Cespuglio secco in fiamme – cinema e genere

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da ALESSANDRO DE OLIVEIRA TORRES CARRASCO*

Considerazioni sul film diretto da Ardilei Queirós e Joana Pimenta

Il cinema di genere è il cinema dei paesi senza storia. La massima è di Jean-Luc Godard, a cui piacciono le affermazioni perentorie. L'intuizione insieme vaga e precisa può essere modestamente migliorata: il cinema di genere è il cinema dei paesi che cercano la propria storia o, almeno, una certa storia, la loro non è la “storia” più scontata. Ci sono storie e storie, a quanto pare. Che si tratti di western o di fantascienza, ad esempio, i film di genere sono logori quanto il cinema stesso (come genere), così come la scissione variabile e instabile che delimita il confine tra documentario e finzione.

Méliès, che faceva fiction, oggi fa documentari, i fratelli Lumière, che facevano documentari, ora sono fiction. Godard, ancora. Lo stereotipo della trama dei film di genere e i loro elementi obbligati o quasi obbligati – siano essi western, fantascienza o horror (noi che abbiamo un maestro unico del cinema horror, José Mojica Marins) – racconterebbero una storia che, anche che potrebbe essere solo fittizia, sarebbe ancora “storia” sotto certi limiti e condizioni: l'immagine di una storia (di essere, almeno, desiderio e richiamo della storia in ciò che potrebbe essere per somiglianza e per imitazione).

Contese territoriali, invasioni, nemici, guerre, cattivi e buoni, sfidare la natura, alieni, viaggi nello spazio, artefatti incredibili capaci di concentrare centinaia di anni di lavoro e produttività in volumi minimi, ecc., sono elementi formali e sintattici molto appropriato delle semplificazioni del cinema di genere. Servono bene a chi vuole raccontare qualcosa per cui mancano alcune storie, qualcosa che elude la storia, che ha un'altra storia: per chi non ha una storia, sembrano essercene tante, l'immagine di qualche storia è sempre compensativa (o almeno fuori). Si avvale di uno schema formale, il cinema di genere, che semplifica e allo stesso tempo asseconda i problemi narrativi. Da questa semplificazione, chiarezza formale e libertà semantica sono a disposizione di chi conosce e vuole utilizzare gli strumenti.

La predilezione dei giovani critici di allora Cahiers du Cinéma, mantello giallo, attraverso film di genere e cinema d'effetto, Hithcock e Hawks, ad esempio, facendo un contrappunto produttivo al realismo morale di Renoir, misura cinematografica di tutto ciò che è cinema, nella definizione che parafraserei da Bazin. Come contrappunto produttivo, ribadiamo, Renoir ha seguito il maestro dei giovani critici e il suo cinema ha anche insegnato a quei giovani cineasti apprendisti a fare anche cinema di genere in modo diverso. lascia che si veda à bout de soufle (molestato, Godard, 1960), lascia che si veda Pierrot le fou (Il demone delle undici, Godard, 1965). Caieri, che a sua volta ha costituito il moderno cinema francese, ne ha fatto, nella mitica nascita della critica cinematografica francese, la bella difesa di cittadino Kane, di Orson Wells, di fronte al lunatico apprezzamento di Sartre, anch'egli fedele ed entusiasta spettatore di film di genere.

Se per Sartre Orson Wells, contro ogni aspettativa, avrebbe fatto un film troppo intellettuale per gli intellettuali minori dell'occasione, per Bazin si tratta di tutt'altro, completamente: con il suo sguardo acuto, richiamerà l'attenzione sul falso manierismo della costruzione di inquadrature e sequenze Cittadino Kane, che nascondeva l'espansione del campo visivo su pellicola e, contro le aspettative, amplificava l'uso innovativo e moderno della profondità di campo nelle modalità di ripresa, che Orson Wells padroneggia con il suo classico. Sartre, che fu uno dei primi francesi a vedere il film, poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, non esita a pubblicare le critiche di Bazin, favorevoli e contrarie al film, nella sua rivista da poco lanciata, I tempi moderni, il cui titolo è un ovvio riferimento cinematografico (la menzione è valida a beneficio dei giovani). Bazin, a sua volta, un lettore dedicato e l'immaginario, la sua edizione commentata è stata il suo libro critico al capezzale, fornito, con questo testo critico e altri che costituiscono la fortuna critica che ha lasciato in eredità, le basi ei parametri della critica cinematografica moderna.

Siamo andati troppo a lungo nel preambolo. Dio non voglia lunghi prologhi. Torniamo al nostro argomento, che qui è stato completamente crittografato. Sono le foglie che ondeggiano.

Mato seco in chamas, di Ardilei Queirós e Joana Pimenta, di cui si tratta, si può vedere (più che capire, anche se non c'è esattamente scambio in questo caso) come esperienza di cinema di genere, nella linea speciale già presente in Il bianco esce, il nero resta (Adirley Queiros, 2015), e, quindi, messo in prospettiva, quest'ultimo aggiunge elementi ancora più critici all'uso originalissimo che Queirós fa del cinema di genere, e del cinema stesso come genere.

La questione, se la mettiamo così, parte dal modo in cui Ardilei Queirós (e, nel caso di Mato seco in chamas, insieme a Joana Pimenta) gestisce il cinema di genere per i suoi problemi di dettaglio e impostazione compositiva, dalla cattura dell'immagine e definizione della trama (sotto forma di movimenti, inquadrature e sequenze), all'uso del marchio documentario dell'immagine e al problema della verosimiglianza e verità. Questa modalità di agency li obbliga a sforzare e sforzare costantemente la definizione di genere che praticano, in quanto vi è un'inversione metodologica del problema: non si parte dal genere per arrivare all'immagine, si parte dall'immagine per arrivare al genere.

Questa agenzia ha ovviamente ripercussioni sia nel modo in cui la storia viene raccontata, nel suo insieme, sia nel modo in cui le immagini vengono catturate, nel dettaglio.

È stato notato qui e altrove[I] quanto il cinema di Ardilei Queirós amalgami la trama, il contenuto e il segno diacritico delle immagini come documento (compresi i segni di cattura tipici dell'immagine documentaria) con i suoi sviluppi fittizi, o, ancora di più, che l'uso che ne fa attraverso il genere stereotipie, sfrutta e incorpora usi e segni dell'immagine documentaria nel flusso fittizio, in un atteggiamento ibrido, in cui contano molto l'ambiguo, il diffuso e il sovrapposto. Fin dalle origini del cinema, però, questa lettera è a portata di mano, e la misura in cui la finzione circola da Méliès a Lumière e viceversa è segno della costituzione stessa del cinema. Siamo ben consapevoli dei rischi che il maggiordomo del documentario diventi il ​​maggiordomo del film dell'orrore tanto quanto i rischi del documentario sulla vita domestica che diventi indulgente auto-fiction di alto livello. La differenza tra una cosa e l'altra la darà solo il tempo – che è anche materiale cinematografico.

Il problema estetico e critico di Ardiley è però un altro. Non è conoscere il posto del maggiordomo nell'album di famiglia, è mescolare i registri dei fotogrammi e da questo prendere un terzo ordine di immagini da questo processo. Quanti album di famiglia tra di noi non sono film dell'orrore? A questo si è dedicato con cura.

Em Il bianco esce, il nero resta, l'uso della fantascienza da parte di Adirley Queirós inquadra il segno di "esteriorità aliena" di quella storia, "fuori" dal tempo: la storia di coloro per i quali la storia raccontata come tale non ha importanza. Ma la vendetta è data, una delle radici del radicalismo plebeo che pratica Adirley Queirós: anche quei personaggi quasi anonimi se ne fregano della “storia”, quindi della finzione. Se la “storia raccontata” non sapesse nulla da dire (cosa? come? perché?) sui giovani anonimi fuori dal piano pilota e dai superblock, ai balli neri, negli anni Ottanta, a provare i passi – mentre il rock nazionale, la corporazione delle scuole private , ha seguito il copione di ribellione commerciale nel progetto pilota –, è perché la critica della forma, della storia, ha bisogno di passare attraverso la forma che le è più esterna, attraverso il cinema di genere, la verità dei serial, il romanzo d'edicola.

Cosa c'entra in un film di genere: il contrario della storia. Così, il richiamo al film di genere, controrisorsa capace di inquadrare quel “piccolo” fumetto in un “grande” formato, funziona come piega specifica e “fantastica” del “nostro” tempo. Se non c'è storia, si filmi la leggenda. Qui, il vantaggio comparato di una società brutalmente disuguale permette di tentare di colmare l'abissale frattura sociale che la costituisce con spunti dal “fantastico”, entrambi sintetizzati nel riferimento esplicito agli slogan che tagliano il tempo – il passaggio di quelle che non hanno storia a immagine della storia nel cinema di genere: “Il bianco esce, il nero resta! (Puttana da una parte, frocio dall'altra)”. Questo impreciso luogo di passaggio dalla norma – l'impianto industriale di produzione dell'immagine – e il suo altro fantastico e bizzarro, l'altra faccia della frattura sociale che ci costituisce, è questo il luogo dove Adirley pianta il suo occhio meccanico e filma il non-documento del reale, ma ciò che è romanzato su quel luogo e lo rende visibile.

Così, tutto serve a mostrare l'estraneità familiare che le periferie rivelano quando viste e filmate sotto la nuova vicinanza di questo luogo che caratterizza il cinema di Queirós, in parte, il fantastico (essendo, come sono, le periferie, nella stessa periferia di le immagini e alla periferia della produzione di immagini, che è esteticamente determinante). Quanto ai viaggi nel tempo (e nello spazio – anche siderale) è alla portata di tutti noi – i plebei, non i delicati, naturalmente – dopo aver preso i necessari accorgimenti critico-estetici e fatto il viaggio di almeno due e un mezz'ore di bus o di treno affollato verso gli estremi delle metropoli, verso le città satelliti, i territori di confine e fuori da ogni giurisdizione spirituale e morale dei ceti medi, le distanze infinite delle regioni metropolitane.

Ci sarà Marquin da Tropa, in una sorta di stazione spaziale e posto di osservazione avanzato (da dove cerca di occupare lo spazio sonoro disponibile) captando i segnali diffusi del passato e inviando segnali decisivi al futuro, situato, com'è, in quel presente di territorio lunare, il nostro presente, accanto a noi, però, piegato nel tempo e nello spazio come l'altro luogo. Il viaggio attraverso la società brasiliana è la versione più fantastica di un viaggio al centro della terra. Non senza ragione, questo riordinamento porta a un altro modo di inquadrare il presente e l'epopea: il presente non è più un luogo per la storia. Improvvisamente, il presente sarà il luogo della profezia. La profezia è l'effetto di una versione popolare della filosofia della storia, un genere già desueto, diciamocelo, in quanto ha di tragico e di non emancipatorio. I film di Adirley non chiedono emancipazione, chiedono vendetta, decisiva e definitiva, chiedono uno stato di guerra contro lo stato d'assedio. Un'altra figura del radicalismo plebeo. Ecco gli elementi fondamentali della nostra nuova storia del futuro, la versione di Antônio Vieira di Adirlei Queirós per i filosofi comuni.

Sto divagando, non senza motivo.

Ora, durante il viaggio da Il bianco esce, il nero resta a Mato seco in chamas c'è un adattamento molto specifico tra la cattura delle immagini e la trama, dal punto di vista del genere, che caratterizzerebbe il tenore e il carattere del cinema di Ardilei Queirós. Al di là dell'uso del materiale documentario e del suo contenuto c'è il suo inserimento imperfetto, provvisorio, quasi frettoloso nelle forme del genere. In questo arrangiamento o riarrangiamento sta l'intensificazione di quel disadattato come risorsa filmica: questo è anche ciò che viene filmato.

Quanto quelle immagini eccedono o non soddisfano i requisiti semplici e basilari del genere (ricordiamo che i film di genere sono volutamente semplificazioni) mi sembra essere non solo il loro soggetto principale, il soggetto principale che Queirós vuole filmare, ma ciò che più li mobilita enfaticamente, dà loro movimento; quindi la sua risorsa stilistico-estetica privilegiata. È proprio ciò che magnetizza lo sguardo. Questo è l'originale espediente che Ardilei Queirós ha trovato per raccontare una storia che può essere raccontata solo negli interstizi che devono esistere tra la trama di un film di genere e la nostra storia del presente. È lui che esplora fino alla maestria e allo sfinimento.

Quindi, possiamo dire senza pretendere di essere esaustivi che l'oggetto di Adirlei Queirós e Joana Pimenta, in questo nuovo giro di fuso, è filmare nelle condizioni di un cinema di genere ciò che sfugge al genere e appare come documentario, senza esserlo esattamente. . Questo surplus è il soggetto, quasi alla maniera di José Mojica Marins, il cui terrore trova nuovi contenuti man mano che viene filmato. Ora, questo espediente non è né nuovo né eccezionale, ma nel cinema ciò che viene mostrato è ciò che mostra, le immagini che Adirley e Joana mostrano in Mato seco in chamas hanno peso e le fanno gravitare.

Meno della finzione per amore della verità – finzione che si dispiega dal documentario, finzione sussidiaria di un documento –, sembra essere molto più il caso della verità di una finzione, cioè come finzione, lì, presa sul campo floor, produce il suo documento con risorse eteroclite. Queirós sembra capirlo molto bene: non cerca la verità, cerca la leggenda, come ama dire. Oggi chi preferisce la verità? Accade così che questa inversione, tipica dei profeti, non sia senza conseguenze: lo spirito plebeo e popolare di Queirós, tema obliquo e difficile, peraltro, non è nella finzione come contenuto o oggetto mirato – è non un mero contenuto di una forma.

Ancor meno è il contenuto in un modo che si prenda come allegorico, per mediare i contenuti che lo interessano, per prenderli sempre indirettamente, nella versione presumibilmente più sofisticata del problema, e quindi far parlare meglio i contenuti di se stessi Stesso. Nonostante la sua obsolescenza, questo modello è ancora ampiamente emulato tra di noi. Il plebeo (mi sembra, meglio del “popolare”), nel registro di Queiróz e Pimenta in Mato seco in chamas è lì, appena avanti, davanti all'occhio: è ciò che romanza la finzione e ci dà sussidiariamente il documento di se stessa. Non è il contenuto di una forma, è l'uso della forma. Il documento viene dalla finzione, non viceversa. Di qui il tempo lento di sedimentazione e maturazione delle immagini attraverso inquadrature aperte e fisse (priorità). Non è cinema di montaggio, è cinema di campo, quasi profondità di campo, pur non privilegiando le inquadrature aperte (larghe e larghissime), sceglie di saturare le immagini stesse perché possano superare il racconto.

C'è un guadagno critico insolito nella procedura.

In contrasto critico con quanto mostra il film, possiamo soffermarci sull'idea sprecata del “popolare” come allegoria. La questione sarebbe stabilire esattamente perché questo espediente non si adatta assolutamente al cinema di Ardilei Queirós, tanto per cominciare, e nella sequenza, capirne l'obsolescenza. In questo schema consacrato di successo, di critica e di pubblico, la forma come allegoria è il dispositivo che opererebbe il riempimento (in modo quasi magico, cioè giustificandosi esclusivamente con gli effetti) del divario tra il ritardo e il moderno (o ritardo e sviluppo, nella versione più speranzosa), traendone il guadagno critico dando al moderno un'inaspettata autocoscienza dall'arretratezza che lo determinerebbe.

Nel cinema di Ardilei Queirós, ciò che viene mostrato con più acutezza, anche se non è questo il suo scopo più immediato, è l'espediente critico meglio adattato per svelare questa vittoriosa ideologia del “tropicale e oscuro” – natura e meticciato – , di cui il famoso corollario sul vantaggio spirituale dell'arretratezza quando è mediata e incorporata come allegoria critica dal moderno. Se l'età storica di questa risorsa è già passata, sembra, questa volta non è passata solo per lui, l'espediente critico in quanto tale, essendo questo il più acuto: anche l'avanguardia dei ceti medi andava di pari passo con la routinaria e commercializzazione del packaging popolare quanto benintenzionato, e non a caso l'eroismo della nostra borghesia appare nel film nel luogo esatto in cui si trova (dove, forse, non è mai uscito, nella storia circolare di il V Impero): nell'estrema destra più recalcitrante, festosa, quasi carnevalesca nel piano regolatore.

Sì cari amici, i ceti medi, i nostri almeno, sono quel famoso abominio intellettuale, cognitivo e morale. Il film non lo mostra deliberatamente come oggetto o risorsa principale. Lo mostra in modo sussidiario quando sposta il popolare dal luogo dell'allegoria e dal luogo del punto di vista speculativo delle classi medie, in un altro luogo, fuori dalla carta geografica. È il plebeo come forma.

Se il tropicalismo, come ogni impresa di successo tra noi, è oggi una cosa di eredi, non è tanto ciò che conta criticamente. Più importante è comprendere il nuovo posto del popolare in un mondo in cui le illusioni della concertazione nello stile del ciclo populista hanno portato a una dittatura, che è stata molto applaudita.

Andiamo. Nel caso di Adirley, la narrativa popolare non è finzione, data venia. Adirley non è un creatore che è nel terreno, è un creatore del terreno: 5 do Norte, Terratreme.

Quindi, l'angolo del cinema di genere che lui e Joana Pimenta sperimentano, nel senso migliore del termine, la cui tradizione tende a semplificare per buone ragioni formali, finisce per avere un'inaspettata inclinazione “realista” (tra virgolette), proprio perché il agenzia del materiale in Mato seco in chamas lavora contro ea favore della sua forma, per saturazione e distensione.

Questo sforzo contraddittorio appare, rafforzandosi, nella temporalità distesa del film.

Seguiamo l'esempio. Nel western classico, una delle domande date e accettate che strutturano la trama coinvolge due poli che si fronteggiano – il buono e il cattivo – sullo sfondo di una ricerca della ricchezza in un regime violentemente estrattivo: variazioni del cosiddetto “conquista dell'occidente”. Anche il furto – dalla diligenza, dalla banca o dalle donne – può essere inteso come una variazione dell'asse estrattivo. Accanto a questo, le forze della civiltà, sempre presenti e adombrando la trama con maggiore o minore enfasi, il cui intento è quello di modernizzare l'uso violentemente estrattivo delle risorse e compiere la miracolosa trasmutazione delle forme, dall'accumulazione primitiva al capitalismo d'impresa. La corsa all'oro, slogan e paradigma di ogni forma di appropriazione della ricchezza, solitamente violenta e spesso molto violenta, la corsa per le terre del Midwest americano, uno dei principali fattori scatenanti dell'inizio della guerra civile americana (1861-1865), più che la disputa per la fine della schiavitù negli stati a sud dell'Unione, tutti questi elementi sono sempre presenti nei classici del genere western.

Nel nostro western (che non è “caboclo”, è fatto da “caboclos”) ci sono due assi dell'estrattivismo: quello meno evidente, in quanto già naturalizzato, quello più incalzante e permanente, da cui il film stesso, il terreno della storia, si allontana: sono le persone stesse, imprigionate nel loro luogo sociale, che, tra noi, è quasi destino e dannazione. Sono a disposizione di quelle persone come una risorsa permanente da assumere: il lavoro di rieducazione, nell'eufemismo del discorso giuridico, nella fabbrica di mattoni, il lavoro obbligatorio nella costruzione delle carceri, l'assoggettamento alla gestione esterna del territorio in cui vivono, con coprifuoco e restrizioni alla circolazione, sempre monitorati e controllati, tutto ciò garantisce che sono una fonte permanente di stativismo tra la gente. Vivono una vita basata su sigarette e caffè scadenti, aspettando il momento della vendetta contro lo stativismo che li definisce, portata avanti dall'altro.

Il nucleo plebeo del film è tutto lì: è la vendetta per il naturale strativismo delle persone che caratterizza la nostra società. Di qui l'immagine fittizia del sovvertimento di questo stativismo atavico: estrarranno energia “pura” da altri, da oleodotti, in un furto mediato anche da un impianto industriale dell'epoca della prima rivoluzione industriale. Vedi, dunque: accanto a questo evidente estrattivismo che è quello dei poveri, dei diseredati, dei plebei, una specialità offerta dai vantaggi comparativi di questo luogo, l'estrazione di energia fossile, rubata da un'infrastruttura la cui scala va oltre il mero furto. È il senso epico di Gasolineiras.

Le Gasolineiras, banda di donne capeggiate da Chitara e dal suo luogotenente Lea, si organizzano per prendere l'energia dall'imponente orizzonte dell'aereo pilota che le sovrasta, in una delle poche inquadrature aperte del film, l'energia che si prospetta da loro, estrattivismo contro estrattivismo. Le lunghe catene di carbonio sotto forma di petrolio e derivati, negli oleodotti che tagliano misteriosamente il paesaggio desertico, innaturale e polveroso, da quella periferia dell'altopiano centrale, macchia secca, saranno drenate da Chitara e Lea ai fini di un nuova organizzazione della violenza, darwinismo contro darwinismo sociale.

Per chi non la padroneggia, la ragione tecnica appare come l'opera di uno stregone, per loro, la ragione tecnica ridotta al minimo in quella proto raffineria, è un'arma di lotta. È una risposta brutale in un ambiente in cui tutta la vita è sospetta. La natura ostile e brutta del film, secca, mangiata dai vermi non è senza ragione nella trama. È completamente contrario ai paesaggi lussureggianti dei film di Ford, ad esempio, tutta la terza critica kantiana nel genere occidentale. Contro questo paesaggio naturale del cinema viene girato un paesaggio ostile, ma in un nuovo senso filmico, la nostra migliore natura antinaturale, ocra, polverosa, secca, soffocante.

Il momento più verde dell'inquadratura è nel master plan, che si aggiunge ai gialloverdi della nostra estrema destra in esultanza. Il contrasto (che aggiunge al contrasto degli edifici monumentali del masterplan con la precaria autocostruzione delle periferie e le loro travi mal inquadrate dello stesso cemento armato, la sintassi costruttiva che attraversa con serena tranquillità la nostra frattura sociale) è abbastanza forte ed evocativo. Da un lato bello per natura, dall'altro deserto, a modo nostro: cespugli, riciclabili, resti di un verde opaco in mezzo a un movimento permanente della terra, il revolver permanente senza senso che è il paesaggio stesso, un mucchio di terra, avanzi, persone.

Il modo per sfuggire alla prospezione violenta e naturale che preme per la forza vitale di ogni prigioniero e ghetto nella terra di nessuno, terra di nessuno, ma luogo sociale ben definito, in quell'estremo occidente, è deviare il pendolo della prospezione: è rubare petrolio e derivati ​​dagli oleodotti. La prospezione della produzione, la produzione clandestina è un elemento importante della scena. Chiaramente in linea con la produttività media di un paese grottescamente disuguale, in cui esiste un'immensa offerta di lavoro vivo da sopperire a qualsiasi pressione oggettiva per aumentare la produttività sotto forma di macchinari, figura, per chi ancora non lo sapesse, qual è il posto del lavoro produttivo tra di noi: poca o nessuna industria olimpica, pulita e organizzata come un centro chirurgico; la nostra produttività media è molto più vicina a quella di uno smantellamento interiore, come quello di Marquin da Tropa, che appare spavaldo alla fine del film, nel momento in cui i Gasolineiras reagiscono e sottomettono violentemente le forze dell'ordine che minacciarli. A proposito, i nostri monumenti moderni erano e sono realizzati in cantieri simili alla manifattura di Gasolineiras.

La trama è impostata. I protagonisti sono i cattivi – non nuovi, li abbiamo Butch Cassidy e Sandance Kid (1969, George Roy Hill) con simpatici protagonisti fuorilegge – e, soprattutto, donne. Ci sono innumerevoli film di genere con bande femminili e film che incrociano i generi con una banda femminile, vampiri femminili, femmine sadiche, ecc. Non è nemmeno esattamente nuovo. Una reinterpretazione pop di questo genere cinematografico, un'intera tradizione dei famosi film di serie B degli anni Settanta, è A prova di morte, ad esempio (Quentin Tarantino, 2007). In Mato seco in chamas c'è, tuttavia, una differenza molto specifica nel modo in cui Adirley Queirós e Joana Pimenta riformulano questi elementi nel film che realizzano, affrontando specificamente quella che possiamo precariamente chiamare la questione del genere.

Cominciamo con l'ovvio, anche se non intendiamo andare molto oltre. Il film è interpretato da donne che, inoltre, formano una banda. Esiste, tuttavia, un a priori materiale da considerare, a seconda delle immagini che il film utilizza per ritrarre i protagonisti e le loro storie. Le periferie sono sovrappopolate da donne e bambini. Chitara e Lea, protagoniste di Gasolineiras, sono madri. La maternità, quindi, e la maternità nelle periferie è molto presente nel film, ed è un indicatore di genere importante, se non il più importante. Questo segno appare in diversi modi: Lea è una figlia e ha figli, c'è un dialogo tipicamente materno tra lei e sua figlia, e tra lei e sua madre, che rappresenta entrambi i registri.

Gli uomini, i motoboys, sono i comprimari per eccellenza, e nel film devono adeguarsi alle nuove regole del commercio e dell'organizzazione delle Compagnie di Benzina. Potremmo dire che c'è un'inversione di ruoli, ma non è esattamente questo. Non so se sarebbe il caso di pensare al femminile e al maschile nel film, quasi in maniera essenzialista, come se il film con la presenza massiccia delle donne fosse più o meno “femminile”. Nel modo in cui è girato, la questione del genere non è informata in anticipo, ha “informazioni” prima delle immagini che la costruiscono, arriva con le immagini. Pertanto, è necessario considerare i segni di questa presenza in immagine: la presenza capillare delle donne, il luogo di questa presenza, il loro protagonismo: sono le donne che sostengono effettivamente la maggior parte del lavoro, in qualsiasi luogo dove c'è basso o basso -reddito lavoro produttività molto bassa.

Pertanto, la riserva di lavoro ha un chiaro profilo di genere. La sovversione che opera il film, se c'è, è quella di mostrare questo, che è un elemento reale, come un elemento fittizio: la storia raccontata è la loro. Guardiamo alla maternità, come controprova. Può sembrare, ma non è un tema secondario nel film, e sono tentato di dire: è anche un film sulle madri, quelle madri. La maternità segna la condizione di genere decisiva per le donne: saranno sempre loro a portare la responsabilità totale e ultima della prole. La maternità, dal punto di vista sociale, è obbligatoria. Dopo tutto, c'è qualcosa come a apriori materiale di genere, per così dire, che il film riconosce e che utilizza come proprio materiale.

Da qui un'osservazione leggera che si può fare: il miglior materiale filmico, il miglior materiale per filmare una storia dal “fuori” è la condizione delle donne e delle donne stesse, fino a un certo punto il più invisibile degli elementi. Pertanto, l'elemento visibile più sorprendente in questo film di protagoniste femminili sono le donne stesse che si rendono visibili. C'è, inoltre, qualcosa che passa attraverso l'omoaffettività femminile presente e, in un certo senso, stereotipata nel film. Stereotipato, però, in maniera completamente diversa e persino sorprendente. Pertanto, c'è un'importante tensione compositiva. Stereotipia qui significa che c'è un certo sguardo “dall'esterno” che costruisce quei rapporti, rapporti omoaffettivi femminili, ma questo sguardo da cui si parte è quello della donna stessa, non il tipico sguardo maschile.

L'effetto, tuttavia, va ben oltre questo punto di partenza. A guardarlo un po' più lentamente, nulla è scontato nelle costruzioni che il film si permette di fare, nonostante le semplificazioni da cui parte. La presenza massiccia delle donne si aggiunge al fatto che le donne vivono, lavorano, si organizzano, amano e desiderano altre donne, quasi subito, senza grandi remore. Il modo in cui questo è girato neutralizza quasi ogni aspetto non nativo che chiede perché e come. Quindi mi sembra molto difficile prendere in considerazione questioni e temi di genere da lì, come si suol dire, senza accettare un certo rigore descrittivo che viene dato a quelle immagini.

Nella digressione finale, in occasione dell'arresto di Lea, e incorporata nel flusso immaginario, Chitara menziona il desiderio di Lea di compiacere i suoi figli, il suo desiderio di fare qualsiasi cosa per i suoi figli, come motivo della sua ultima ricaduta, rafforzando la maternità come chiave indicatore per la comprensione del genere e della socialità di genere nel cinema. Questo elemento mi porta a pensare quanto il film arrivi, come immagine, alla vita di quelle donne: c'è un'antropologia spontanea di quelle donne e delle loro immagini, non delle donne in generale, ma delle donne attraversate dal Partido do Povo Preso, un altro volto della loro organizzazione e lotta per la vita e la morte. La politica formale appare, in questi termini, come la continuazione di un tipo di scontro e di lotta che la precede e per la quale non offre pacificazione o cambio di mezzo.

Il piano delle compagnie di benzina è quello di riorganizzare il mercato delle consegne locali, costruendo la lealtà dei motociclisti attraverso la benzina a buon mercato che producono dal pozzo clandestino che gestiscono. Pertanto, controllare un'estremità del mercato dei consumi energetici per espandere il business da lì, espandere il business controllando il territorio attraverso il carburante. Le condizioni sono date dalla prospezione permanente nell'impianto clandestino. Il controllo territoriale precede un tentativo di dominio, in senso lato. Sono feroci, femmine, con passaggi attraverso il sistema carcerario e hanno l'educazione e la disposizione necessarie per il crimine.

Stanno accanto al piano generale nel selvaggio west e sfidano le forze dell'ordine bruciando e strappando tutto ciò che deve essere bruciato e strappato. La sequenza finale riassume lo stato d'animo che il film costruisce: sotto il suono di un rap di DF Faroeste, occupano il territorio, con Lea, che fa la brutta faccia che ci si aspetta da lei, in un finale che restituisce l'epopea al plebeo : prendiamo tutto, occupiamo tutto, replicando la soluzione cinematografica che già appariva in Il bianco esce, il nero resta. Invece di un'arma di distruzione di massa, l'occupazione del territorio, il controllo dell'energia attraverso la sua appropriazione, la presa dello spazio. Adirley Queirós ora raddoppia la puntata.

Nessuno intende che una rivolta della gente comune porti a un'altezza di civiltà. Quando si gira questo, arriva però il trionfo di Gasolineiras, non so con quale urgenza, con tutte le sue conseguenze: cosa seguire Gasolineiras, cosa percorrere ferocemente le strade di quella terra. Niente qui è divino e meraviglioso. Mato seco in chamas è l'ultima notizia su questo stato di cose e umore, sotto forma della migliore fiction del nostro western – quel luogo lontano, che potrebbe essere dietro ogni angolo vicino – San Paolo, 2023, bambini, donne, uomini che dormono e vivono sulla strada, una moltitudine, di avanzo in avanzo, che vive di immondizia e ad essa condannata, sotto la minaccia permanente di ogni forma di abuso, come in Germania, anno zero (Roberto Rosselini, 1948), film su un bambino: siamo in guerra? siamo stati sconfitti? dovremmo dichiarare guerra, qualche guerra? Chitara e Lea suggeriscono alcune risposte.

Mato seco in chamas non si sofferma sulla finzione per ragioni che la finzione stessa gli dà, ne va oltre il rovescio, in una dialettica che deve ancora essere esplicitata: “Non è questa una solida definizione del realismo in arte: obbligare lo spirito a schierarsi senza barare con gli esseri umani? e le cose?[Ii]

Chi non ha visto, vivrà. [Iii]

*Alexandre de Oliveira Torres Carrasco è professore di filosofia all'Università Federale di São Paulo (UNIFESP).

Riferimento


Mato seco in chamas
Brasile, Portogallo, (2022), 153 minuti.
Diretto da: Adirley Queirós e Joana Pimenta.
Sceneggiatura: Adirley Queirós e Joana Pimenta.
Interpreti: Joana Darc Furtado, Léa Alves da Silva, Andreia Vieira, Débora Alencar, Gleide Firmino.

note:


[I] Vedi PACE, João, “Boscaglia secca in fiamme, l'uomo e la strada”, in la terra è rotonda, 2023, disponibile su https://dpp.cce.myftpupload.com/mato-seco-em-chamas-2/; CARRASCO, Alexandre, “Il bianco esce, il nero resta”, in Rivista di febbraio, NO. 8, 2015, disponibile su http://revistafevereiro.com/pag.php?r=08&t=13

[Ii] BAZIN, Andrea, “Germania anno zero". In: Cos'è il cinema?, P. 243, Ubu, San Paolo, 2018.

[Iii] Grazie per aver letto e commentato Hernandez Vivian Eichenberge.


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