da REMY J. FONTANA*
La concezione del successo incorporata nell'idea di meritocrazia si riferisce a una definizione molto ristretta di cosa sia una vita di successo, e molto ristretta in termini di coloro che ne beneficiano.
“Ma non posso neppure ammettere, dopo l'esperienza di una vita…, che qualcuno dipenda solo da se stesso, trascurando i rapporti scientifici e sociali che, solo essi, sostengono l'operato dell'individuo, il quale ottiene così una feconda e utile continuità” ( Roberto Musil, L'uomo senza qualità).
Nella disputa per il primato semantico degli ultimi 100 anni per giustificare lo stato attuale delle cose, per lodare le virtù del sistema e per proporne la ricetta della felicità, i termini libertà, libera iniziativa, mercato (questa entità mistica che pensa, sente, reagisce, comanda), concorrenza, gestione (e il tuo shock, ahi!), meritocrazia. In tempi non così recenti, quest'ultima sembra vincere per disfatta (intorno al 7 a 1).
Come uno dei miti fondanti della società nordamericana, una componente importante di Sogno americano, che è già una nozione meritocratica che indica l'ascesa dei cenciosi alla ricchezza solo attraverso il duro lavoro e il talento, si è diffusa, Urbi e orbi, o almeno nelle parti del mondo soggette alla sua sfera di influenza imperiale e imperialista.
Associato alla “concorrenza” come vettore propulsore dell'economia capitalista, fondato sul rapporto fondamentale dello sfruttamento del lavoro, il termine “meritocrazia”, fin dagli anni Cinquanta, si costituisce come uno dei pilastri ideologici da tentare, e in larga misura da raggiungere, giustificare questo modo di produzione sociale della ricchezza e di appropriazione privata.
Il termine è stato l'espressione di uno degli errori di maggior successo, quello che presuppone che tutti, sia "dipendenti dallo stipendio" che "dipendenti dal profitto", siano in grado, grazie ai propri sforzi e presunti talenti, di prosperare in egual misura. , "vincere alla vita". E l'istruzione sarebbe la via per un tale risultato, il meccanismo per un tale risultato.
Questa riuscita operazione di esaltazione di individui che sono o potrebbero avere successo, a prescindere da considerazioni diverse dalle loro capacità e sforzi, ha un posto di rilievo nelle strategie egemoniche di rieducazione, con le quali la popolazione ha imparato a considerare giusta, o senza alternative, la via della essere, lavorare e vivere sotto le disposizioni (e i crolli) del capitalismo nelle sue fasi recenti, quello di L'età dell'oro del dopoguerra, e quello neoliberista, dagli anni '1970 in poi, quando la “restaurazione dell'economia come forza sociale coercitiva” (Wolfgang Streeck). È come se i conflitti distributivi tra le classi non apparissero come tali; il fatto che alcuni prosperino e altri ristagnino sono presentati come conseguenza, diciamo nuda e cruda, rispettivamente del lavoro o del vagabondaggio.
A questa fallacia se ne possono aggiungere molte altre, sempre partendo dallo stesso falso presupposto: che ciascuno sarebbe in grado di scegliere l'area di attività più compatibile con la propria natura, le proprie capacità o attitudini e, quindi dotato , per ascendere alla scala professionale, conquistando posizioni gerarchiche illimitate, generando, in fondo, successi riconosciuti ed esaltati, e soddisfazioni garantite, o garanzia di rimborso. Così insegna il libretto sulla prosperità individuale capitalista, così prega il catechismo dello sforzo personale, garantendo la felicità anche adesso, anche nella vita terrena. Di queste lezioni elevate e di ciò che promettono, la maggioranza è costretta a fare il lavoro di bestia da soma, che nelle attuali condizioni tecnologiche e organizzative, può essere un dattilografo informatico, un operatore di telemarketing, un fattorino della pizza in sella alla sua bicicletta ., ops, un imprenditore che attiva le domande, un operaio industriale qualificato, un dipendente pubblico e tanti altri inseriti o sottoposti a tali schemi.
Funzione ideologica centrale: camuffare sotto le spoglie di una morale delle virtù private l'opposizione strutturale tra agenti collettivi come determinante del successo o del fallimento di ciascuno, o anche della società. Il successo nel garantire condizioni di vita, a qualunque scala venga misurato, dipenderebbe quindi da ciò che l'individuo fa o non fa, avendo poco o nulla a che fare con le strutture o i processi sottostanti che costituiscono l'attuale modo di produzione, questi appunto, che determinano le condizioni di riproduzione sociale della vita individuale o collettiva.
Da questa astuta argomentazione nasce l'inevitabile scissione: da un lato, individui valorosi e laboriosi, il migliore e il più luminoso- di questi sarà il regno dei cieli capitalista -, e dall'altra, vagabondi incalliti, fannulloni abituali condannati alle profondità di tutti gli inferni. Se solo quest'ultimo scendesse, per inerzia del lavoro o per lassismo di volontà, in luoghi così scabrosi, le cose non andrebbero così male. Ciò che veramente rende brutta l'intera faccenda, cioè il destino della maggioranza sotto il sistema capitalista, è che anche i "valorosi lavoratori" sono colletti bianchi ou operai, nella designazione sociologica degli anni '1950/'60, non sono sicuri, con o senza meritocrazia, di sottrarsi allo sfruttamento del lavoro a cui sono sottoposti. E, di conseguenza, essere assegnati e mantenuti in posizioni nella divisione sociale e tecnica del lavoro che rispondano alle esigenze della riproduzione del capitale piuttosto che a quelle che incontrano o corrispondono alle loro capacità personali e qualifiche professionali.
Inizialmente proposto per facilitare o aumentare la mobilità sociale, sostituendo il principio ereditario, la primogenitura per ottenere posizioni prestigiose, la meritocrazia intesa a sostituire le prerogative compiacenti delle élite, mettendo al loro posto la promozione di lavoratori di talento estranei.
Anche se quello che in linea di principio, e per alcuni un vero principio etico, sembra assicurare opportunità a tutti, sostituendo l'attribuzione di posizioni sociali con privilegi di nascita, in pratica appare come l'ennesima ideologia che sancisce le disuguaglianze. Un'ideologia molto comoda per un sistema che fa sembrare naturali le differenze di capacità e talenti, percepite come attributi di alcuni individui e non come il risultato di una differenziazione sociale preesistente, che decide in partenza il destino dell'uno e dell'altro, soprattutto attraverso il sistema scolastico. I pensatori positivisti, un po' prima, ei funzionalisti, un po' più tardi, nel corso del XX secolo, hanno puntato un po' troppo sulle promesse dell'educazione come complemento delle rivoluzioni industriale e democratica.
Anche se potessimo effettivamente ottenere ciò che promette l'ideale della meritocrazia, il principio è ancora viziato, non regge, perché anche se gli individui riescono con i propri sforzi, sorgono diverse domande: avrebbero meritato i talenti che hanno permesso loro di sbocciare? Era il risultato dei loro meriti che sono nati in una certa classe e non in un'altra? Di vivere in un tipo di società che valorizza le loro qualità e abilità? Di essere possessori di capacità e attributi che il loro tempo privilegia e valorizza? Sarebbe possibile ignorare l'aiuto che hanno avuto e che li ha aiutati ad ascendere, a prosperare? Non avrebbero alcun debito con le comunità in cui erano inseriti? Con le specifiche disposizioni sociali che hanno favorito il loro successo, che hanno reso loro possibile il successo?
Termine coniato da Michael Young in un'opera del 1958 (L'avvento della meritocrazia, 1870-2033), la meritocrazia è presentata satiricamente da questo autore come un'utopia sociologica che porterebbe, al termine di una progressiva mobilità genealogica, in una società governata dai più intelligenti, il cui alto coefficiente intellettuale legittimerebbe il loro dominio su una classe inferiore totalmente squalificata anche per i più elementari funzioni professionali, lasciandole alle faccende domestiche nelle case di potenti potentati.
In questo modo non saremmo lontani da un modello di società tecnocratica, dove non solo la democrazia si esaurisce, a causa dell'emarginazione della maggioranza, ma la stessa agenda della convivenza sarebbe governata da criteri di efficacia strumentale, produttivistica o di performance organizzativa e performance, a discapito dei valori umanistici di considerazione, empatia, cooperazione, solidarietà, dignità.
Negli ultimi decenni, con disuguaglianze abissali e crescenti, si è diffuso un atteggiamento verso il successo, che alcuni chiamano arroganza meritocratica; un atteggiamento compiaciuto di coloro che salgono in cima, attribuendo il loro successo esclusivamente alla propria iniziativa, e di conseguenza i meno fortunati, che sono rimasti indietro, ottengono solo ciò che meritano e hanno solo se stessi da incolpare per il loro fallimento.
Atteggiamenti come questi, e l'ideologia che ad essi corrisponde, sono tra quelli che hanno generato risentimenti che creano o esacerbano una polarizzazione nella società, a metà strada attraverso la quale la disuguaglianza su cui si fondano, e si riproducono, dà luogo a condizioni per una nuova forma di tirannia.
La sfida di come mantenere la sanità mentale in questi tempi di divisione e sostenere alcuni parametri di civiltà di fronte a emozioni elevate, nella regolazione degli scambi sociali e nel contesto di scontri politici, diventa un compito cruciale per coloro che non sono soddisfatti con i toni cupi sotto i quali viviamo. E, sicuramente, la concezione del successo insita nell'idea di meritocrazia si riferisce a una definizione molto ristretta di cosa sia una vita di successo, e molto ristretta in relazione a coloro che ne beneficiano. Anche per questi, i loro successi hanno richiesto un prezzo che rende le loro vite miserabili, una competizione senza fine che li consuma quantitativamente e qualitativamente, non lasciando loro spazio per l'espressione di sé, la creatività, i desideri e la vitalità, solo per l'esplorazione di sé, l'estrazione di valore e l'ansia senza fine . Alienazione e conformismo sono i pedaggi che il sistema meritocratico addebita loro, perché solo rinnegando se stessi come essere sociale, riducendosi ad essere per e nel mercato, e integrandosi acriticamente ad esso, si possono riconoscere e valorizzare i propri eventuali meriti.
La condizione che è loro data di vivere è esemplificativa di quanto osservava Franco Berardi, ovvero la trasformazione in atto di ogni ambito della vita sociale in economia, che porta alla “sottomissione dell'anima al processo lavorativo”.
Si potrebbero qui richiamare altre obiezioni alla narrazione meritocratica, come i pregiudizi di genere, razza, ceto, provenienza che, a parità di titolo, dedizione e rendimento per identiche funzioni, conferiscono salari molto diseguali a donne, neri, LGBT, immigrati , coloro che accolgono uomini, bianchi, eterosessuali, con reti di relazioni consolidate da tempo. Non saremmo quindi lontani da un'antimeritocrazia, un meccanismo di controllo sociale che finisce per premiare il più uguale tra i presunti uguali, oltre a favorire eventualmente l'ascesa nella gerarchia funzionale e nelle posizioni di status di opportunisti, parvenu e senza scrupoli. Una casta meritocratica così costituita non sarebbe esattamente la virtuosa manifestazione del sistema, né definirebbe parametri per una buona società.
I valori, le pratiche, gli argomenti e i presupposti impliciti nella meritocrazia, che intendono governare la nostra vita quotidiana, sono quindi viziati e disastrosi. Se fossero validi e promotori di ciò che affermano, non vedremmo i movimenti e le rivendicazioni di inclusione e diversità caratterizzare così chiaramente l'avanguardia delle attuali lotte per la giustizia sociale e la democrazia.
Nonostante sia così incorporato nel ethos collettivo contemporaneo, al punto che ci riesce difficile immaginare che la meritocrazia non sia uno dei fondamenti dell'equa organizzazione della società, il fatto è che è una trappola, che ci imprigiona tutti, accentuando le disuguaglianze. In un libro del 2019 (La trappola della meritocrazia: come il mito fondamentale dell'America alimenta la disuguaglianza, smantella la classe media e divora l'élite), Daniel Markovits dimostra come questo meccanismo di presunta ricompensa dei lavoratori migliori e più duri diventi, in pratica, una trappola che rovina la vita di tutti. Sebbene l'autore, come si addice a un rappresentante del tradizionale accademico scommette ancora su un'economia e un mercato del lavoro in grado di promuovere l'uguaglianza economica invece di enfatizzare le gerarchie, aggiornando il principio meritocratico ampliando l'accesso all'istruzione, aprendo posti di lavoro semi-specializzati per le classi medie, da sempre considerate il centro della vita nordamericana . Ma riconosce che una versione aggiornata di questi accordi, anche se possibile, non garantisce quello che chiama un ordine economico democratico. Il fallimento più probabile di questo tentativo non lascia altra alternativa che la reiterazione della disuguaglianza.
Una società democratica, più equa e più egualitaria dovrebbe, quindi, costituirsi a parte e lontana da questa mitologia/distopia meritocratica.
La condizione controfattuale delle promesse di un capitalismo socialmente pacificato, di cui la meritocrazia sarebbe una delle componenti, trova nelle crisi di questo inizio di XXI secolo ancora meno plausibilità, meno aderenza alla dura realtà della fase hayekiana – quella in cui il sistema cerca di sopravvivere grazie ai meccanismi del credito, pubblico e privato, a scapito dell'indebitamento cronico di entrambi. In queste condizioni, di crisi ricorrenti, gli affari di governo vengono infatti trasferiti alle banche centrali, le quali, se aiutano il sistema politico a liberarsi del lavoro sporco di legittimarlo, non garantiscono neppure un nuovo ciclo di crescita, tanto meno la creazione di un'economia meno predatoria.
Con le cose configurate in questo modo e con l'aggravarsi dell'accrescimento di un modello di dittatura economica hayekiana, se non nel breve e medio termine, diventa evidente la rottura tra capitalismo e democrazia, ammesso che fossero vicini da tempo, anche se in rapporto sempre teso.
L'alternativa sarebbe una democrazia senza capitalismo, ma date le condizioni del nostro tempo, possiamo solo alimentare questa promettente speranza mantenendola all'ordine del giorno, con mobilitazioni politiche permanenti, spingendo e disturbando l'ordine sociale senza tregua, per i prossimi anni o così decenni.
Di fronte a queste prospettive critiche a lungo termine, la questione è combinare la pazienza storica con una lotta sociale e politica permanente.
*Remy J.Fontana, sociologo, è professore in pensione presso il Dipartimento di Sociologia e Scienze Politiche dell'UFSC.