da RICARDO FABBRININI*
Considerazioni sul percorso artistico di Mira Schendel
In un'epoca di discorsi rozzi e vili, è necessario ricordare la rara e sottile scrittura di Mira Schendel (1919-1988), che divenne più nota, a partire dagli anni '1990, dentro e fuori il Brasile, poiché fu esposta al 22° Biennale di San Paolo nel 1994; al MoMA di New York, nel 2009; al Museo Tate Modern da Londra, nel 2013; e, infine, alla Pinacoteca dello Stato di San Paolo, nel 2014.
Mira Schendel ha conservato dalla Svizzera, dove nel 1919 nasce la “kleografia”, i delicati disegni a matita di Klee e le forme pure della geometria di Max Bill; ha conservato dall'Italia, dove ha studiato, il vuoto intriso di enigmi delle nature morte di Morandi, reazione allo spazio orfico delle macchine e delle folle dei futuristi; e in Brasile, dove emigrò nel 49, si avvicinò al concretismo di San Paolo e al neoconcretismo di Rio de Janeiro, in particolare ad alcune opere di Lygia Clark e Hélio Oiticica, senza mai ricadere nel mero epigonismo.
Dal 1954 al 1964, Mira Schendel dipinse piccoli quadri geometrici basati su linee orizzontali e verticali. Si tratta di dipinti che rimandano a Max Bill e Mondrian, ma si differenziano da questi artisti per il materiale, la linea e il colore utilizzato. La materia dei suoi quadri è grezza, in quanto l'artista mescola granelli di sabbia, cemento, lattice e gesso con olio e tempera, e solo successivamente li applica al supporto, in juta, tela o legno.
Le linee, i contorni delle forme geometriche, incorporando il caso, tremano; ei colori, sempre scuri, evocano il presunto colore genuino del materiale: un tono bruno, situato tra l'ocra e il piombo. Il risultato è un neoplasticismo brutalista o un concretismo"persone”, in cui il rigore geometrico non si realizza su una superficie liscia, come in questi costruttivismi storici, ma nella rugosità dei materiali amalgamati.
Tra il 64 e il 66 Mira Schendel realizza la serie “Monotipias”, divisa dalla critica in “disegni lineari” e “architettura”. Nei “disegni lineari” l'artista dipinge un vetrino, vi cosparge del talco, impedendo che l'inchiostro venga assorbito facilmente, e poi disegna con un'unghia o una punta secca sul retro di un foglio di carta di riso, premuto contro il vetro . Poi compaiono sottili linee di ferro o rame, che non sembrano essere state incise dall'artista, ma secrete dai pori della carta. Questa tecnica era usata anche nelle “architetture”, ma qui non ci sono una o due linee, ma diversi tratti che indicano figure, come quadrati o cerchi, o anche “scritte”, lettere, parole e persino frasi.
Mira Schendel ha creato, dal 1967 al 1973, “Graphical Objects”, utilizzando non solo segni scritti a mano, ma anche lettere e numeri, dattiloscritti o adesivi. Sono oggetti alti fino a 1,2 m, alcuni a forma di tondo, sorretti da fili di nylon, in cui i segni, grafici e non, pressati tra lastre acriliche, gravitano nello spazio espositivo. Queste grafie nell'aria, che a prima vista ricordano il tachismo di un Kline o il graffito di un Haering, si distinguono anche per questi artisti, in quanto i segni, in vista, sono discreti, diminutivi, un “memento mori” di ritegno orientale .
C'è anche un'aria di famiglia tra questa scrittura e le invenzioni tipografiche di Mallarmé, i “calligrammi” di Apollinaire e la “verbovocovisualità” della poesia concreta. I “miragrafi”, però, non sono “poesie”, ma la figurazione di uno stato precedente alla nascita delle lingue, un ritorno all'“in nato” delle lettere, dei numeri e delle loro prime connessioni. In un monotipo del 65, ad esempio, al centro dei versi, analoghi alle iscrizioni parietali, le lettere “a”, “k” ed “e”, suggerendo, nel loro “divenire-scrittura”, l'articolazione della parola “ arkhe” (origine, principio).
E in un “oggetto grafico”, del 1968, quello che abbiamo è uno sciame di lettere, pura entropia, figurante il mormorio del linguaggio: l'artista – ponendosi al di sotto o al di là della poesia – qui, fa balbettare il linguaggio, lascia i solchi, delirio, producendo un linguaggio esoterico all'interno di un linguaggio normativo, in breve, attaccando le lingue madri.
Negli anni '1980, Mira Schendel è tornata a temperare su tela o legno, senza la trama dei suoi quadri precedenti. Sono, ora, superfici lisce, monocromatiche, graffiate da linee con un bastoncino d'olio, come in “I Ching“, da 81. In questa serie di opere minimali ma non minimaliste, prive di simmetria o monotonia, ce ne sono alcune, senza titolo, in cui l'artista ha applicato piccole figure geometriche in foglia d'argento o d'oro a campiture piatte di colore. Associando queste opere all'arte orientale, Haroldo de Campos vede in questi segni d'oro e d'argento delle similitudini dei sigilli della pittura cinese e attribuisce alle campiture uniformi di colore il significato di quel vuoto – “shunyata” o “vuoto vivente” – ha nell'estetica buddista.
Il viaggio di Mira Schendel, qui riassunto, mira a motivare altre pubblicazioni, come un inventario esaustivo delle sue innumerevoli opere e un'interpretazione di questa produzione, basata su riferimenti teorici, religione e filosofia, mobilitati dall'artista, in appunti, lettere e interviste. Perché in questi rimandi sta forse la chiave dell'unicità di quest'arte dalle radici costruttive, che non si esaurisce nell'ottica pura, concreta o minimale, ma cerca nell'origine dei linguaggi e nel nocciolo della materia – nella rugosità di texture, nella traslucenza dell'acrilico e nelle superfici monocrome – forme di trascendenza.
Mira Schendel, nel suo “sacro lavoro”, assume la materia come qualcosa di originale, sacrosanto, di un'oscurità piena di segreti, in una resistenza alla strumentalizzazione dei codici – alla natura mercantile dei cliché del mondo massmediale e digitale rete.
*Ricardo Fabbrini È professore presso il Dipartimento di Filosofia dell'USP. Autore, tra gli altri libri, di L'arte dopo le avanguardie (Unicamp).