cinema potrebbe emergere in questo tempo salvifico, di riscatto di ciò che non è stato ancora, attraverso l'interruzione di eventi in corso, che ci lasciano in pericolo, nel presente e nel passato – vivi e morti.

Restituzione dell'immagine a Je Vous Salue, Sarajevo, dei tre soldati che soggiogano i civili, nel pieno della guerra civile, che utilizzava, come sappiamo, una strategia genocida, di “pulizia etnica”, Jean-Luc Godard chiude il film con una nuova e ultima pausa narrativa. Ora per un tempo più lungo, qualche secondo in più. La traccia aumenta di volume. Il fermo immagine viene rivisto nelle parti che sono state mostrate solo poco a poco, fino ad avere la visione, ancora una volta, dell'intero quadro di Ron Haviv. È l'occasione in cui la narrazione di Jean-Luc Godard giunge alle sue ultime parole. Sono frasi solo apparentemente slegate dal tema centrale del film. Non parla di paura, né di guerra, ma parla di vita e di morte. Questa parte finale sembra più un addio al narratore. Una chiusura di un libro. Forse la vita.

Jean-Luc Godard è deceduto il 13 settembre 2022, all'età di 91 anni. Nella frase finale del film Je Vous Salue, Sarajevo, la voce di Godard sembra essere in pace con la propria finitudine. Una pace di chi ha fatto della sua arte un'arte di vivere, o addirittura uno stile di vita. Perché Godard si è distinto di fronte alle "regole". Si è distinto anche nei tempi di paura con cui viviamo – la paura dell'imminente catastrofe ambientale, dei neofascismi dei nostri tempi, della crisi economica neoliberista, della crisi dei rifugiati in Europa, della Guerra Fredda che continua tuttora, con i suoi pericoli di apocalisse nucleare, della paura di una guerra civile sempre più internazionalizzata, nelle forme paradossali della guerra civile mondiale, insomma dello stato di eccezione permanente. Jean-Luc Godard dice addio al film e alla vita, che lo ha reso una vera “eccezione” in questo mondo con tante “regole”, dicendo: “Quando arriverà il momento di chiudere il libro, non avrò rimpianti. Ho visto così tanti vivere così male e così tanti morire così bene”.

*Ricardo Evandro S.Martins Professore presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università Federale del Pará (UFPA).

 

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