da ARTURO DE VARGAS GIORGI*
Commento alla carriera e all'opera dell'artista
Di recente, tra abbondanti motivi di tristezza e apprensione, ho avuto la gioia di ricevere da Maria Bonomi due importanti libri sulla sua traiettoria di artista. Uno di essi è Maria Bonomi con l'incisione: dalla metà come fine alla metà come inizio (Rio de Janeiro: Rio Books, 2021), di Patrícia Pedrosa, che è il risultato della tesi di laurea magistrale della ricercatrice, difesa nel 2016 nel Graduate Program in Visual Arts presso la School of Fine Arts dell'UFRJ, sotto la guida di Maria Luísa Tavora; l'altro è fondamentale La dialettica Maria Bonomi (Neuchâtel: Éditions du Griffon, 2016), di Mayra Laudanna, docente presso l'Istituto di studi brasiliani dell'Università di San Paolo (IEB-USP) che da tempo sviluppa un lavoro critico dedicato all'incisione in Brasile.
Maria Bonomi è nata a Meina, nel nord Italia, nel 1935, figlia di padre italiano e madre brasiliana. È arrivata in Brasile da ragazza, a causa della Seconda Guerra. Il mio primo contatto con il suo lavoro è avvenuto alla fine degli anni '1990, come esperienza urbana (con mezzi tattili e ottici, direbbe Walter Benjamin), quando ancora vivevo a San Paolo: la tanto attesa apertura del Jardim São Paulo Metro Station (quartiere della mia infanzia e giovinezza) ha presentato i pannelli in cemento – costruzione di San Paolo – realizzata dall'artista. Successivamente, quando ho iniziato il mio dottorato nel Graduate Program in Literature presso l'Università Federale di Santa Catarina (UFSC), nel 2011, ho ripreso questo contatto, ora principalmente attraverso lo studio.
Sulla base delle domande sorte durante un corso su Clarice Lispector, tenuto da Raúl Antelo, mi interessava stabilire alcune affinità estetiche tra lo scrittore e il grafico – tra ortografia e incisione, la linea sulla pagina e il solco nel legno, la parola e l'immagine –, oltre alla nota amicizia che hanno mantenuto per molti anni. (Nella sua biografia dello scrittore, Benjamin Moser annota che si incontrarono nel 1959, a Washington. All'epoca, Clarice Lispector accompagnava l'allora marito, Maury Gurgel Valente, nella sua vita diplomatica. Maria Bonomi, a sua volta, faceva parte di un mostra alla Pan-American Union ed è stata scelta per partecipare a una cena alla Casa Bianca in onore degli studenti stranieri (tramite Alzira Vargas ha conosciuto la scrittrice, che le ha prestato un abito per l'evento).
Direi che il lavoro di Maria Bonomi con l'incisione ha come principio una sorta di disobbedienza o trasgressione: è come un esercizio rigoroso, esigente, di accettazione nel linguaggio stesso di un eccesso che lo spinge sempre fuori di sé; che è, in fondo, un modo per andare oltre, ma attraverso una ripresa, un ritorno al principio di uno dei linguaggi dell'arte più antichi e popolari. Perché, da un lato, lo sconfinamento dei limiti dell'incisione, che si riscontra in particolare nell'opera di Maria Bonomi, situa la sua produzione nelle coordinate allargate dell'arte contemporanea, preparata tesa da vari protagonisti (artisti, istituzioni, critici e il pubblico) almeno dalla fine degli anni Cinquanta, in diversi paesi.
Tuttavia, è allo stesso tempo uno straripamento che recupera la forza estetica dell'incisione nel suo punto più elementare, legandola alla produzione manuale e ai gesti del corpo pulsante, alla resistenza sensibile dei materiali e dei supporti, ai sensi e alla le derive delle forme, infine, a ciò che, essendo assolutamente arcaico, riappare nell'attuale fare artistico come resistenza ai rigori disciplinari ed evolutivi della modernità. (Negli scritti di Clarice Lispector – per riprendere le suddette affinità – questa potenza avversa alla linearità cronologica ha guadagnato, tra le altre formulazioni, l'espressione istantaneamente già, sorta di ricerca e sostituzione del limite di senso che guida la narrazione di Medusa, libro pubblicato nel 1973).
La forza anacronistica a cui mi riferisco è evidenziata nel libro di Patrícia Pedrosa come qualcosa di vitale: “l'elemento fecondo della xilografia è il gesto immemorabile dell'incisione, il gesto che unisce il disegno e l'incisione, la linea e il solco, il concettuale e il lavoro, la mano che crea, lo strumento e la materia, il lavoro creativo”. È così, nel mantenimento di questo carattere atemporale, ogni volta originale, che vediamo il percorso dell'artista estendersi alla stampa, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, riaffermando il suo linguaggio attraverso un'apertura a ciò che, a priori, non sarebbe tipico della stampa . In una parola, è un'incisione impura, che si raffina e si rafforza non nonostante l'impurità, ma con essa. In questo modo un lavoro che è, essenzialmente, sottrazione viene elevato a potenza senza fine: “Comincio a diradarsi. Cioè togliendo le grandi aree che saranno i bianchi, in quanto il taglio del legno è sottrazione. Pensa a cosa resta e non a cosa metti. […] Coltelli, sgorbie, buli servono per annotare ogni frase”, dichiarava l'artista nel 1950.
Con Livio Abramo, Maria Bonomi ha imparato a confrontarsi con la xilografia senza l'idea di un disegno precedente o di uno scopo illustrativo, arrivando all'opera “per il valore dello strumento, la linea, il taglio, l'attacco al legno” , come afferma l'artista in una dichiarazione del 2004. Si sperimenta poi la piegatura delle matrici, con dimensioni fortemente ingrandite e forme espositive che contraddicono la timidezza delle dimensioni e dell'esposizione sui tavoli-armadio, che poi condizionano l'incisione.
Così come c'è stata, dagli studi con Seong Moy, a New York, l'esplorazione di colori, trasparenze e sovrapposizioni (sfuggendo allo statalismo e al severo contrasto tra bianco e nero); oltre all'uso creativo e compositivo delle stesse matrici, che ben presto – intorno agli anni '1970 – diventano oggetti dotati di vita propria, interrogando il pubblico e generando imprevisti rapporti con la spazialità, in un intenso dialogo non con i principi della scultura ( il volume solido), ma con i piani e i transiti dell'architettura (la costruzione dello spazio). (Nel suo ufficio, Clarice Lispector ha esibito la matrice di L'Aquila, con “le salienze e rientranze del legno oscuro magnetizzato”, scriveva in una nota cronaca del 1971, pubblicata nel Giornale Brasile, su una mostra di Maria Bonomi al Museo d'Arte Moderna di Rio de Janeiro).
Come seguiamo in dettaglio nel libro di Mayra Laudanna, queste derive – che sono state rafforzate con viaggi in Europa, Cina, Amazzonia, così come in azioni collettive, ecc. – attestano come il pensiero grafico dell’artista, cifra della sua poetica, incarni in vario modo l’incisione: dalle scenografie e costumi per spettacoli teatrali, agli oggetti in metallo fuso e, più recentemente, alle installazioni.
Inoltre, e più di ogni altra cosa, direi, queste derive informano l'importanza che l'arte pubblica dovrebbe assumere nel suo lavoro. Nella sua tesi di dottorato, presentata nel 1999 presso la USP School of Communication and Arts, Maria Bonomi scriveva: “Lo spazio urbano è la matrice di un intervento più ampio e multiforme, che avrà un esito materico con funzionalità spirituale e sociale”. Cioè, in un'opera pubblica, che coinvolge innumerevoli partecipanti alla sua progettazione ed esecuzione, per arrivare poi ad integrare i flussi più diversi della città, in luoghi che oscillano tra permanenza e passaggio – in un'opera pubblica, insomma, il la scommessa è sull'agency, su un orizzonte propositivo di nuove forme di vita in comune: “la persona che passa sarà modificata da ciò che vede”.
Questa apertura al pubblico traduce una posizione politica ed etica: i grandi pannelli che occupano le stazioni della metropolitana di San Paolo e il Memorial da América Latina, infatti, possono essere pensati come l'amplificazione di un gesto critico e interrogativo che accompagna l'artista in tutto il suo lavorare nel tempo. Così, se nelle xilografie degli anni '1960 e '1970 – come Parole, L'Aquila, mostrando le gengive e ballata dell'orrore – Maria Bonomi elabora la sua resistenza al regime dittatoriale (nel 1974, dopo una conferenza in un museo, l'artista viene trattenuta per due giorni, viene condotta al DOI-Codi di Rua Tutóia per essere interrogata), nei suggestivi pannelli in terra di cemento , argilla , bronzo o cemento memoria futura e gruppi etnici (Memoriale America Latina, 1989; 2005-08), Epopea Paulista (Estação da Luz, 2004), oltre al già citato costruzione di San Paolo (Estação Jardim São Paulo, 1998) – siamo interpellati da una memoria collettiva resistente anche nella sua pregnanza, una memoria difficile da placare nel confronto che instaura tra passato, presente e futuro.
Concludo queste brevi note a pochi giorni dalle clamorose manifestazioni che sono scese in piazza in decine di città del Paese contro la politica della morte del nostro attuale governo. Tra gli abbondanti motivi di tristezza e di apprensione, questo intervento pubblico è anche motivo, forse non di gioia, ma senza dubbio di coraggio, di insistenza: una boccata d'aria fresca. Mi approprio della proposta dell'artista: che lo spazio urbano sia la matrice di un intervento ancora più grande e sfaccettato, che abbia un esito materico con funzionalità spirituale e sociale.
* Arthur de Vargas Giorgi Professore di Teoria letteraria presso l'Università Federale di Santa Catarina (UFSC).