da RICARDO FABBRININI*
Profilo del filosofo recentemente insignito del titolo di Professore Emerito alla FFLCH-USP
È con immenso piacere che partecipo a questa cerimonia di conferimento del titolo di Professore Emerito a Leon Kossovitch, un riconoscimento che ci onora enormemente. Intendo esprimere la mia gratitudine ai professori, agli studenti e ai dipendenti della Facoltà di Filosofia, Lettere e Scienze Umane, e in particolare del Dipartimento di Filosofia, che hanno avuto il privilegio di vivere con il Professor Leon Kossovitch fin dal suo ingresso, nel 1970 , quando, ancora nel Dopo la laurea, sotto la guida della professoressa Marilena Chauí, fu invitato dalla professoressa Gilda de Mello e Souza, ad insegnare nel corso di filosofia.
Leon Kossovitch caratterizzò questo periodo all'inizio del suo insegnamento riferendosi ai “due colpi di stato del 1968” (“non cessando di prevedere, in quell'occasione, che i colpi di stato riapparissero ciclicamente” nel Paese): il primo, in ottobre, “contro la “a Maria Antonia, proveniente da Mackenzie del CCC, che portò il corso di filosofia alla caserma della Cidade Universitária, dove sarebbe stato ripreso all'inizio del 1969; la seconda, l'AI-5, emanata a dicembre, che ha comportato l'esodo coatto di alcuni docenti dell'USP, mettendo a rischio anche la continuità delle attività del Dipartimento di Filosofia.
Se le attività non sono state chiuse è perché è prevalsa la posizione secondo la quale bisognerebbe resistere alla “barbarie politico-intellettuale” non solo con il mantenimento delle lezioni, ma anche con la produzione di articoli, dissertazioni e tesi. Era vitale in quel momento – ricorda Leon Kossovitch – “la collaborazione di professori di altre aree della facoltà, come quella del professor José Cavalcante de Souza, il cui biglietto ha restituito, per il suo status di titolare, l'autonomia perduta con le cancellazioni, e quella di Maria Sylvia de Souza, Carvalho Franco, nonché quella di professori stranieri come Hugh Lacey e Jean Galard”.
Certamente, il contatto che mantenne con il professor José Cavalcante de Souza, con il suo geloso ed esperto lavoro di lingua e letteratura greca, si materializzò, in parte, nelle sue traduzioni di filosofi presocratici e Il banchetto di Platone, erano di estrema importanza per lui. In questo periodo nascono anche altre durature amicizie, tra cui quelle con la professoressa Gilda de Mello e Souza e il professor Antonio Candido. La dedizione all'insegnamento di Leon Kossovitch fu interrotta solo dal suo viaggio in Francia, nel 1972, per svolgere il dottorato con Jean-Toussaint Desanti, al quale era già iscritto, ma furono i corsi tenuti da Jean-Pierre Vernant, Roland Barthes, Michel Foucault e Gilles Deleuze, così come l'amicizia intessuta lì con Jean-François Lyotard e Jacques Rancière che lo ha maggiormente toccato.
Tornato in Brasile, nel 1974, Leon Kossovitch riprese i suoi corsi al Dipartimento di Filosofia insegnando, a causa della carenza di professori in quel momento buio, diverse discipline, tra cui Filosofia Antica (Plotino), Filosofia Moderna (Cartesio, Leibniz, Rousseau) e Filosofia contemporanea (Nietzsche). Sarà dal 1978 in poi che subentrerà nella disciplina dell'Estetica offrendo i suoi primi corsi sul cosiddetto “Rinascimento italiano”. I suoi corsi di laurea triennale e post-laurea dal 1983, che hanno richiamato, oltre agli studenti di filosofia, studenti di altri corsi USP, sono stati principalmente dedicati − coprendo un vasto campo generalmente scoperto dalle discipline di Estetica e Filosofia dell'Arte − studi delle dottrine e precetti poetico-retorici dell'antichità greco-latina e del Rinascimento.
Nelle sue classi, di grande erudizione, le arti, la teoria poetica, l'archeologia, gli studi linguistici, la Nuova Storia in nuovi approcci, tra le altre aree di indagine sono apprese in una prospettiva filosofica. In esse, con insolita facilità, pratiche compenetranti, Leon Kossovitch ha esaminato nei suoi corsi l'arte egizia, l'arte persiana, la cultura greco-latina, l'Anno dei Mille, il Rinascimento, considerandoli sempre nell'ottica della circolazione tra le culture, e, in programmi recenti, incentrati sullo studio degli "artisti e dei loro discorsi", si è concentrato su Van Gogh, Gauguin, Cézanne, Munch e Puvis de Chavanne.
Ho frequentato la sua materia nell'anno in cui mi sono iscritto al corso di filosofia, nel 1983. Le sue classi erano sempre riflessioni vive, incarnate, un fascio di affetti e di idee, fatto di dubbi produttivi, in modo tale che gli studenti, a un certo punto, , si sentiva completamente preoccupato. Abbiamo conosciuto partecipanti a qualcosa di singolare che è esploso lì: un pensiero vivo, in stato nascendi, basato su letture rigorose di testi che non mancavano però di evidenziarne figure e modalità di enunciazione. Solo pochi anni dopo, nella disciplina del professor Celso Favaretto, nostro comune maestro, troverò nel termine “evento”, tanto caro ai filosofi francesi, l'espressione più opportuna per nominare ciò che accadeva nelle loro classi. Perché ciascuna delle classi di Leon è un “evento” in senso forte, un'eventualità singolare, perché in essa accade qualcosa; “qualcosa” come spostamento del significato di un termine; la percezione che una configurazione argomentativa che davamo per nuova fosse già trovata, reiterata, nella tradizione; il timore di conflitti tra l'argomento del testo studiato ei luoghi comuni del discorso; o ancora, la percezione della potenza dei dettagli, fino ad allora ignorati, di un certo dipinto (uno dei lasciti, forse, dei corsi della professoressa Gilda de Mello e Souza).
Il carattere accogliente delle sue classi convive con un pensiero che non si assesta né si placa mai, come si è già detto. Mi sembra che ciò che più sorprende coloro che frequentano la loro disciplina per la prima volta negli studi universitari o post-universitari, siano essi studenti di Filosofia, Lingue, Architettura o Scienze della Comunicazione e delle Arti all'USP, che spesso la cercano, siano essi studenti di altre università, o anche artisti e architetti formati, è la sua critica tagliente. In queste classi, senza fare concessioni alla storiografia dell'arte e dell'architettura, Leon Kossovitch ha criticato Francastel e Panofsky [pur riconoscendo i loro contributi] perché questi autori, studiando le arti dall'antico al Settecento, non avrebbero storicamente articolato la letteratura e le arti.
Mostrò così con veemenza ciò che era nascosto da questi autori, che i pittori volevano dipingere come si faceva poesia, operando così in chiave retorica. Ha mostrato, in altre parole, che la tradizione della retorica, della dottrina delle arti, ha prevalso fino all'emergere dell'estetica come discorso filosofico; e che fu solo da quel momento in poi che si cercò di discernere la poesia e la pittura (così come di determinare la specificità di ciascuna delle arti) all'interno di un sistema di belle arti. Il campo dell'estetica è poi emerso in queste classi, per noi, come la fine della poetica.
Ricordo ancora la sua confutazione della natura tassonomica e teleologica delle storiografie dell'arte – che fino ad allora mi aveva consegnato con devozione – sulla base delle idee di una successione di stili ben delimitati, a volte opposti tra loro, che scartavano tutto ciò che non sono state sussunte, facendo così una tabula rasa “delle differenze storiche”. Ci trovammo così improvvisamente privati di nozioni familiari come quella dello stile artistico (Gotico; Bizantino) con le sue dicotomie (Rinascimento e Barocco; Arte Accademica e Arte Moderna) che ora si rivelavano, ai nostri occhi attoniti, come astrazioni vuote e anacronistiche . “L'uomo barocco non sapeva di essere barocco”, diceva Leon Kossovitch, con fine ironia contro l'anacronia.
Da questa distruzione, che ci ha destabilizzato, ha spazzato via molte altre nozioni della storiografia artistica, soprattutto quelle del Novecento, come le nozioni di “nuovo”; di "interruzione" o "influenza". A proposito di quest'ultimo termine, vera e propria idiozia della critica d'arte, Leon Kossovitch ha messo in guardia dalle sue implicazioni e risvolti mostrando che esso presuppone l'esistenza di nessi causali all'interno di un tempo teleologico (come avviene, esemplarmente, nella critica nordamericana di Clement Greenberg). Tanto che ci siamo accorti con sorpresa che dire che “Cézanne ha influenzato Picasso” non corrisponde alla seguente affermazione: “Picasso si è appropriato (o riferito) di Cézanne”.
Quarant'anni dopo, vedo l'importanza di questa lezione secondo cui i discorsi sono sempre costruiti, privando la lettura della sua innocenza. Questa concezione della storicità che guida i suoi percorsi è quindi politica, perché rivela “il conformismo implicito” nell'idea di anacronismo, anche se si sa, come dice Leon, “non c'è passato senza lettore presente”.
Una disposizione analoga a quella dell'insegnamento è quella che troviamo nella sua attività di orientamento. Dopo aver completato la tesi di laurea sull'artista Lygia Clark con Profa. Otília Arantes, poi andata in pensione, si avvicinò a Leon nel 1992, sperando di averlo come supervisore per un progetto sull'arte dopo le avanguardie, nel contesto dell'acceso dibattito sulla cosiddetta postmodernità. Anche se non era un argomento di sua predilezione – tutt'altro!, anzi – ho potuto contare su di lui grazie alla sua profonda generosità, alla sua guida.
Ho potuto quindi verificare che quanto si diceva sul suo lavoro di consulente di orientamento non fosse una leggenda del corridore. Per alcuni anni in sessioni notturne abbiamo discusso riga per riga, come dicono gli studenti di filosofia, il testo che ho scritto e riscritto. Inizialmente, il supervisore, utilizzando un metodo analogo alla maieutica, aiuta il pensiero del consigliere a incontrare il suo oggetto di ricerca. Da allora in poi si instaura un dialogo fecondo, basato su tutto ciò che il testo in preparazione propone, prestando attenzione al suo modo di enunciazione per evitare il luogo comune e l'affermazione perentoria.
Se Leon è un sostenitore di questo continuo esercizio intellettuale, che non è privo di tensione, non significa che abdichi ad ogni momento di rigore o di precisione. Non significa neppure che nella discussione sul testo in preparazione, una volta scartate le sciocchezze, di comune accordo, prevalga la sua posizione, poiché la sua intenzione è quella di contribuire a rendere più acuto ciò che il consigliere intende enunciare. È stato così, quando ho scritto la mia tesi, perché sapevamo che era in disaccordo, senza che questo offuscasse l'interlocuzione, con tanti giudizi che io davo su artisti, critici, o sulla scena artistica contemporanea, che ci sono. Questa coesistenza risulta per il consulente non solo nel completare un lavoro accademico, una dissertazione o una tesi, ma un altro modo di leggere i testi e vedere le immagini.
Se la scrittura di Leon Kossovitch è autoriale se non estremamente personale, come ha già detto Rafael do Valle – “è perché è radicalmente impersonale nel senso che non ammette un Soggetto che si enuncia a referenti”, ma un autore/attore che sperimenta “possibilità e limiti delle operazioni discorsive degli autori che drammatizza”. In altre parole, Leon Kossovitch, nel ricostituire i discorsi degli autori che esamina, mette sempre in primo piano i regimi discorsivi con cui questi autori operano. Se la sua scrittura è ritenuta difficile, se non ermetica, è perché onora il lettore esigendo da lui non solo una lettura molto attenta, ma anche un viaggio alle fonti dinamizzate nei suoi testi, mirando a supplire alle proprie esigenze di lettura.
Leon Kossovitch ha difeso la sua tesi di master: La disgiunzione: Forze e segni in Nietzsche – sotto la guida del Prof. Marilena Chauí – scritta in soli 40 giorni, come si suol dire! – per far fronte all'esigenza che il Dipartimento aveva, in quel momento di instabilità istituzionale, di disporre di docenti qualificati. Questa scrittura in così poco tempo è sfociata in un libro duraturo intitolato Segni e poteri in Nietzsche, pubblicato inizialmente nel 1979, con una riedizione nel 2004. Questo libro è stato pubblicato in un momento in cui non esisteva ancora un filone consolidato di ricerca sugli studi sull'opera di Nietzsche in Brasile, certamente debitore a Gilles Deleuze, senza che questo ne offuscasse la sua unicità, esamina, con la propria lucidità e brillantezza, la forza che determina la natura dei segni (felici, tristi, segni di comunicazione, o doni) nella scrittura filosofica di Nietzsche.
Nel 1981, Leon Kossovitch ha difeso, sempre sotto la guida di Marilena Chauí, la sua tesi di dottorato Condillac: lucido e traslucido che sarà pubblicato solo nel 2011. In questa tesi, mostra che le nozioni operanti in Condillac non hanno rotto con la tradizione retorica, anche se gli è stato attribuito un “modello positivista di chiarezza”. In questo libro la retorica riveste un ruolo critico in quanto sorprende la filosofia come discorso. testimonianze di Leon Kossovitch, grosso modo, Il dialogo di Condillac con la retorica, specialmente in L'art d'écrire, “drammatizzare” [in Prof. João Adolfo Hansen] il suo intreccio retorico di idee e la direzione logica del pensiero”. Fu così dalla difesa della sua tesi, che a mio avviso costituì un punto di svolta nel suo percorso, che la sua ricerca si concentrò sullo studio delle dottrine e dei precetti poetico-retorici dell'antichità greco-latina e del cosiddetto Rinascimento.
Anche Leon Kossovitch ha scritto luminosi saggi in periodici e fitte prefazioni, mai protocolli. Sottolineo l'estrema attualità dell'articolo “La plastica e il discorso”, sulla rivista Discorso, no. 7, del 1976, rivisto che per la sua sola esistenza, in quegli anni, era già un atto di resistenza alla dittatura militare per la dimensione politica della teoria. In questo articolo, letto ancora oggi con grande beneficio, Leon Kossovitch critica l'iconologia di Panofsky, per aver continuato a prendere la plastica come una mera illustrazione del testo, come un linguaggio il cui significato sarebbe necessario rivelare, e non prendere “plastica come plastica”, così che in Panofsky, ancora, “il vedere è schiacciato dal leggere”.
Di qui l'affinità di Leon, in un primo momento, con Pierre Francastel, che afferma l'esistenza di un pensiero plastico (o figurativo) che non passa attraverso il testo, poiché, in esso, “la plastica emerge come plastica nei processi culturali”, emancipandosi dall'iconologia panofskyana. Sarebbe però nella nozione di Lyotard del figurale che Leon troverebbe la migliore enunciazione di ciò che si intendeva per "plastico" (qualcosa di slegato dal discorso e intollerante all'opposizione tra figurativo e astratto): o, addirittura, energico (slegato dal simbolico), come processo del desiderio con le sue metamorfosi o trasformazioni, senza finalismi, che non può essere colto dalle teorie strutturaliste dell'estrazione che postulano la sistematicità e la simmetria, e non l'asimmetrico, la contraddizione e l'imprevedibile. È questa nozione di plastica come energetica che, diciannove anni dopo, attiverà la macchina discorsiva di Leon Kossovitch nel suo libro sull'arte di Hélio Cabral.
Leon Kossovitch ha anche scritto libri e prefazioni estremamente accurati sull'arte in Brasile, in particolare sulla tecnica (e sul linguaggio) dell'incisione. Abituato da sempre alla padronanza della fattura, alla metiê in studio, segue da decenni la produzione di alcuni incisori, con i quali mantiene un vivace dialogo, dando vita a testi unici. Ci sono saggi sulle xilografie di Louise Weiss; le politipie di Sergio Moraes, le calcografie di Rubens Matuck e Zizi Baptista; le litografie di Helio Cabral; le incisioni su metallo di Feres Khoury ed Ermelindo Nardin, tra gli altri.
Il suo dialogo duraturo con Marcello Grassmann ha portato a due libri eccezionali, uno in co-organizzazione con Mayra Laudanna, Marcello Grassman 1942-1955, finalista del Premio Jabuti nel 2014, e un altro, intitolato Libro degli affetti, coautore di Denis Molino e Ana Godoy, pubblicato nel 2019. Per quest'ultimo libro, Leon ha scritto il saggio "Marcello, amigo". La sua descrizione dell'amico potrebbe benissimo essere trasposta al suo autore: “Grassmann è un incoraggiatore che condivide, con gli altri, conoscenza e affetto che non smettono mai di fluire”. In questo saggio, Leon, eludendo la fortuna critica che insiste a caratterizzare Grassmann come un espressionista, mostra in un finissimo commento alle linee e macchie leonardesche delle sue “Apparizioni” (il Bestiario Grassmanniano) che, in lui (Grassmann) la “volontà espressiva” legata alla “volontà schopenhaueriana”, non si lascia imprigionare dal cosiddetto “Espesionismo” che, così schematizzato, ancora all'inizio del Novecento, “accedeva allo status di uno “stile senza tempo.
Leon Kossovitch ha anche pubblicato, nel 1995, un prezioso libro sull'opera dell'artista Hélio Cabral (suoi disegni, dipinti, incisioni, oggetti e multimedia), in cui, anche in questo caso avverso alle agevolazioni della critica d'arte, non ha ricorrere alla specificazione dal gestuale in Hélio Cabral, al passaggio dal figurativo all'astratto, né a termini così comuni nelle arti visive come informalismo, astrazione lirica, espressionismo astratto, actio-pittura o il neoespressionismo (in voga in quegli anni '1990). Oltre a ciò, costituiva un campo di operatori distaccati dalla pittura di Hélio Cabral (visualità/ visionario; visione/ volto; energia connessa/ energia libera; griglia/ associazione; procedura/ processo); e con questi operatori mostrava che la “base materica e gestuale” di Hélio Cabral stava mutando dal 1971 al 1994, con andirivieni, poiché l'energia libera che trasponeva i limiti della figura (o della visibilità) favoriva l'irruzione del figurale e del visionario nella sua pittura.
Ha scritto anche, sempre con occhio sensibile per ciò che è vivace e deviante, di una mostra di giovani artisti brasiliani, non coperta dai media ufficiali – tenutasi nel 2005 presso la fabbrica “Labor”, una vecchia tessitura disattivata nel Mooca quartiere, a San Paolo, prendendo come punto di partenza la convergenza tra le nozioni di “condivisione del sensibile” e di “egualitarismo” di Jacques Rancière, e l'assenza di gerarchie sia tra gli artisti che tra i linguaggi (pittura, installazione , ecc.) in questo spettacolo.
Anche l'interazione con gli artisti Carlos Matuck, Waldemar Zaidler e Kenji Ota ha portato al libro NOX San Paolo, Graffiti, del 2013, per il quale Leon Kossovitch ha scritto un vigoroso saggio, assolutamente originale, senza eguali nella bibliografia nazionale, e, anche in quella straniera, se si considerano i libri su Street Art. Nell'esaminare i metodi di iscrizione (superficiali o scavati) Leon Kossovitch ricorse a documenti preziosi, tra cui il manoscritto di Restif de la Bretonne, del 1776, trovato negli archivi della Bastiglia, e che fu pubblicato solo nel 1889, con note e commenti di Paul Cottin sul libro mese di registrazione, in cui Restif racconta i suoi vagabondaggi per Parigi il 25 agosto 1776, giorno in cui incise quella data sulla pietra calcarea della città.
Si possono anche aggiungere, per quanto riguarda le fonti, tra le altre possibili, i suoi commenti agli scritti di Plinio il Giovane, alle iscrizioni su colonne e pareti di templi e cappelle; al testo in cui Avelino classifica i Graffiti, senza gerarchizzarli, in istruiti o non istruiti; al testo in cui Champleury fa riferimento alle diverse iscrizioni pompeiane, come quelle del poeta, dell'amante, dell'ubriacone, del libertino, del “pittore che traccia col carboncino le prime linee della sua pittura”, o ancora “il fanciullo che, uscendo da scuola, si ferma pigramente davanti a un muro e disegna uno schizzo ingenuo”.
Se mi soffermo un po' sui suoi commenti ai testi sulle iscrizioni negli Antichi e nell'Ottocento, non è solo per sottolinearne la rilevanza, ma è anche per sottolineare che Leon Kossovitch evidenzia, anche qui, la cancellazione a cui questi testi furono assoggettato dall'Ottocento; come la fortuna critica degli ultimi decenni sul graffiti che non si riferisce a loro.
Gli artifici geniali dei saggi di Leon Kossovitch sull'arte brasiliana – tenendo presente che non si tratta di una critica d'arte che, in chiave elogiativa, miri unicamente a pubblicizzare l'opera dell'artista – trovano una similitudine, a mio avviso, solo nel giudizio sull'arte critica di Jean-François Lyotard e nell'unico libro sulla pittura di Gilles Deleuze, Francis Bacon: logica della sensazione, 1981. Nei saggi di Leon Kossovitch, così come nella critica d'arte di Lyotard, c'è una relazione tra sperimentazione artistica e sperimentazione nel pensiero, cioè una correlazione tra le procedure impiegate nella pittura dall'artista, e il modo unico di enunciare il pensato dall'autore.
Prendendo le distanze, quindi, dal consueto modo di operare della critica d'arte, Lyotard mirava, in questi testi, non solo a commentare le opere di certi artisti, ma anche a dispiegare il proprio pensiero sull'arte nei commenti a queste stesse opere. La sua riflessione sui quadri degli artisti gli ha permesso, in altri termini, di precisare questioni già accennate in saggi precedenti, ma i cui sviluppi o portata, solo nella sua critica d'arte, degli anni Ottanta e Novanta, hanno potuto pienamente emergere.
Si può anche presumere che fu nella sua critica d'arte che Lyotard assolse pienamente il compito di costruire “un testo di filosofia che si avvicinasse al testo di un artista” – un obiettivo già dichiarato dall'autore nella prefazione di Discorsi, Figura, 1972. (Un libro caro a Leon Kossovitcha almeno dal citato saggio “O Plástico e o Discurso” sulla rivista Discorso no. 7, del 1976).
Questo procedimento della critica d'arte di Lyotard non mi sembra in contrasto con quello presentato dallo stesso Leon nel suo articolo “Gilles Deleuze, Francis Bacon”, in Rivista USP no. 57, del 2003, in cui ritrae testo e immagine come giustapposti o contigui, la filosofia di Deleuze e la pittura di Bacon, spiegando che “corrono parallele”, su più livelli, compresa l'assenza dell'attributo di organizzazione, sia nel corpo senza organi , o con organi disorganizzati, in Deleuze, e nelle intensità di onde nervose che Bacon dipinge.
Se mi sbaglio in questi parallelismi, alla ricerca di un clima familiare, ho certamente ragione quando dico che i saggi sull'arte di Leon Kossovitch, come tutti gli altri, sono geniali, perché sono intessuti in un sottile ordito, raramente visto per vedere e stimolante da leggere. Spero che i libri e i saggi che ho scelto abbiano mostrato l'ampiezza del tuo interesse, che include anche la fotografia, nel libro Hiléia: la fotografia amazzonica di Antonio Saggese, e la letteratura nelle prefazioni a La o: La finzione della letteratura in Grande Sertão: Veredas, dal 2000 e La satira e l'Engenho: Gregório de Matos e Bahia nel XVII secolo, del 1989, entrambi di João Adolfo Hansen.
Resta da esplicitare un aspetto che suppongo sia già, in qualche modo, indicato in quanto fin qui detto. Leon considera la classe e la politica come “pratiche che non implicano la superiorità dell'una sull'altra”, né implicano “un terzo che le superi o le “contenga”. Sono “campi eterogenei”, e “l'uno si proietta sull'altro”, “l'uno asseconda la proiezione dell'altro” e ciò “contemporaneamente alle rispettive ripercussioni”, come dice in Classe ArteDi 2019.
Ciascuno di questi ambiti, secondo Leon Kossovitch, incontra ostacoli, maggiori in politica (come la disinformazione nei media tradizionali e nella rete digitale, suppongo) e minori in classe, che però è anch'essa ostruita, sia da burocrazia, e da chi paralizza il pensiero. Nelle sue classi, invece, ciò che avviene, come ho cercato di mostrare, è la rimozione di questi impedimenti, in modo tale che, in essi, “il governo è di tutti”, associato alla ricerca e al dialogo con ricadute sull'intelligenza e sull'affettività . .
Per quanto riguarda la burocrazia, posso assicurarvi che Leon Kossovitch condanna l'ideologia che opera nel senso di “gestire” la vita universitaria, come se avesse una sua logica inesorabile, indipendente dalla volontà dei suoi professori. Rifiuta lo stimolo al produttivismo cieco e quantificabile e alla competitività tra i professori che mira sempre [ostinatamente] alla loro gerarchizzazione; cioè, Leon Kossovitch è avverso all'“ideologia del discorso competente” – nei termini della professoressa Marilena Chauí – che concepisce come modello l'“università gestita” secondo la razionalità delle “leggi di mercato” o delle “richieste e richieste di organizzazioni imprenditoriali, cioè del capitale”, minacciando così ciò che sarebbe proprio di un'università pubblica: “educazione critica e libertà nella ricerca”.
In questa direzione, ho sempre preso la percezione scandalosa di Leon Kossovitch nel processo di svelare un'immagine, condurre una classe, guidare la ricerca o scrivere i suoi testi, come una forma di reazione al mondo governato dai media elettronici e dalla tecnologia dell'informazione, da “ sensazione di simultaneità e immediatezza”, di voracità e fretta, tipiche del capitalismo finanziario che mette in discussione ogni visione di lungo termine, favorevole alla circolazione accelerata dei capitali su scala globale. Il suo atteggiamento etico, della più assoluta coerenza, nel pensiero e nella vita è un gesto di rifiuto radicale delle parole d'ordine della società neoliberista: “Successo, adeguatezza, narcisismo, competitività, performance, realizzazione, ottimizzazione, performance”.
Infine: Leon: So che queste mie considerazioni non rendono giustizia alla grandezza dei tuoi meriti, ma spero che almeno siano riuscite a esprimere la più profonda ammirazione e gratitudine della nostra Facoltà, e del Dipartimento di Filosofia in particolare , per averlo avuto come professore emerito e amico. Grazie, Leone.
*Ricardo Fabbrini È professore presso il Dipartimento di Filosofia dell'USP. Autore, tra gli altri libri, di L'arte dopo le avanguardie (Unicamp).
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