Marx, quello sconosciuto

WhatsApp
Facebook
Twitter
Instagram
Telegram

da MICHAEL LÖWY*

Estratto, selezionato dall'autore, dal libro appena uscito

Globalizzazione e internazionalismo: attualità manifesto comunista

O Manifesto comunista È il più noto tra tutti gli scritti di Marx ed Engels. In effetti, nessun altro libro tranne il Bibbia, è stato così spesso tradotto e ripubblicato. Naturalmente non ha molto in comune con Bibbia, fatta eccezione per la denuncia profetica dell'ingiustizia sociale. Allo stesso modo di Isaia o Amos, Marx ed Engels alzarono la voce contro le infamie dei ricchi e dei potenti e in solidarietà con i poveri e gli umili.

Proprio come Daniele, leggono la scritta sul muro di Nuova Babilonia: Mene, Mene, Tequel Ufarsim [hai i giorni contati]. Ma, contrariamente ai profeti dell’Antico Testamento, non riponevano le loro speranze in nessun dio, in nessun messia, in nessun supremo salvatore: la liberazione degli oppressi sarebbe opera degli oppressi stessi.

Ciò che resta di Manifesto 150 anni dopo? Alcuni passaggi o alcuni argomenti erano già divenuti obsoleti durante la vita dei loro autori, come essi stessi riconobbero nelle loro numerose prefazioni. Altri sono emersi nel corso del nostro secolo e richiedono un riesame critico. Ma lo scopo generale del documento, il suo nucleo centrale, il suo spirito – esiste qualcosa come lo “spirito” di un testo – non ha perso nulla della sua forza e vitalità.

Questo spirito risulta dalla sua qualità allo stesso tempo critica ed emancipatrice, cioè dall'unità indissolubile tra l'analisi del capitalismo e l'appello alla sua distruzione, tra l'esame lucido delle contraddizioni della società borghese e l'utopia rivoluzionaria di una società solidale ed egualitaria. ., tra la spiegazione realistica dei meccanismi dell'espansione capitalistica e l'esigenza etica di “sopprimere tutte le condizioni in cui l'uomo è un essere sminuito, assoggettato, abbandonato, disprezzato”.

Sotto molti punti di vista il Manifesto non solo è attuale, ma è più attuale oggi di quanto lo fosse 150 anni fa. Prendiamo come esempio la sua diagnosi della globalizzazione capitalista. Il capitalismo, insistono i due giovani autori, sta portando avanti un processo di unificazione economica e culturale del mondo, sottoponendolo al suo tallone.

“Sfruttando il mercato mondiale, la borghesia conferisce un carattere cosmopolita alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Con sgomento dei reazionari, privò l’industria della sua base nazionale. […] Al posto del precedente isolamento delle regioni e delle nazioni autosufficienti, si stanno sviluppando uno scambio universale e un’interdipendenza universale delle nazioni. E questo si riferisce sia alla produzione materiale che a quella intellettuale”.[I]

Non si tratta solo di espansione, ma anche di dominio: la borghesia “attraverso il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione e i mezzi di comunicazione enormemente facilitati, ha trasformato anche la nazione più barbara in una nazione civile. In una parola, la borghesia crea il mondo a sua immagine”.[Ii] Si trattava, in larga misura, nel 1848, più di un'anticipazione delle tendenze future che di una semplice descrizione della realtà contemporanea. Questa è un'analisi che è molto più vera oggi, nell'era della globalizzazione, di quanto lo fosse 150 anni fa, quando il testo fu scritto. Manifesto.

Mai prima d’ora il capitale è riuscito, come alla fine del XX secolo, ad esercitare un potere così completo, assoluto, integrale, universale e illimitato sul mondo intero. Mai prima d’ora è riuscito a imporre, come fa attualmente, le sue regole, le sue politiche, i suoi dogmi e i suoi interessi a tutte le nazioni del globo. Mai prima d’ora c’è stata una rete così fitta di istituzioni internazionali – come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, l’Organizzazione internazionale del commercio – progettate per controllare, governare e amministrare la vita dell’umanità secondo le regole scritte del libero mercato capitalista. e libero profitto capitalista. Mai prima d’ora tutte le sfere della vita umana – relazioni sociali, cultura, arte, politica, sessualità, salute, istruzione, intrattenimento – sono state così completamente sottoposte al capitale e così profondamente immerse nelle “acque ghiacciate del calcolo egoistico”.[Iii]

Tuttavia, la brillante – e profetica – analisi della globalizzazione del capitale, delineata nelle prime pagine di Manifesto, soffre di alcuni limiti, tensioni o contraddizioni che derivano non da un eccesso di zelo rivoluzionario, come affermato dalla maggior parte dei critici del marxismo, ma, al contrario, da un atteggiamento non sufficientemente critico nei confronti della moderna civiltà industriale-borghese. Vediamo alcuni di questi aspetti, che sono strettamente legati tra loro.

(1) L’ideologia del progresso tipica del XIX secolo si manifesta nel modo visibilmente eurocentrico con cui Marx ed Engels esprimono la loro ammirazione per la capacità della borghesia di trascinare “anche le nazioni più barbare nel flusso della civiltà”: grazie alla le loro merci a buon mercato, “costringe i barbari più tenacemente xenofobi a capitolare” (chiaro riferimento alla Cina). Sembrano considerare il dominio coloniale dell’Occidente come parte del ruolo storico “civilizzatore” della borghesia: questa classe “subordinò la campagna alla città, i paesi barbari o semibarbarici ai paesi civili, subordinò i popoli contadini ai popoli borghesi, l’Oriente all’Occidente”.[Iv]

L’unica restrizione a questa distinzione eurocentrica ma coloniale tra nazioni “civili” e “barbare” è il passaggio in cui mette in discussione la “cosiddetta civiltà” (fondando Zivilisation), riguardo al mondo borghese occidentale.[V]

Negli scritti successivi, Marx avrebbe assunto una posizione molto più critica nei confronti del colonialismo occidentale in India e Cina, ma fu necessario attendere che i moderni teorici dell’imperialismo – Rosa Luxemburg e Lenin – venissero formulati per formulare una denuncia marxista radicale della “civiltà borghese”. ...dal punto di vista delle sue vittime, cioè dei popoli dei paesi colonizzati. E solo con la teoria della rivoluzione permanente di Trotsky sarebbe apparsa l'idea eretica secondo cui le rivoluzioni socialiste molto probabilmente inizieranno alla periferia del sistema, nei paesi dipendenti. È vero che il fondatore dell'Armata Rossa si affrettava ad aggiungere che, senza l'estensione della rivoluzione ai centri industriali avanzati, in particolare all'Europa occidentale, essa sarebbe, col tempo, destinata a fallire.

Spesso si dimentica che nella prefazione alla traduzione russa di Manifesto (1881), Marx ed Engels immaginarono l’ipotesi che la rivoluzione socialista sarebbe iniziata in Russia – basandosi sulle tradizioni comunitarie dei contadini – prima di estendersi all’Europa occidentale. Questo testo – allo stesso modo della lettera, scritta nello stesso periodo, a Vera Zasulich – risponde in anticipo agli argomenti apparentemente “marxisti ortodossi” di Kautsky e Plekhanov contro il “volontarismo” della Rivoluzione d’Ottobre del 1917 – argomenti che sono tornate di moda oggi, dopo la fine dell’URSS –, secondo la quale una rivoluzione socialista è possibile solo laddove le forze produttive hanno raggiunto la “maturità”, cioè nei paesi capitalisti avanzati.

(2) Ispirati da un ottimismo “liberista”, molto acritico nei confronti della borghesia, e da un metodo molto economicista, Marx ed Engels predissero – erroneamente – che “gli isolamenti nazionali e gli antagonismi tra i popoli scompariranno sempre più con lo sviluppo della borghesia, con la libertà di commercio, con il mercato mondiale, con l’uniformità della produzione industriale e le condizioni di esistenza ad essa corrispondenti”.[Vi]

La storia del XX secolo – due guerre mondiali e innumerevoli brutali conflitti tra nazioni – non ha in alcun modo confermato questa previsione. È nella natura stessa dell’espansione planetaria del capitale produrre e riprodurre incessantemente il confronto tra le nazioni, sia nei conflitti interimperialisti per il dominio del mercato mondiale, nei movimenti di liberazione nazionale contro l’oppressione imperialista, o in mille altre forme.

Oggi osserviamo, ancora una volta, la misura in cui la globalizzazione capitalista alimenta il panico identitario e i nazionalismi tribali. La falsa universalità del mercato mondiale innesca il particolarismo e rafforza la xenofobia: il cosmopolitismo mercantile del capitale e le pulsioni identitarie aggressive si alimentano a vicenda.[Vii]

L’esperienza storica – in particolare dell’Irlanda, nella sua lotta contro il giogo imperiale inglese – insegnò qualche anno dopo a Marx ed Engels che il regno della borghesia e del mercato capitalista non sopprime, ma intensifica – ad un livello senza precedenti nella storia – il potere nazionale. conflitti.

Ma solo con gli scritti di Lenin sul diritto all’autodeterminazione delle nazioni e di Otto Bauer sull’autonomia culturale nazionale – due approcci solitamente considerati contraddittori, ma che possono anche essere visti come complementari – è emersa una riflessione marxista più coerente sul fatto nazionale, nazionale, nazionale. la sua natura politica e culturale, e la sua relativa autonomia – di fatto, la sua irriducibilità – rispetto all’economia.

(3) Rendendo omaggio alla borghesia per la sua capacità senza precedenti di sviluppare le forze produttive, Marx ed Engels celebrarono senza riserve la “'sottomissione' delle forze della natura” e lo “sfruttamento di interi continenti” da parte della produzione moderna. La distruzione dell’ambiente da parte dell’industria capitalista e il pericolo per l’equilibrio ecologico rappresentato dallo sviluppo illimitato delle forze produttive borghesi sono questioni che vanno oltre il loro orizzonte intellettuale.

In termini più generali, sembrano aver concepito la rivoluzione principalmente come rottura delle “barriere” – le forme di proprietà esistenti – che impediscono la libera crescita delle forze produttive create dalla borghesia, senza sollevare la questione della necessità di rivoluzionare la struttura delle stesse forze produttive della borghesia, in base a criteri sia sociali che ecologici.

Questa limitazione fu parzialmente corretta da Marx in alcuni scritti successivi, soprattutto nel La capitale, che include la questione del contemporaneo impoverimento della terra e della forza lavoro da parte della logica del capitale. È solo negli ultimi decenni, con l’ascesa dell’ecosocialismo, che sono apparsi seri tentativi di integrare le intuizioni fondamentali dell’ecologia nel quadro della teoria marxista.

(4) Ispirati da quello che si potrebbe chiamare “l’ottimismo fatalista” dell’ideologia del progresso, Marx ed Engels non esitano a proclamare che la caduta della borghesia e la vittoria del proletariato “sono ugualmente ineluttabili”. È inutile insistere sulle conseguenze politiche di questa visione della storia come un processo predeterminato, i cui risultati sono garantiti dalla scienza, dalle leggi della storia o dalle contraddizioni del sistema.

Spinti al limite – il che non è, sia chiaro, il caso degli autori di Manifesto –, questo ragionamento non lascia spazio al fattore soggettivo: coscienza, organizzazione, iniziativa rivoluzionaria. Se, come afferma Plekhanov, “la vittoria del nostro programma è inevitabile come l’alba di domani”, perché creare un partito politico, combattere, rischiare la vita per la causa? Nessuno penserebbe di organizzare un movimento per garantire l'alba di domani...

È vero che un passaggio da Manifesto contraddice, almeno implicitamente, la filosofia “inevitabilista” della storia: è il famoso secondo paragrafo del capitolo “Borghesi e proletari”, secondo il quale la lotta di classe “si conclude sempre o con una trasformazione rivoluzionaria dell’intera società, o con una la distruzione di due classi in conflitto”. Marx ed Engels non affermano esplicitamente che questa alternativa potrebbe verificarsi anche in futuro, ma questa è una possibile interpretazione del brano.

In realtà si tratta della “brochure Jones” di Rosa Luxemburg – La crisi della socialdemocrazia (1915) – che presenterà chiaramente, per la prima volta nella storia, l’alternativa “socialismo o barbarie” come scelta storica per il movimento operaio e per l’umanità. È in questo momento che il marxismo rompe radicalmente con ogni visione lineare della storia e con l’illusione di un futuro “garantito”.

Ed è solo negli scritti di Walter Benjamin che vedremo finalmente una profonda critica, in nome del materialismo storico, alle ideologie del progresso, che disarmarono il movimento operaio tedesco ed europeo alimentando l’illusione che bastasse “nuotare con la corrente” della storia.

Sarebbe falso concludere da tutte queste osservazioni critiche che il Manifesto non sfugge al quadro della filosofia “progressista” della storia, erede del pensiero illuminista e di Hegel. Anche se celebravano la borghesia come la classe che rivoluzionò la produzione e la società, che compì meraviglie incomparabilmente più impressionanti delle piramidi d’Egitto o delle cattedrali gotiche, Marx ed Engels rifiutarono una visione lineare della storia. Sottolineavano incessantemente che la spettacolare progressione delle forze produttive – più imponente e colossale nella società borghese che in tutte le società del passato – implicava un enorme degrado della condizione sociale dei produttori diretti.

È questo soprattutto il caso delle analisi che fanno del declino – in termini di qualità della vita e del lavoro – che significa la moderna condizione lavorativa in rapporto a quella dell’artigiano, e perfino, per certi aspetti, del servo feudale: “ Il servo, in piena servitù, riuscì a diventare membro della comune […]. L’operaio moderno, al contrario, lungi dall’elevarsi col progresso dell’industria, scende sempre più, scendendo al di sotto delle condizioni della sua propria classe”. Allo stesso modo, nel sistema della macchina capitalista, il lavoro dell’operaio diventa “disgustoso” – un concetto fourierista preso in carico da Manifesto; perde ogni autonomia e “gli è stata tolta tutta la sua attrattiva”.[Viii]

Si delinea qui una concezione eminentemente dialettica del movimento storico, in cui certi progressi – dal punto di vista della tecnica, dell'industria, della produttività – si accompagnano a regressioni in altri ambiti: sociale, culturale, etico. A questo proposito è interessante osservare che la borghesia «ridusse la dignità personale a valore di scambio» e non permise che esistesse tra gli esseri umani altro legame che «quello del freddo interesse, la dura esigenza del “pagamento in contanti” (die gefühllose 'bahre Zahlung') ".[Ix]

Aggiungiamo a ciò che il Manifesto È molto più di una diagnosi – così profetica, così segnata dai limiti del suo tempo – del potere globale del capitalismo: è anche, e soprattutto, un appello urgente alla lotta internazionale contro questo dominio. Marx ed Engels avevano capito perfettamente che il capitale, in quanto sistema mondiale, può essere sconfitto solo da un’azione storica mondiale delle sue vittime, il proletariato internazionale e i suoi alleati.

Di tutte le parole in Manifesto, l’ultimo è, senza dubbio, quello che ha sconvolto l’immaginazione e il cuore di diverse generazioni di attivisti operai e socialisti: “Proletarier aller Länder, vereinigt euch!”, “Proletari di tutti i paesi, unitevi!”. Non è un caso che questa interiezione sia diventata la bandiera e lo slogan delle correnti più radicali del movimento negli ultimi 150 anni. È un grido, un appello, un imperativo categorico insieme etico e strategico, che è servito da bussola in mezzo a guerre, confronti confusi e nebbie ideologiche.

Questa chiamata è anche visionaria. Nel 1848, il proletariato era una minoranza della società nella maggior parte dei paesi europei, per non parlare del resto del mondo. Oggi, la massa dei lavoratori salariati sfruttati dal capitale – operai, impiegati, lavoratori del settore dei servizi, precari, lavoratori agricoli – costituisce la maggioranza della popolazione mondiale. È di gran lunga la forza principale nella lotta di classe contro il sistema capitalista mondiale e l’asse attorno al quale altre lotte e altri attori sociali possono e devono articolarsi.

Ciò, in realtà, non riguarda solo il proletariato: è l’insieme delle vittime del capitalismo, l’insieme delle categorie e dei gruppi sociali oppressi – le donne (un po’ assenti dal Manifesto), nazioni ed etnie dominate, disoccupati ed esclusi (il “povertariato”) – provenienti da tutti i paesi interessati al cambiamento sociale. Per non parlare della questione ecologica, che non riguarda questo o quel gruppo, ma la specie umana nel suo insieme.

Dopo la caduta del muro di Berlino fu decretata la fine del socialismo, la fine della lotta di classe e perfino la fine della storia. I movimenti sociali degli ultimi anni, in Francia, Italia, Corea del Sud, Brasile o Stati Uniti – in realtà in tutto il mondo – hanno offerto una severa confutazione di questo tipo di elucubrazione pseudo-hegeliana. Ciò che, invece, è drammaticamente assente nelle classi subalterne è un minimo di coordinamento internazionale.[X]

Per Marx ed Engels, l'internazionalismo era allo stesso tempo un fulcro della strategia di organizzazione e lotta del proletariato contro il capitale globale, e l'espressione di un obiettivo umanista rivoluzionario, per il quale l'emancipazione dell'umanità era il valore etico supremo e l'obiettivo finale del combattimento. Erano “cosmopoliti” comunisti, in quanto il mondo intero, senza confini né limiti nazionali, era l’orizzonte del loro pensiero e della loro azione, nonché il contenuto della loro utopia rivoluzionaria. In l'ideologia tedesca, scritto appena due anni prima del Manifesto, hanno sottolineato: è solo grazie ad una rivoluzione comunista, che sarà necessariamente un processo storico-mondiale, che i singoli individui vengono liberati da varie limitazioni nazionali e locali, vengono messi in contatto pratico con la produzione (anche spirituale) del mondo intero e in grado di acquisire la capacità di godere di questa multiforme produzione dell'intera terra (creazioni degli uomini).[Xi]

Marx ed Engels non si limitarono a predicare l’unità proletaria senza frontiere. Hanno anche cercato, per buona parte della loro vita, di dare una forma concreta e organizzata alla solidarietà internazionalista. Dapprima riunendo i rivoluzionari tedeschi, francesi e inglesi nella Lega Comunista del 1847-1848, e poi contribuendo alla costruzione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, fondata nel 1864. Le Internazionali successive – dalla Prima alla Quarta – soffrirono crisi, deformazioni burocratiche o isolamento.

Ma ciò non ha impedito all’internazionalismo di diventare una delle potenti forze trainanti delle azioni di emancipazione nel corso del XX secolo. Nei primi anni dopo la Rivoluzione d’Ottobre si verificò in Europa e nel mondo un’impressionante ondata di internazionalismo attivo. Negli anni dello stalinismo, questo internazionalismo fu manipolato per servire gli interessi della grande potenza dell’Unione Sovietica. Ma anche durante il periodo di degenerazione burocratica dell’Internazionale comunista si verificarono autentiche manifestazioni di internazionalismo, come le brigate internazionali in Spagna dal 1936 al 1938. Più recentemente, una nuova generazione internazionalista ha riscoperto il gusto per l’azione internazionalista, nelle rivolte del 1968 o in solidarietà con le rivoluzioni del Terzo Mondo.

Ai nostri giorni, più che in qualsiasi momento del passato – e molto più che nel 1848 –, I problemi urgenti del momento sono internazionali. Le sfide rappresentate dalla globalizzazione capitalista, dal neoliberismo, dal gioco incontrollato dei mercati finanziari, dal debito mostruoso e dall’impoverimento del Terzo Mondo, dal degrado dell’ambiente, dalla minaccia della crisi ecologica – per citare solo alcuni esempi – richiedono soluzioni globali.

Siamo costretti a constatare che, di fronte all’unificazione regionale – europea – o globale del grande capitale, quella dei suoi avversari sta perdendo forza. Se nel XIX secolo i settori più coscienti del movimento operaio, organizzato nelle Internazionali, erano più avanzati della borghesia, oggi sono drammaticamente indietro rispetto alla borghesia. Mai la necessità di associazione, di coordinamento, di azione internazionale comune – dal punto di vista sindacale, attorno a rivendicazioni comuni, e dal punto di vista della lotta per il socialismo – è stata così urgente, e mai così debole, fragile. e precario.

Ciò non significa che il movimento per il cambiamento sociale non dovrebbe iniziare a livello di una o poche nazioni, o che i movimenti di liberazione nazionale non siano legittimi. Ma le lotte contemporanee sono, a un livello senza precedenti, interdipendenti e interrelate, da un’estremità all’altra del pianeta. L’unica risposta razionale ed efficace al ricatto capitalista della delocalizzazione e della “competitività” – salari e “tasse” a Parigi devono essere abbassati per poter competere con i prodotti di Bangkok – è la solidarietà internazionale organizzata ed effettiva dei lavoratori.

Oggi appare, più chiaramente che in passato, in relazione al punto in cui gli interessi dei lavoratori del Nord e del Sud convergono: l’aumento dei salari dei lavoratori dell’Asia meridionale interessa direttamente i lavoratori europei; la lotta dei contadini e degli indigeni per proteggere la foresta amazzonica dagli attacchi distruttivi dell’agroindustria preoccupa da vicino i difensori ambientali negli Stati Uniti; Il rifiuto del neoliberismo è comune ai movimenti sociali e popolari di tutti i paesi. Gli esempi si possono moltiplicare.

Di quale internazionalismo si tratta? Il vecchio “internazionalismo” dei blocchi e dei “paesi guida” – come l’Unione Sovietica, la Cina, l’Albania, ecc. – è morto e sepolto. Era lo strumento delle piccole burocrazie nazionali, che se ne servivano per legittimare il proprio potere politico statale. È giunto il momento per un nuovo inizio, che allo stesso tempo preservi il meglio delle tradizioni internazionaliste del passato.

Attualmente si possono osservare, qua e là, i semi di un nuovo internazionalismo, indipendente da qualsiasi Stato. Sindacalisti combattivi, socialisti di sinistra, comunisti destalinizzati, trotskisti non dogmatici e anarchici non settari sono alla ricerca di modi per rinnovare la tradizione dell’internazionalismo proletario.

Un’iniziativa interessante, anche se resta limitata ad una sola regione del mondo, è il Forum di San Paolo, uno spazio di dibattito e di azione comune delle principali forze di sinistra latinoamericane creato nel 1990, che si pone come obiettivo la lotta contro il neoliberismo e la ricerca di percorsi alternativi, a seconda degli interessi e dei bisogni della grande maggioranza popolare.

Allo stesso tempo, nuove sensibilità internazionaliste compaiono nei movimenti sociali a vocazione planetaria, come il femminismo e l’ecologia, nei movimenti antirazzisti, nella teologia della liberazione, nelle associazioni in difesa dei diritti umani o in solidarietà con il Terzo Mondo.

Tutte queste correnti non si accontentano delle organizzazioni esistenti, come l'Internazionale socialista, che ha il merito di esistere, ma che è molto impegnata nell'ordine delle cose esistente.

Un campione dei rappresentanti più attivi di queste diverse tendenze, provenienti sia dal Nord che dal Sud, si sono riuniti, in spirito unitario e fraterno, alla Conferenza “Intergalattica” per l’Umanità e contro il Neoliberismo, convocata sulle montagne del Chiapas nel luglio 1996. dell’Esercito Zapatista de Libertação Nacional (EZLN) – un movimento rivoluzionario che ha saputo coniugare, in modo originale e vincente, le lotte locali, cioè le lotte indigene del Chiapas, e quelle nazionali, cioè la lotta per la democrazia in Messico, e quella internazionale, cioè la lotta globale contro il neoliberismo. Si tratta di un primo passo, ancora modesto, ma che va nella buona direzione: la ricostruzione della solidarietà internazionale.

È evidente che, in questa lotta globale contro la globalizzazione capitalista, le lotte nei paesi industriali avanzati, che dominano l’economia mondiale, hanno un ruolo decisivo: un cambiamento profondo nei rapporti di forza internazionali è impossibile senza il “centro” stesso delle forze. il sistema capitalista venga toccato. La rinascita di un movimento sindacale combattivo negli Stati Uniti è un segnale incoraggiante, ma è in Europa che i movimenti di resistenza al neoliberismo sono più potenti, anche se il loro coordinamento su scala continentale è ancora molto poco sviluppato.

La convergenza tra il rinnovamento della tradizione socialista, anticapitalista e antimperialista, dell’internazionalismo proletario – fondato da Marx nel Manifesto comunista – e dalle aspirazioni universaliste, umaniste, libertarie, ecologiche, femministe e democratiche dei nuovi movimenti sociali, potrebbe emergere l’internazionalismo del XNUMX° secolo.

*Michae Lowy è direttore della ricerca in sociologia presso Centro nazionale della ricerca scientifica (CNRS). Autore, tra gli altri libri, di Cos'è l'ecosocialismo?Cortez). [https://amzn.to/3FeUUtY]

Riferimento


Michael Basso. Marx, quello sconosciuto. Traduzione: Fabio Mascaro Querido. San Paolo, Boitempo, 2023, 180 pagine. [https://amzn.to/3FaMmEe]

note:


[I] Karl Marx e Friedrich Engels, Manifesto del Parti Comunista (Parigi, Livre de Poche, 1973), p. 10-1 [ed. reggiseni.: Manifesto comunista, trad. Álvaro Pina e Ivana Jinkings, San Paolo, Boitempo, 1998, p. 43].

[Ii] Ibidem, pag. 10-1 [ed. reggiseni.: Manifesto comunista, cit., pag. 244).

[Iii] Ibidem, pag. 10-1 [ed. reggiseni: ibidem, p. 42)].

[Iv] Ibidem, pag. 10-1 [ed. reggiseni: ibidem, p. 44]. Per una trattazione approfondita di questo tema rimandiamo all’eccellente testo di Nestor Kohan, “Marx en su (tercer) mundo”, Casa delle Americhe, N. 207, aprile-giugno 1977.

[V] Karl Marx e Friedrich Engels, Manifesto della parte comunista (Berlino, Dietz, 1968),

P. 17 [ed. reggiseni.: Manifesto comunista, cit., pag. 44, con modifiche].

[Vi] Ibidem, pag. 31 [ed. reggiseni: ibidem p. 56]. Questa affermazione da Manifesto viene parzialmente smentito, poche righe dopo, quando gli autori sembrano collegare la fine degli antagonismi nazionali a quella del capitalismo: “Come è abolito lo sfruttamento di un individuo da parte di un altro, è parimenti abolito lo sfruttamento di una nazione da parte di un’altra”.

[Vii] Riprendiamo da noi le analisi di Daniel Bensaïd nel suo importante libro La Scommessa

malinconia (Parigi, Fayard, 1997).

[Viii] Karl Marx e Friedrich Engels, Manifesto del Partito Comunista, cit., pag. 14-5, 21 [ed. reggiseni.:

Manifesto comunista, cit., pag. 50, 55, 46].

[Ix] Ibidem, pag. 8 [ed. reggiseni., ibidem, p. 42]

[X] Cosa ne pensano gli stessi tedeschi a otto anni dalla caduta del Muro? Credono che “oggi la lotta di classe sia superata. Padroni e dipendenti devono trattarsi come partner” o, meglio, “è corretto parlare di lotta di classe. Datori di lavoro e dipendenti hanno interessi fondamentalmente incompatibili”? Ecco un'interessante ricerca, pubblicata il 10 dicembre da Frankfurter Allgemeine Zeitung, giornale poco sospettato di simpatie marxiste: mentre nel 1980 il 58% dei cittadini della Germania occidentale optava per la prima risposta e il 25% per la seconda, nel 1997 la tendenza si invertì: il 41% considerava ancora obsoleta la lotta di classe, e il 44% lo considera all'ordine del giorno. Nell’ex DDR – cioè tra coloro che hanno abbattuto il muro di Berlino – la maggioranza era ancora più chiara: 58% dei sostenitori della lotta di classe contro il 26%! Da vedere Le Monde Diplomatique, N. 526, gennaio. 1998, pag. 8.

[Xi] Karl Marx e Friedrich Engels, L'Ideologie allemande (Parigi, Éditions Sociales, 1968), p. 67 [ed. reggiseni.: l'ideologia tedesca, trad. Rubens Enderle, Nélio Schneider e Luciano Cavini Martorano, San Paolo, Boitempo, 2007, p. 41].


la terra è rotonda esiste grazie ai nostri lettori e sostenitori.
Aiutaci a portare avanti questa idea.
CONTRIBUIRE

Vedi tutti gli articoli di

I 10 PIÙ LETTI NEGLI ULTIMI 7 GIORNI

Il complesso dell'Arcadia della letteratura brasiliana
Di LUIS EUSTÁQUIO SOARES: Introduzione dell'autore al libro recentemente pubblicato
Forró nella costruzione del Brasile
Di FERNANDA CANAVÊZ: Nonostante tutti i pregiudizi, il forró è stato riconosciuto come manifestazione culturale nazionale del Brasile, con una legge approvata dal presidente Lula nel 2010
Il consenso neoliberista
Di GILBERTO MARINGONI: Le possibilità che il governo Lula assuma posizioni chiaramente di sinistra nel resto del suo mandato sono minime, dopo quasi 30 mesi di scelte economiche neoliberiste.
Gilmar Mendes e la “pejotização”
Di JORGE LUIZ SOUTO MAIOR: La STF decreterà di fatto la fine del Diritto del Lavoro e, di conseguenza, della Giustizia del Lavoro?
Cambio di regime in Occidente?
Di PERRY ANDERSON: Dove si colloca il neoliberismo nel contesto attuale dei disordini? In condizioni di emergenza, è stato costretto ad adottare misure – interventiste, stataliste e protezionistiche – che sono un anatema per la sua dottrina.
Il capitalismo è più industriale che mai
Di HENRIQUE AMORIM & GUILHERME HENRIQUE GUILHERME: L'indicazione di un capitalismo industriale di piattaforma, anziché essere un tentativo di introdurre un nuovo concetto o una nuova nozione, mira, in pratica, a indicare ciò che viene riprodotto, anche se in una forma rinnovata.
L'editoriale di Estadão
Di CARLOS EDUARDO MARTINS: La ragione principale del pantano ideologico in cui viviamo non è la presenza di una destra brasiliana reattiva al cambiamento né l'ascesa del fascismo, ma la decisione della socialdemocrazia del PT di adattarsi alle strutture di potere
Incel – corpo e capitalismo virtuale
Di FÁTIMA VICENTE e TALES AB´SÁBER: Conferenza di Fátima Vicente commentata da Tales Ab´Sáber
Il nuovo mondo del lavoro e l'organizzazione dei lavoratori
Di FRANCISCO ALANO: I lavoratori stanno raggiungendo il limite di tolleranza. Non sorprende quindi che il progetto e la campagna per porre fine al turno di lavoro 6 x 1 abbiano avuto un grande impatto e un grande coinvolgimento, soprattutto tra i giovani lavoratori.
Umberto Eco – la biblioteca del mondo
Di CARLOS EDUARDO ARAÚJO: Considerazioni sul film diretto da Davide Ferrario.
Vedi tutti gli articoli di

CERCARE

Ricerca

TEMI

NUOVE PUBBLICAZIONI