Louis-Ferdinand Céline nella Pléiade

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da LEDA TENÓRIO DA MOTTA*

Louis-Ferdinand Céline arrivò a scrivere il discorso del francese dai margini della società, sotto il collasso morale del periodo pre-Vichy, fino ai colpi di stato più aggressivi del parigot, slang parigino

Se è vero che alcune delle rotture epistemologiche più importanti nella storia moderna delle idee provengono da pensatori ebrei come Marx, Freud ed Einstein, così come la letteratura moderna deve quasi tutto al romanzo sul romanzo dell’anche lui ebreo Marcel Proust, in tutti questi casi si tratta dell'ebreo laico.

Dalla constatazione che la merce si erge davanti a noi con artifizi teologici all'omologazione einsteiniana del Dio-Natura di Spinoza, passando per la congettura psicanalitica di un Mosè, egiziano fondatore del monoteismo, l'elegante laicità ebraica moltiplica scorci stupefacenti. Consideriamo cose come la celebrazione barenboiniana di Wagner nel centro di Gerusalemme o la proiezione harendtiana del presunto assoluto male nazista nella relatività della bassezza del banale...

Sarà perché, come scrive Amos Oz, in questo imperdibile trattatino di semiotica Gli ebrei e le parole, posti tra l'esilio e la trasmissione commemorativa, da venticinque secoli, gli ebrei sono dipesi forse dalle parole, e non da parole qualunque, ma da quelle contenute nei libri? Oppure sarebbe perché, come si può vedere dalle migliori sciocchezze Le battute e il loro rapporto con l'inconscio, che Freud trae da un repertorio di barzellette interiori, l'ebreo sa ridere di se stesso?

Per restare nell'ambito della critica, in buona parte è anche alle menti ebraiche, tanto più formidabili quanto libere da chiusure identitarie, che si deve il riconoscimento di ciò che è arrivato al romanzo francese dopo la grande scena proustiana. , con l'irruzione più che problematica di questa inevitabile figura di un nuovo prosatore, al tempo stesso ossessivo persecutore degli ebrei, che è Louis-Ferdinand Céline.

Tra l’altro, perché non ignorano l’ironia con cui l’autore certamente abietto di quattro opuscoli arrabbiati risalenti agli anni dell’ascesa del nazismo, due dei quali coinvolgono freneticamente gli ebrei nelle trame della seconda guerra mondiale, non ha mai smesso di voler schierarsi al fianco di Marcel Proust. Scendendo in campo a spiegare, soprattutto nella Liberazione, al ritorno dall'esilio al quale lo avevano portato le stesse diatribe, che tutto ciò che scrisse era in linea con le grandi guerre, esattamente come Alla ricerca del tempo perduto... alla linea salone.

Perché se Marcel Proust è stato lo stilista che ha registrato la caduta definitiva dell'aristocrazia francese, nel contesto ormai piccolo-borghese della Terza Repubblica, arrivando a cogliere le più piccole sfumature del linguaggio dell'ultima nobiltà per rinchiudersi difensivamente negli alberghi del Banca giusta, lui, Louis-Ferdinand Céline, arrivò a scrivere il discorso del francese dai margini della società, sotto il collasso morale del periodo pre-Vichy, fino ai colpi di stato più aggressivi del parigot, slang parigino.

Nascosto in una sezione di Biglietti a cui generalmente non si accede, il gesto intellettuale più impressionante, in questo senso, è quello di Walter Benjamin che osa non solo menzionare Louis-Ferdinand Céline ma collocarlo nella discendenza diretta o “nella linea” di Charles Baudelaire. Sarà perché, da proustiano quale era, il filosofo era in una buona posizione per rendersi conto che l'immaginario celiniano della storia, al contrario, riuniva tutti i valori poetici della testimonianza alla Proust, a partire dall’emergere della vertigine enunciativa dell’autore-narratore-attore ex abrupto moltiplicare i punti di vista?

Il fatto è che, tra le note di quest'opera incompiuta e infinibile che è la Passage-Lavoroe, avvenuta nel pieno degli anni parigini dell'ascesa del nazismo e nel pieno della febbre del pamphlet celiniano, c'è una sorprendente associazione tra le cospirazioni del poeta e quelle del romanziere. Così equiparato, con nostro stupore, ad analoghi fiori del male.

Il filosofo, infatti, raccoglie ed evidenzia, in questo frammento del suo dossier per un futuro libro su Charles Baudelaire, finalmente mai pubblicato in vita, che dovrebbe intitolarsi Un paroliere all'apice del capitalismo, confidenze più che delicate da Mon coeur mis à nu, tono antisemita dei pamphlet celiniani. Un estratto dal celebre Diario Baudelairiano è un brano tanto veloce quanto fulminante di commento alle rivolte di strada del 1848, a cui si sa che il poeta partecipò.

In questo pezzo confidenziale, mette in risalto i suoi ricordi legati alle grida di guerra lanciate all'epoca e al suo modo di accogliere le insinuazioni antisemite che vede improvvisamente mescolarsi alle voci ribelli. Sottolinea come Baudelaire li attribuisca ad “assassini scherzosi”. Egli trascrive la sua crudele meditazione sull'argomento: “Si sta organizzando una bella cospirazione per lo sterminio della razza ebraica”.

E osa lanciare questa nota critica conclusiva: “Céline ha continuato questa linea”. Il “bel complotto”, infatti, continuerebbe, in Curiosità per un massacro, il secondo dei pamphlet di Louis-Ferdinand Céline degli anni Trenta, e quello in cui si dichiara il tema dell'ebreo, insieme a quello dell'accademismo ebraico e, nei termini persecutori di Céline, della sua detestabile supremazia. In Origini del totalitarismo, Hannah Arendt dirà che ci sono anticipazioni francesi dell'antisemitismo europeo nelle trame della rivoluzione del 1848.

È chiaro che un simile approccio può e deve essere spiegato anche con le difese di Baudelaire del comico assoluto, come si trova, ad esempio, nel Baudelaire del saggio, anch'esso generalmente poco consultato. Dall'essenza della risata. E in questo caso, il ponte così inaspettatamente eretto tra una poesia che riverisce se stessa e una letteratura che si aborrisce può e deve essere compreso nel solco della dissoluzione del violento nel derisorio, caratteristica della doppiezza di colui che ha definito la modernità. come perfettamente tagliato in due. Da qui la giocosità omicida.

Ciononostante, è impossibile non distinguere nell'arroganza del critico ebreo che non esita a interpretare l'insulto di Celin all'ebreo come una riproposizione dello shock baudelaireiano ciò che l'ebrea nordamericana Judith Butler, soprattutto perché in guerra contro il genere paradigmi, la chiamerà una “visione dell’eccezionalismo ebraico”, alludendo all’uso politico del genocidio che porta alla costruzione da parte del sionismo di un “tipo estatico di ebreo”. Cioè l'ebreo stereotipato, esempio unico o irripetibile della sua specie, per Butler è incompatibile con la molteplicità di esperienze dell'ebreo diasporico, come sostiene in Percorsi divergenti.

È a questa stessa laicità a cui pensa Philip Roth, nel capitolo “Scrivere di ebrei” di Perché scrivere, sottolineando “il rozzo mito dell’ebreo patriottico bellicoso e bellicoso” che è forgiato nella cultura di massa americana da cose come la best seller di Leon Uris, Exodus, e il pluripremiato film con lo stesso nome, e prosperò per tutto il secolo. E attribuendo al mito del buon ebreo anche il restringimento delle “regioni della coscienza e del sentimento” del particolare soggetto israeliano pressato dalla “generale oratoria dell'autostima e dell'autocommiserazione”. E soprattutto rifiutando il peccato di esecrazione dei propri fratelli che è sempre stato suo, per aver osato ritrarre gli ebrei come li ritrae lui, coinvolgendoli nella bruttezza della vita, senza timore di esporli al pericolo del suo tradimento .

Si può sempre concederlo a chiunque voglia rifletterci, come è il caso di Hannah Arendt, per la quale Louis-Ferdinand Céline si concentra su un discorso dell'epoca, secondo cui avendo privilegiato l'ebreo, come lo scrittore lo aveva privilegiato, nella sua elucubrazioni sulla guerra, lo impegna ancor più, in quanto letterato, già acclamato da Jean-Paul Sartre, da viaggio al confine della notte (1932), quanto tale discorso sia nell'aria volgare dell'epoca.

Vivere da rifugiato in Francia, come Walter Benjamin, quando se ne andò Curiosità per un massacro (1937) e L'École des cadavres (1938), ne segue poi gli avvenimenti, ripresi con precisione in Origini del totalitarismo, dove leggiamo le sue riflessioni sui due testi sopra riportati: “La tesi di Louis-Ferdinand Céline era semplice, ingegnosa e aveva tutto quello che occorreva in termini di fantasia ideologica per completare l'antisemitismo razionalista dei francesi. Affermava che gli ebrei avevano ostacolato l’evoluzione dell’Europa come entità politica, provocando tutte le guerre europee e complottando la rovina della Francia”. Anche considerando la direzione che prese la soluzione finale del genocidio in Francia, chi potrebbe non essere d’accordo?

Proprietaria di una finezza senza precedenti nel confronto con la questione ebraica, in questo caso, però, Hannah Arendt sembra essere tenuta in ostaggio dalla letteralità del materiale che esamina, concentrandosi sull'enunciato fascista e ignorando la trasvalutazione dello stile, vedendo la ragione nella sciocchezza. Non ti addebitiamo alcun servizio nel campo poetico. Ma sottolineiamo, sì, che un immenso critico letterario internazionale ebreo-francese o franco-ebreo come George Steiner, soprattutto perché interessato alle rivoluzioni del linguaggio poetico moderno, la metterà a disagio.

In primo luogo, ammettendo che effettivamente esiste Bagatelle un appello all’eradicazione degli ebrei dall’Europa, e che ciò fa parte di una cospirazione generale, così come l’igienismo di Louis-Ferdinand Céline, che di professione era medico, è tipico dello scientismo che si respira anche nell’aria tempo. Ma, in secondo luogo, e ora dando rilevanza alla letteratura, che, vedendo le cose da un altro lato, si pone “il problema del significato da dare a questo linguaggio parossistico”.

Quindi non sono d'accordo, in Territoriali, con il patto di mettere i romanzi su uno scaffale e gli opuscoli su un altro, il che equivarrebbe a proiettare fuori dal linguaggio tutta l'incertezza di Louis-Ferdinand Céline, quel “grande macabro”, come lui lo definisce.

Esiste oggi un consenso tra gli studiosi, soprattutto tra coloro che si occupano delle metamorfosi dello stile dello scrittore, nel periodo tra le due guerre, e dei debiti del grande stile celiniano finale verso il regime esclamativo-reticente dei pamphlet, che, oltre a il comic shock, questo formato finale inizia a contenere il pensiero poetico dell'autore, che si mescola senza licenza con il politico ragionato o irragionevole.

È inseparabile da queste congetture ricordare che il genere del pamphlet è comico, nella sua origine antica, motivo per cui i surrealisti usarono il procedimento, ad esempio, per demolire un maestro della vecchia guardia della letteratura francese chiamato Anatole France, commemorandone la morte. nel modo più pamphlet, nel 1924. , in una parte di attacco corrosivo chiamata Il cadavere, da cui Louis-Ferdinand Céline è visibilmente ispirato.

Farebbe al caso di Roland Barthes – che non si trattiene dal citare Louis-Ferdinand Céline, in Il grado zero della scrittura, sugli omicidi dalla letteratura classica a quella moderna – che il contenuto non può essere fascista se non lo è la forma. Non lo ha detto, nel bel mezzo del rito di ingresso nel Collège de France, qual è il linguaggio che è fascista, non perché ci vieta di dirlo, ma perché ci obbliga a dirlo? A questo fanno affidamento i lettori profani dello scrittore baudelaireano-proustiano per affrontare i suoi massicci attacchi contro tutto e tutti, come quest'ultimo uscito dalle sue dissociazioni maniacali in L'École des cadavres: “la spudorata repubblica massonica, cosiddetta francese, è interamente alla mercé delle società segrete e delle banche ebraiche…”

Da Barthes a Kristeva, passando per Philippe Sollers, nuova critica La francese eccelleva nel mettere tutto questo nel resoconto di un riso lacerato di fronte al quale né il Baudelaire del saggio sul riso, in cui difende i caricaturisti, né il Proust che diffonde barzellette ebraiche nei salotti vecchia francia de Alla ricerca del tempo perduto non si sono mai tirati indietro.

In un momento in cui la Francia è divisa sull’interesse a lanciare Louis-Ferdinand Céline nella celebre collezione Pléiade di Gallimard, vale la pena ricordare ciò che dice questo immenso scrittore ebreo non praticante, Philip Roth, nel già citato libro Perché scrivere, sull'insistenza sulla peculiarità ebraica, come lui stesso la affrontò, come Zuckerman in catene, davanti alla comunità ebraica del New Jersey: “Per l'ideologia e il sogno nazista, gli ebrei erano allo stesso tempo intollerabili e utili ai loro scopi ”. Vuol dire: ebrei al riparo sotto l'oppressione della nomenclatura, sempre uguali a se stessi.

*Leda Tenório da Motta È professoressa presso il Programma di studi post-laurea in Comunicazione e Semiotica presso la PUC-SP. Autore, tra gli altri libri, di Cento anni della Settimana dell'Arte Moderna: Il gabinetto di San Paolo e l'evocazione delle avanguardie (prospettiva). [https://amzn.to/4eRXrur]

Riferimenti


ARENDT, Hannah. Origini del totalitarismo. Tradotto da Roberto Raposo. San Paolo, Companhia das Letras, 1998.

BARTHES, Rolando. lezione in Opere complete. Libri, testi, intrattenimento. Rivista della nuova edizione, corretta e presentata da Éric Marty. Parigi, Siviglia, 2002.

BENIAMINO, Walter. Biglietti. Edizione brasiliana Willi Bole, Collaborazione Olgaria Chain Feres Matos. Tradotto da Irene Aron. Tradotto dal francese da Patricia de Freitas Camargo. Belo Horizonte Editora UFMG, Stampa ufficiale dello Stato di San Paolo, 2006.

BUTLER, Giuditta. Percorsi divergenti. Ebraicità e critica al sionismo. Traduzione Rogerio Betoni. San Paolo, Boitempo, 2017

ROTH, Filippo. Perché scrivere. Conversazioni e saggi sulla letteratura. 1960-2013. Tradotto da Jorio Dauster. San Paolo, Companhia das Letras, 2022

STEINER, Georges. Extraterritoriale. Letteratura e rivoluzione linguistica. Tradotto da Julio Castañon Guimarães. San Paolo, Companhia das Letras, 1990.


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