da VITOR MORAIS GRAZIANI*
Commento alla presentazione del decimo anniversario dell'album “Encarnado”
È stato un venerdì che Juçara Marçal ha festeggiato i dieci anni di uno degli album più significativi dell'ultimo – e ricco – decennio del 2010 a San Paolo. parlo del tuo Incarnato, lanciato nel 2014, e il cui primo decennale è stato celebrato con una presentazione il XNUMX° marzo, al Sesc Vila Mariana. Vestito di rosso sangue, Juçara Marçal era accompagnato da Kiko Dinucci, Rodrigo Campos e Thomas Rohrer, in uno spettacolo (è la parola esatta) che merita di essere messo in risalto nella scena culturale sempre viva, ma un po' dormiente, di Paulicéia.
Del resto il quartetto salito sul palco, dopo un intervallo di anni non trascurabile, non era più lo stesso; probabilmente proprio a causa di questo intervallo. Ma non solo, visto che il Paese del 2014 Incarnatoqualunque cosa, è già finita. Che senso ha, allora, tornare all'album? In definitiva, cosa può dire ancora oggi al di là delle effemeridi, di per sé un mero punto di riferimento temporale astratto che giustifica queste riprese di volta in volta? Cercherò di proporre più domande in questo commento, dato che la mia tenda oracolare non è assolutamente in grado di fornire risposte.
Tuttavia, vediamo. Juçara Marçal, nata a Rio de Janeiro, uspiana di passaggio e brasiliana per vocazione, si è affermata come la voce di un'epoca. Non necessariamente una voce di massa, ma una voce che fornisce una diagnosi precisa del presente e indica percorsi per il futuro; affinché chi sa ascoltare possa portare via cose preziose dal proprio lavoro. Penso che l’acume di chi inizia la sua maturità culturale cantando musiche tradizionali, in gruppi come “A Barca”, sotto la forte ispirazione di Mário de Andrade, e studiando Pedro Nava (“in cui schiuma l’Antartide / naviga il navigatore? ”) e oggi attende l'uscita di un album di remix del suo ultimo lavoro mozzafiato, quello pesantemente elettronico Delta Estacio Blues (2021), che ha nella squadra remixer Tutto ciò che l’idea classica dell’USP rifiuterebbe subito, classificando come integrato, merita davvero attenzione.
Da qualche tempo gli Encruza, gruppo che riunisce (o riunisce) i gruppi Metá Metá e Passo Torto, dovrebbero meritare una centralità tra coloro che pensano alle questioni brasiliane attraverso il prisma della cultura (queste alture agonizzanti, questa valle dei morti ). Il primo, formato da Juçara, Kiko Dinucci e Thiago França; e il secondo, di Kiko, Marcelo Cabral, Rodrigo Campos e Rômulo Fróes, credo che vada aggiunta solo la voce messianica dissonante di Douglas Germano (che ho studiato in altra occasione). Sono loro – che, diversamente dal gruppo Fora do Eixo, che avrebbe nel già sepolto Studio SP il suo faro SP – stanno costruendo un percorso per i brani (!) della Musica Popolare brasiliana (questo ingoia tutto, questa aberrazione, questo partito politico).
Ed era proprio dentro Incarnato da Juçara Marçal che è stato elaborato, fermentato un programma d'azione, per poi essere superato nei suoi risultati programmatici; come se l’istituzione MPB facesse un urgente salto in avanti, seppure in modo molto rispettoso delle sue glorie passate, il che non significherebbe però stare al suo gioco.
Ancora una volta, torno alla domanda: cosa Incarnato cosa dire di oggi? All'inizio niente. Ma se tutto ciò che è obsoleto dovesse essere abbandonato non ci sarebbe stato La donna alla fine del mondo (Elza Soares, 2015). Il bello dell’intera faccenda è proprio la capacità dell’obsoleto di diventare attuale. Come ha giustamente notato Walter Garcia, in un pioneristico e raro articolo sull’argomento di questo testo, Incarnato è il lavoro di Jornadas de Junho 2013. Le sue prove, la sua preparazione per entrare in studio, avvenuta in contemporanea al mese-evento; e la successiva registrazione, catturano l’ossigeno mentale di una scena più ampia. Forse allora la domanda è: cosa ha da dire questa scena oggi? Come ho detto, la risposta è sempre più domande. “Confuso da chiarire”, il mistero è che i dieci anni di “Encarnado” hanno riempito il secondo teatro più grande del Sesc São Paulo, suscitando da un lato applausi commossi e, dall’altro, facendo ricordare alla gente quale sarebbe stato lo spettacolo di lancio sono stati come sul palco quello stesso giorno, nell'aprile 2014.
L'euforia del PT che annuncia la Coppa del Mondo che un giugno diceva che non avrebbe dovuto esserci; l'effervescenza culturale che correva parallela tra i circoli intellettualizzati mentre il megazord di Grande Goiás stava formando la “nuova classe media” – chi si ricorderà di quei dibattiti? Tante idee, tanti sogni, vero? Ebbene, forse il grande terremoto abita proprio lì. Incarnato.
Da dove veniva Juçara Marçal Padê, del 2008, condiviso con Kiko, che ha pubblicato nello stesso anno, con Bando Afromamacarrônico, Nago pastiche, il risultato delle sue esperienze sonore notturne a Ó do Borogodó. Padê, forse più contemporaneo a noi da un certo punto di vista di Incarnato, a causa della forza dei suoi antenati che inconsapevolmente prefiguravano le tribù identitarie, sognava di più, e anche musicalmente sembrava essere più tributario alla periferia di MPB, ma sembrava comunque parlare dall'interno di essa. È vero che i primi due album di Metá Metá (omonimo, 2011; metallo metallo, 2012), hanno già annunciato qualcosa; ma era più il calderone bollente di giugno che le macerie che ci aspettavano prima dell'autunno.
Il “Non sono mai uguale” con cui termina infatti Vias (Kiko, Douglas Germano e Eduardo Luiz Ferreira, dall'album Meta Meta, 2011); la “ricerca della bellezza” di “Tristeza não” (di Alice Ruiz e Itamar Assumpção, dall'album metallo metallo, 2012), prefiguravano l’arrivo di un’irresistibile rottura dell’epoca. Ed è arrivato. Tuttavia, non era così abbagliante e incantato come quello Incarnato, caldo, è riuscito a catturare.
Se il suo culmine è il fallimento di qualcosa, come attesta Walter Garcia nel suo articolo sopra citato, che peraltro possiamo identificare, al limite, come un’idea di Brasile moderno, affermativa e incantevole, la sua implicazione è che, allora , era necessario operare un ribaltamento della situazione, capace di “solleticare la tradizione”, che sarebbe arrivato con la Delta Estacio Blues della pandemia e Bolsonarista 2021. In questo senso, la ripresa del Incarnato dieci anni dopo, visto che, in fondo, è un album sulla morte (cosa che ha notato anche Walter). Rimorso per i morti? Quindi ora il lulismo è tornato proprio come D. Sebastião che attraversava il lago Paranoá per salvarci dai barbari incivili (l'immagine è di Paulo Arantes)?
Confesso che proprio per questo la presentazione mi ha emozionato, ed ero impaziente di vedere come Juçara Marçal interpretasse la canzone culminante della morte del Brasile Moderno, “Ciranda do Aborto”, di Kiko Dinucci. Come dice il titolo stesso, un aborto; qualcosa di irreversibile, con qualcosa ancora inesistente. “Paese del futuro”, “condannato al moderno”, che “deve ancora meritarsi la Bossa Nova”. La ferita non si è mai fermata. Niente di tutto ciò si è tradotto in un’emancipazione popolare effettiva, tanto meno nell’annientamento delle disuguaglianze latenti in Brasile. Tutto ciò, infatti, non fa altro che aggravare la portata del dolore, che può sfociare anche nella malinconia (lo dice Rômulo Fróes), poiché l’impressione che resta è che sia inutile sognare questo Paese.
Incarnato lo ha delimitato, e i dieci anni che lo separano dal 2024 non hanno fatto altro che confermarne la diagnosi. Un buon esempio di ciò sono le indicazioni this e La donna alla fine del mondo, dal 2015, ormai nove anni, ha preso. La voce che avrebbe “cantato fino alla fine”, nell’omonima canzone di Alice Coutinho e Rômulo Fróes, è morta, non prima di aver navigato nell’istituzionalizzazione dell’agenda identitaria. Infatti ha cantato fino alla fine, ma la fine è arrivata; il che non fa che dimostrare la dimensione utopica, perfettamente identificata con le ambizioni e le ambivalenze del moderno XX secolo brasiliano, che è la proposta estetica a cui allude la canzone di Alice e Rômulo.
Credo che lo stesso non si possa dire quando pensiamo ad “Aborto Ciranda”. Non c’è alcun tentativo di invertire l’aborto, di santificare il feto nato morto. È piuttosto il contrario. Si riconosce l'irreversibilità di qualcosa, imponendo la domanda che era il titolo del film in cui agisce Vladimir Safatle, ironizzando sulle avversità della sua persona: #e adesso (Jean-Claude Bernardet e Rubens Rewald, 2020). Come questo, Incarnato crea un programma: cosa fare con il patrimonio culturale brasiliano che è morto senza nascere?
Non è stata una sorpresa che Juçara Marçal, debuttando anche come attrice nel mezzo di questi dieci anni, prima in Joana de “goccia d'acqua {preta}” (Jé Oliveira, 2019), e successivamente come Madre dell'opera Caffè (libretto di Mário de Andrade, regia di Sérgio de Carvalho, 2022), ha cantato teatralmente la “Ciranda do Abortion”, inserendo nella canzone qualcosa di più gestuale che lirico. Ha finito la canzone urlando. Era ottobrelimax. Mi godo un sesso rabbioso, accarezzato subito dopo dalla “Lullaby Oxum” (Douglas Germano). Non essere odioso per essere morto prima dell'estate. Il Brasile è vivo e vivo, cosa fare? È con questo tono che Juçara Marçal ha modificato una versione di “Comprimido”, di Paulinho da Viola. Diagnosi del presente, con una certa distanza, proprio come nella canzone, accompagnata da un'illuminazione minima, che evidenzia le ombre di chi è in scena che appare sui muri. Dal pubblico, ci stavamo mangiando le unghie senza fiori da annusare. Niente gigli, niente garofani e nemmeno rose silenziose che spuntano all'orizzonte.
Percorso ambiguo, vero e proprio bivio. Ad una fine, riprendi Incarnato Oggi, se la sua diagnosi si rivela corretta, d'altro canto prova davvero un sollievo masochistico per tutto ciò. Il momento della morte sembra essere addirittura migliore di quello della putrefazione. Poiché siamo già in questo secondo momento, il primo sembra più bello, soprattutto perché il decennio del 2010 che il cavaquinho di Rodrigo Campos annunciava nella sua samba “Velho Amarelo” aveva le sue dosi di passione e fede (“Voglio morire un giorno presto / Voglio morire in un giorno azzurro / Voglio morire in Sudamerica”).
Sembra che sia stato addirittura positivo, da un lato, scommettere sulle forze di redenzione del Brasile e, dall'altro, dire che hanno cambiato posizione. Ciò che forse non era così chiaro era che ciò che attendeva era altro sangue. Qui e ora, nella putrefazione del Brasile moderno, vedendo qualcosa andare in malora senza ritorno, la sensazione diventa in realtà un po’ ambivalente. Ma vale la pena ricordare che Juçara e compagni non erano soddisfatti della diagnosi corretta.
Lo considero davvero un atteggiamento eroico, quello di non arrendersi quando la partita è già finita (e siamo stati sconfitti, lo dicono le intelligenze artificiali), quello che ha fatto Juçara Marçal Incarnato inoltre, con enfasi su Delta Estacio Blues. Lì, nei testi, c'è il ricordo, l'unione di pezzi del Brasile moderno, molti dei quali dimenticati da tempo, come quelli fissati nelle bambas di Estácio (“Bide, Baiaco, Ismael”). Dall'altro il suono elettronico, fatto dalla macchina, dal digitale, dall'artificiale, dal chucro. Come sappiamo, il suono pesa sempre più della lettera; Dopotutto, ci sono persone che non credono che tutto il lavoro di Roger Waters sia di sinistra, capace di gridare a favore di Bolsonaro, presidente del Brasile, nei suoi spettacoli del 2018.
Così, Delta Estacio Blues è un affluente del paradigma contemporaneo lanciato da Incarnato. Va al gioco, cercando di competere per lo spazio con il bobine di Instagram, con il zecche senza fine, e con le mille e una stupide discussioni su X che risucchiano il tempo dai progressisti in ostaggio al progresso (ah, “pogress”…). C'è chi vede, con una certa dose di lucidità già in estinzione e con la quale tendo a concordare, che la proposta va oltre il punto, ponendosi troppo integrata con qualcosa che non ha più alcuna nozione del passato.
Ma allora, cosa fare? Incrociare le braccia, salire sulla torre d'avorio e assistere al saluto finale delle mitragliatrici che annunciano che è davvero finita, con tutte le implicazioni che ciò comporta, anche per noi, esseri umani, di passaggio nella vita, in tutto il pianeta? Una domanda che, lo confesso, non vorrei porre. Ma cosa mi resta da fare proprio perché non ho le risposte. Se qualcuno li ha, come dicono i sopravvissuti alla fine di una guerra: “siamo salvi!”. O no.
*Vitor Morais Graziani è una specializzazione in storia presso l'Università di San Paolo (USP).
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