da AMARILIO FERREIRA JR.*
Il riordino dei pezzi della tavola politica nazionale e internazionale
Dal 1930 in poi si è inaugurato in Brasile un processo storico che ha generato una società segnata da alcuni elementi strutturali – economici e politici – che si sono trascinati fino ai giorni nostri. Questo punto di svolta storico auspicato dalla discontinuità senza rottura con il profondo passato corporativo brasiliano, i cui legami si sono ramificati nel lungo periodo coloniale della schiavitù e dell'esportazione di manufatti verso i centri più dinamici del capitalismo mondiale, ha determinato la cristallizzata convivenza tra ricchezza e povertà sia nelle aree regionali che metropolitane diffuse sull'ampio territorio nazionale.
Assistiamo, a partire dal terzo quarto del XX secolo, all'emergere di una società urbano-industriale segnata dall'assenza dei due principali protagonisti storici dell'ordine sociale capitalista classico: borghesi e proletari di fabbrica. Tardiva, periferica e imposta dall'alto verso il basso, la modernizzazione accelerata dei rapporti di produzione capitalisti ha dovuto condottieri incipienti frazioni delle vecchie aristocrazie agrarie nostalgiche del passato coloniale. Non potendo stabilire l'egemonia politica, nel periodo in cui storicamente si costituivano borghesi e proletari, la soluzione trovata fu l'istituzionalizzazione di un regime politico repubblicano basato sull'autocrazia. Poi vennero due dittature intervallate da successive crisi politiche: l'Estado Novo (1937-1945) e il regime militare (1964-1985).
La borghesizzazione di frazioni dell'aristocrazia agraria e il consolidamento della nuova classe operaia di fabbrica, che non era più formata solo dai cosiddetti “italianinhos” e aveva la pelle nera o mulatta, acuì ulteriormente i conflitti sociali legati alla distribuzione delle reddito nazionale e all'attuazione delle politiche pubbliche, cioè l'avvento della società urbano-industriale si è basato – organicamente e unitariamente – su una tradizione storica basata sull'esclusione delle masse popolari, in particolare negli ambiti dell'istruzione e della sanità. Così, il Brasile è entrato nel XXI secolo con uno dei dieci più grandi Pil su scala mondiale e, allo stesso tempo, con una brutale concentrazione del reddito nazionale nelle mani di pochi.
Così, la “rivoluzione passiva” che ha modernizzato i rapporti di produzione capitalistici è stata la stessa che ha mantenuto la “logica storica” fondata sull'esclusione delle masse diseredate dalle politiche pubbliche repubblicane dopo la fine di 350 anni di schiavitù. La tardiva abolizione dei rapporti di produzione schiavistica (1888) e il mantenimento della struttura fondiaria agraria, ereditata dalla legge agraria varata nel 1850, paralizzarono la Repubblica e ne dissanguarono gli sproni sistematicamente antecedenti al mondo del lavoro. Poi, alla fine del XX secolo, un intellettuale di spicco, che occupa la carica di massimo rappresentante della Repubblica istituita dal 1889, affermerà: “stiamo ponendo fine all'era Vargas” (1930-1945). Cioè, non sarebbero tollerate nemmeno le poche conquiste sociali ottenute all'inizio della “rivoluzione passiva”, in particolare dopo il golpe parlamentare del 2016.
La fine del XX secolo, tuttavia, non ha portato solo il degrado del contesto sociale nazionale. A livello internazionale, nemmeno il decreto della “fine della storia”, con il crollo dell'Urss (1991), ha fermato le crisi cicliche dei rapporti capitalistici mondiali. Emblematica è stata la crisi sistemica (2008-2010) prodotta dal capitale finanziario internazionale, cioè dal ruolo disastroso che la speculazione sulle borse impone al capitale produttivo su scala planetaria. Per mantenere artificialmente i loro profitti esorbitanti, i produttori di risparmio (rentiers) mettono a dura prova lo scenario internazionale attraverso guerre localizzate, in particolare in Medio Oriente per il petrolio, o colpi di stato in America Latina attraverso la cosiddetta "guerra ibrida".
Inoltre, la situazione internazionale è visceralmente segnata dal lento e graduale processo di declino del capitalismo statunitense attraverso lo spostamento del centro economico mondiale da Occidente a Oriente. Questo movimento “tettonico”, però, apre una contraddizione: per mantenere il dominio militare su scala globale, l'imperialismo statunitense mette sistematicamente sotto pressione le relazioni internazionali, essendo obbligato a mantenere ingenti budget per alimentare la sua corsa agli armamenti. Tuttavia, assistiamo a manifestazioni di contrappunti nell'attuale e travagliato contesto internazionale. In questo caso, emblematica è stata la costituzione dei BRICS (2009) – organizzazione che riunisce il 42% della popolazione, il 23% del Pil, il 30% del territorio e il 18% del commercio mondiale – come uno degli snodi internazionali che evidenzia questo processo storico in corso dall'inizio del millennio in corso.
La Nuova Via della Seta (Iniziativa Belt and Road) e l'attuale accordo commerciale della Cina con l'Iran, ad esempio, aiutano ad alleggerire la situazione internazionale e fanno pressione sugli Stati Uniti affinché ritornino all'accordo nucleare con il Paese musulmano. Inesorabile è il processo di spostamento della produzione industriale dal Nord Atlantico all'Asia orientale, che consentirà di costituire un nuovo centro mondiale di ricchezza materiale con altri valori spirituali ben diversi da quelli chiamati “costumi occidentali”, cioè noi stanno assistendo al trasferimento del secolare asse atlantico, stabilito dai grandi imperi (il più famoso fu quello britannico), verso un nuovo asse: l'Oceano Pacifico.
Nelle “terre brasiliane”, dall'8 marzo, lo scacchiere politico ha subito un nuovo riordino delle sue parti. Le offerte simultanee dell'STF, che ha annullato le cause contro l'ex presidente Lula e ha votato per il sospetto di imparzialità dell'ex giudice Sérgio Moro, ha catapultato la situazione nazionale a un nuovo livello segnato da due blocchi storici antagonisti. Così, la polarità ideologica tra “nazional-evoluzionismo” e “resa subalterna” occupò ancora una volta il proscenio della vita politica nazionale. Entrambi sono storicamente legati al taglio cronologico del 1930: il primo, nell'ottica del superamento degli elementi strutturali che si amalgamavano con l'accelerata modernità capitalistica che concentrava il reddito nazionale; la seconda, segnata dalla logica corporativa che ha generato “la grande casa e gli alloggi degli schiavi”.
La sconfitta del programma neoliberista e della politica regressiva professata dal secondo blocco storico dipende dalla capacità del primo di saper costruire un ampio fronte democratico, cioè di istituirsi con tutti coloro che difendono: lo Stato democratico di diritto ; l'equa distribuzione del reddito nazionale; e la sovranità nazionale in un contesto internazionale multipolare, basato su agenzie multilaterali che rispettano l'autodeterminazione delle nazioni.
La formazione del fronte democratico non deve essere guidata da alcun tipo di revanscismo politico, motivato in particolare dalle conseguenze politiche che guidano la vita nazionale dal 2013. Dopo il discorso del 10 marzo, Lula si è riaccreditato, ancora una volta, come politico leader brasiliano capace di strutturare il fronte democratico e guidare un governo che metta in pratica il programma minimo sopra esposto. Il programma è minimalista, ma potrebbe aprire possibilità storiche che taglierebbero i nodi gordiani e secolari che ci legano come catene fin dal periodo coloniale.
*Amarilio Ferreira jr. È professore presso il Dipartimento di Educazione dell'UFSCar.