da LUIZ RENATO MARTIN*
Commento al modello interpretativo dell'attore italiano.
aura scenica
Coincidenza, simbiosi, la nostra fantasia o cosa? La qualità della figura di Mastroianni nei film di Fellini suggerisce il mito dell'attore senza maschera, della finzione che è la cosa stessa, facendo ipotizzare: qual è il limite tra l'attore e il personaggio?
Tanta naturalezza è un'arte, e la sua storia appartiene al legame costante di Fellini con i fumetti da oltre 50 anni. Il legame comprende nomi illustri e il corteo di figure anonime in cui Fellini vedeva l'espressività che lo contraddistingueva come regista di attori e creatore di tipi e figure. Fabrizi è in cima alla lista; per lui, Fellini ha fatto gag e script prima del 1945, e lo portò a Rossellini per essere il protagonista di Roma Città Aperta (Roma, Città Aperta, 1945). Peppino de Filippo seguì nel 1950; Leopoldo Trieste, nel 1952-3; Alberto Sordi, più o meno nello stesso periodo; Giulietta Masina, che era già apparsa in un ruolo secondario in Lo Sceicco Bianco (abisso di un sogno, 1952), ma diventa protagonista nel 1954… Benigni, nel 1989, è l'ultimo. Che posto aveva Mastroianni in quel ruolo?
Tutti questi fumetti, tranne Masina e Mastroianni (il cui debutto in scena, nel 1948, fu con lei), provenivano dal filone popolare del teatro italiano. Nell'opera di Fellini tracce del cosiddetto "Italia“: la nazione provinciale, sotto il clero e immersa nella vita familiare, che crea donne sacrificate, uomini con vanità e capricci – tutti per sempre infantilizzati dal dispotismo di patriarchi e matrone onnipotenti. Approfondendo la descrizione, i film di Fellini successivi al 1968 (Io Clown, Roma, Amarcord) attribuì a tali matrici la socialità che generò il fascismo.
Nella gestualità e nella verve di questi attori (come in Totó, Anna Magnani, Tognazzi, Gassman, Manfredi…) vediamo tracce del rapporto diretto tra l'attore popolare (del circo, del teatro di rivista, ecc.) con il pubblico – comunque tecnica senza mediazione che il cinema porterebbe, provocando diversi cambiamenti nel modo di vedere e di agire.
Modernizzazione tardiva e accelerata: La Strada
Cambiamenti significativi sono avvenuti nell'opera di Fellini, con La Strada (La strada della vita, 1954), e passarono decisamente attraverso la scelta degli attori. Gli americani sono entrati in scena nei panni degli italiani: Anthony Quinn e Richard Basehart. E il ruolo principale è stato affidato a Giulietta Masina, che reciterà anche lei Le Notti di Cabiria (notti di cabiria, 1956). L'altro attore cruciale di questi cambiamenti è stato Marcello Mastroianni, di La Dolce Vita (La dolce vita, 1959).
Fellini fugge così dalle fonti della commedia tradizionale all'italiana. Cercheresti un comico opposto al modo di recitare barocco e italiano, eccessivamente enfatico e ripetitivo? Il fatto è che il Chaplinismo funzionò all'epoca come scorciatoia a portata di mano. La scelta ha avuto conseguenze immediate. In La Strada, la costruzione del ruolo di Masina (Gelsomina), secondo il modello importato, coinvolgeva aspetti specifici dell'idea di cinema e della sua funzione sociale, che distinguevano Chaplin, tra tanti altri esuberanti comici del cinema muto.
L'opera di Chaplin – contenente critica sociale e satira politica – e la sua militanza antinazista lo poneva come un “impegnato” e suscitava l'ira maccartista; per questo Chaplin, come è noto, fu costretto nel 1952 a lasciare gli USA e ad andare in esilio in Svizzera. Nella foga del momento e in un contesto così da Guerra Fredda, per basarsi già nel 1953-4, nel caso di La Strada, per Chaplin (appena esiliato e nell'anno successivo alla sua espulsione), doveva schierarsi (nelle dispute internazionali e nazionali – infatti, l'Italia era notoriamente, all'epoca, un focolaio, e uno dei più accesi, di dispute strategiche in Occidente). La Strada quindi ha funzionato anche come manifesto e programma.
Su un altro piano, la gestualità e la mimica sincopata di Chaplin trasferiscono al corpo la legge della sequenza filmica delle immagini, strutturata sulla base degli “shock” oltre che della percezione moderna.[1] Così, nell'essenziale economia mimica di Chaplin – come in quella di Buster Keaton – si forgiava una risposta, in ambito espressivo, alla nuova divisione tra uomo e macchina. In tal modo il cinema ottenne, nelle commedie di questi due interpreti-creatori, un'economia retorica all'altezza della nuova razionalità gestuale e mostrò, con ironia, attraverso il gioco della scena, e soprattutto il modo di recitare di uno e del dall'altro, il nuovo rapporto uomo-macchina, da esso polarizzato e cadenzato.
Pertanto, rielaborando le lezioni di Chapin nel contesto italiano, La Strada ha segnalato la crescita della destrezza di Fellini con il cinema. Parallelo al Chaplinismo, bello ed espressivo scatti itineranti – modalità essenzialmente cinematografica – non utilizzata da Fellini nei suoi film precedenti. Infine, il modello narrativo teatrale, utilizzato in precedenza da Fellini, è stato abbandonato e il processo è avanzato anche sulla trama nel suo insieme. Il personaggio di Zampanó – i cui gesti ripetitivi, spezzando catene, evocavano (come nella figura chaplinesca di Tempi moderni, [1936]) l'uomo ritmato dalla macchina – parodicamente alluso al fatto che l'Italia si stava industrializzando a ritmi accelerati, e si stava ricostruendo da cima a fondo nel corso di un boom ebbe origine nell'industria siderurgica (spinta non solo dalla modernizzazione locale, ma anche dall'espansione dello sforzo militare nordamericano, durante la guerra di Corea [1950-53]). Insomma, il lavoro svolto da Fellini, in La Strada, un salto strategico, sostenuto da nuovi attori e intervenendo in due fronti simultaneo, per superare il contenuto populista e la forma mimetica naturalistica del discorso neorealista. In questo modo si è evoluta in una critica radicale dell'immagine, che ha unito – con una punta brechtiana – parodia, riflessione e analisi strutturale della società (in un processo di modernizzazione tardiva e accelerata).
Maschere moderne e animali cinematografici
In sintesi, Fellini imposta, in questi termini, una critica che mirerà – nella nuova analisi dell'immagine – alla produzione e ricezione dello spettacolo, e alla modernizzazione, che riconfigurava le relazioni secondo l'immaginario edonistico e narcisistico del consumo. La Dolce Vita è stato il primo atto a questo nuovo livello. Il film ha introdotto la cultura italiana nell'era del pop art. Preparava il pubblico ad Antonioni, che, per tutti gli anni Sessanta, esaminerà, come Godard, le soffitte della soggettività oggettivata.
Mastroianni è stato uno dei fattori dell'affermazione in Italia della modernità del cinema di fronte ad altri sistemi linguistici. Così, l'attore è stato presto incorporato La notte (un rumore, 1960) di Antonioni, che cercò anche – senza successo – il concorso di Masina per il ruolo che sarebbe poi andato a Jeanne Moreau. Nel frattempo, Antonioni aveva Monica Vitti per uso analogo.
Alla fine, qual è stato il contributo di questi attori, a favore dell'autonomia e dell'innovazione del linguaggio cinematografico, allora in fieri? Non cessarono di essere fumetti italiani e, come tali, di attingere – come i precedenti – dalla ricca tradizione popolare italiana. Tuttavia, Mastroianni, Masina e Vitti hanno risposto, come attori, a un nuovo ciclo storico, in cui il lavoro meccanizzato e riproducibile ha ristrutturato l'economia mondiale (compresa quella italiana), e ha portato lo sforzo produttivo, compreso il lavoro umano, a un livello senza precedenti. .
Come fumetti, Mastroianni, Masina e Vitti elaborano un modo moderno e versatile, che ha dato alla scena italiana maggiore cosmopolitismo e universalità. A cosa corrispondeva la sua nuova commedia? Quanto alla forma, Masina, Mastroianni e Vitti erano “animali cinematografici”. Sapevano “istintivamente” che il cinema, attraverso vari artifici, funziona come una lente d'ingrandimento o un microscopio, che esalta la percezione, offrendole ciò che passa inosservato, sotto l'azione sommaria della routine percettiva.
Da questo punto di vista, l'attore cinematografico, seguendo la lezione di Chaplin e Keaton, dovrebbe agire con leggerezza, lasciando il resto alla macchina. Si trattava di un adeguamento simile a quello sostenuto, in architettura, dalla formula (di Mies van der Rohe): “meno è più (meno è meglio)". Altrimenti, l'attore cinematografico cade nel cosiddetto esagerare, diventa teatrale o istrionico. Mastroianni è stato assolutamente chiaro su quello che stava facendo: “Ho sempre cercato di togliere più che aggiungere, in termini di espressione, gestualità, intensità. Perché il cinema si espande, si dilata. Credo persino che meno una persona fa, meglio è. Penso di essere stato così all'inizio della mia carriera. Credo che la semplicità sia assolutamente un traguardo (…) da raggiungere” (Lo Stato di San Paolo, 3/11/1996).
La comicità dialettica della “seconda” (o ennesima) natura
La ricerca della semplicità ha distinto i tre suddetti attori dalla generazione precedente. Per quanto riguarda la canzone, Roberto Murolo, Chet Baker, Johnny Alf, João Gilberto, Nara Leão, ecc. hanno svolto un ruolo simile. Li unificava la consapevolezza che la mediazione tecnica era diventata cruciale a tutti i livelli della produzione e, di conseguenza, che il circuito sociale dell'arte era diventato un altro nella società atomizzata.
Il circuito, infatti, diventava spesso quello della ricezione in un ambiente compatto e da dispositivi ad uso individuale. Ben presto l'arte ha cominciato a coniugare, preferibilmente, il tono di voce in prima persona, il dialogo interiore, il raddoppiamento, autonomo, della consapevolezza di sé.
In termini di umorismo, un altro aspetto di questo rinnovamento è stato quello tematico. La sofferenza umana, che genera la materia prima dell'umorismo, non era più mescolata a rapporti personali di servitù – che, tra l'altro, Totó ironizzava, con verve indimenticabile. Con la modernizzazione cominciarono a prevalere situazioni impersonali, riprodotte secondo una logica astratta – la società, secondo Weber, era razionalizzata; l'umore, idem.
In questo senso, Kafka ha forgiato il nuovo fumetto. Nell'ordine automatico e irriflessivo da lui diagnosticato, l'antidoto, la via radicale, assumeva tratti di autoironia, di abnegazione, di autodelimitazione. La cosa più comica, nel nuovo film, è arrivata insieme all'atto della libera riflessione, contro la trama della modalità automatica. Questo è quanto resta per tutti gli esseri schiacciati che la commedia difende sempre.
Di qui la nuova scioltezza di Mastroianni e dei suoi coetanei, che hanno fatto – dal no al sì e dal sì al no –, prendendo dall'incertezza e dal non sapere una precisione irriducibile. Pertanto, hanno rappresentato sia affermativamente che negativamente, incorporando l'opposto nell'atto stesso. Insomma, sono passati alla comicità dialettica. La nuova naturalezza consisteva nella pratica di oscillare permanentemente tra gli opposti; docilità combinata e incessante riflessione o critica su ogni limite.
Pertanto, la modalità di base di questa commedia è stata definita come essenzialmente riflessiva. E il newyorkese Woody Allen, ormai da tempo esemplare protagonista del genere e capo ironico – del bene e del male attuale –, ha opportunamente adottato come dato genetico gli occhiali simbolo di Mastroianni.
"Finale”, ancora con la magia degli opposti
Mastroianni e Anita Ekberg, sempre diretti da Fellini, hanno offerto, in Intervista (Intervista, 1987), esempio coraggioso di questo andirivieni tra gli opposti, offrendoci una sintesi visiva della condizione umana. Era nella sequenza in cui i due attori, allora invecchiati e deformi, si confrontavano con le loro immagini iconiche, di come erano 28 anni prima, sul set della Fontana di Trevi di La Dolce Vita. Per tale attitudine all'autoironia, Robert Altman (con il quale l'attore ha lavorato Prete a porter, 1994) ha coniato un distico per Marcello: “Fu l'ultimo dei grandi pagliacci"(La Repubblica, 20/12/1996).
*Luiz Renato Martins è docente-relatore dei corsi di laurea in Storia economica (FFLCH-USP) e Arti visive (ECA-USP). Autore, tra gli altri libri, di Conflitto e interpretazione in Fellini: Costruzione della prospettiva del pubblico (São Paulo, Edusp, 1994).
Revisione e assistenza alla ricerca: Gustavo Motta.
Modificato dal testo originariamente pubblicato con il titolo “Con Fellini, Suggerisce il mito dell'attore senza maschera/ Mastroianni fu l'ultimo dei moderni pagliacci”, Quaderno 2, Lo stato di São Paulo, 4 febbraio 1997.
Riferimenti
Federico Fellini. La Strada (La strada della vita), 1954, b/n, 35 mm, 108'.
_________, Le Notti di Cabiria (notti di cabiria), 1956, b/n, 35 mm, 110'.
_________, La Dolce Vita (La dolce vita), 1959, b/n, 35 mm, 174'.
_________, Io Clown (I pagliacci), 1970, colore, 35 mm, 92'.
_________, Roma, (La Roma di Fellini), 1972, colore, 35 mm, 120'.
_________, Amarcord, 1973, colore, 35mm, 123'.
_________, Intervista (Intervista), 1987, colore, 35 mm, 107'.
Nota
[1] Vedi Walter Benjamin, L'opera d'arte nel tempo della sua riproducibilità tecnica (seconda versione), presentazione, traduzione e note Francisco de Ambrosis Pinheiro Machado, Porto Alegre, ed. Zuk, 2012.