rivolte e rivolte

Immagine: Mike Gonzales
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da MARCO D'ERAMO*

La cartografia della repressione statale mostra che è contro la classe che molti dei cosiddetti “progressisti” di oggi disprezzano, temono o ignorano

Quando scoppiarono le rivolte in Francia alla fine di giugno, la polizia impiegò poco meno di una settimana per effettuare più di 3 arresti. Gli scontri nelle strade di Parigi e Marsiglia hanno evocato altri recenti scontri con le forze di repressione statale: si pensi ai 22 arresti effettuati dalla polizia iraniana lo scorso autunno, o ai XNUMX detenuti negli Stati Uniti durante l'estate del Black Lives Matter. Cosa hanno in comune queste tre rivolte, in tre continenti diversi?

Innanzitutto l’età e la classe sociale dei manifestanti. Le persone arrestate avevano quasi tutte meno di 30 anni e un numero sproporzionato erano NEET (persone senza istruzione, lavoro o formazione). In Francia e negli Stati Uniti, ciò era legato al loro status di minoranze razzializzate: 26% della popolazione giovane nelle zone “urbano sensato" sono NEET, rispetto alla media nazionale del 13%, e gli afroamericani costituiscono quasi il 14% della popolazione generale ma il 20,5% dei NEET. In Iran, invece, il fattore decisivo è stata l’età: i giovani hanno vissuto tutta la vita sotto le sanzioni statunitensi. Dati recenti mostrano che circa il 77% degli iraniani di età compresa tra 15 e 24 anni rientra in questa categoria, rispetto a circa il 31% nel 2020.

Il secondo fattore comune è ancora più sorprendente. In tutti e tre i casi, le proteste sono scoppiate dopo un omicidio da parte della polizia: George Floyd, un afroamericano, è stato ucciso a Minneapolis il 25 maggio 2020; La curda Mahsa Amini, 22 anni, a Teheran il 16 settembre 2022; e il 17enne Nahel Merzouk di origine algerina a Nanterre il 27 giugno. All’indomani di queste morti, i riflettori dei media erano puntati sui “vandali”, sui “banditi”, sugli “hooligan” e sui “criminali” che scesero in piazza, ma raramente sulle forze dell’ordine stesse. In Iran non si conosce nemmeno l'identità del poliziotto che ha causato la morte di Amini. In Francia, il portavoce di Éric Zemmour ha lanciato una campagna di raccolta fondi online per sostenere l'agente di polizia che ha ucciso Nahel; ha raccolto oltre 1,6 milioni di euro prima di essere ritirato.

Una terza caratteristica collega tali proteste e la loro repressione ai disordini in altri paesi: la ripetizione monotona. C'è sempre la stessa scena ricorrente: vetrine di negozi fracassate, auto date alle fiamme, alcuni supermercati saccheggiati, gas lacrimogeni e occasionalmente proiettili della polizia. In Occidente esiste da decenni la stessa formula: la polizia uccide un giovane proveniente da una comunità emarginata; i giovani di questa comunità si alzano; distruggono alcune cose e si scontrano con la polizia; sono intrappolati. L'atmosfera ritorna ad una sorta di precaria tranquillità, finché la polizia non decide di uccidere nuovamente qualcuno. (Le proteste dell’Iran dello scorso anno sono state la prima grande rivolta del Paese contro la violenza della polizia – un segno che anche la terra degli ayatollah sta aprendo la strada alla “modernità occidentale”.)

La Francia ha una lunga storia di tali incidenti. Per fare solo alcuni esempi indicativi: nel 1990, un giovane paralitico di nome Thomas Claudio viene ucciso nella periferia di Lione da un'auto della polizia; nel 1991, un agente di polizia spara e uccide il diciottenne Djamel Chettouh in un “periferia" da Parigi; nel 1992, sempre a Lione, la gendarmeria sparò e uccise il diciottenne Mohamed Bahri mentre tentava di fuggire da un posto di blocco; nello stesso anno, nella stessa città, Mourad Tchier, 18 anni, viene ucciso da un comandante di brigata della gendarmeria; a Tolone, 20, Faouzi Benraïs esce per comprare un hamburger e viene ucciso dalla polizia; nel 1994, Djamel Benakka viene picchiato a morte da un agente di polizia alla stazione di polizia di Laval.

Andando avanti: le rivolte del 2005 furono una risposta alla morte di due adolescenti, Zyed Benna (17) e Bouna Traoré (15); quelli nel 2007 hanno chiesto risarcimento per la morte di altri due, Moushin Sehhouli (15) e Laramy Samoura (16), la cui motocicletta si è scontrata con un'auto della polizia. La litania è insopportabile: basterebbe ricordare la morte di Aboubacar Fofana (22 anni) nel 2018, ucciso dalla polizia a Nantes durante un controllo d'identità. Notate come i nomi delle vittime siano straordinariamente gallici: Aboubakar, Bouna, Djamel, Fauzi, Larami, Mahaed, Mourad, Moushin, Zyed...

La stessa dinamica si ritrova dall’altra parte dell’Atlantico. Miami, 1980: quattro agenti di polizia bianchi sono accusati di aver picchiato a morte un motociclista nero, Arthur McDuffie, dopo aver passato con il semaforo rosso. Vengono assolti, provocando un'ondata di sommosse che scuote Liberty City, provocando 18 morti e oltre 300 feriti. Los Angeles, 1991: quattro agenti di polizia bianchi picchiano un altro motociclista nero, Rodney King. Le successive rivolte provocano almeno 59 morti e oltre 2.300 feriti. O"rivolta” si diffonde ad Atlanta, Las Vegas, New York, San Francisco e San Jose.

Cincinnati, 2001: un agente di polizia bianco uccide un uomo di colore, il diciannovenne Timothy Thomas, e 19 persone rimangono ferite durante le proteste che ne seguono. Ferguson, 70: un agente di polizia bianco uccide Michael Brown, un uomo di colore di 2014 anni; disordini, 18 arrestati, 61 feriti. Baltimora, 14: un uomo di colore di 2015 anni muore per ferite multiple riportate mentre era detenuto in un furgone della polizia; gli scontri lasciano feriti 25 agenti di polizia; due persone vengono uccise, 113 arrestate e viene imposto il coprifuoco con l'intervento della Guardia Nazionale.

Charlotte, 2016: la polizia spara all'afroamericano Keith Lamont Scott, 43 anni; rivolte, coprifuoco, mobilitazione della Guardia Nazionale. Un manifestante viene ucciso durante le manifestazioni, Justin Carr, 26 anni; 31 sono feriti. Infine arriviamo a George Floyd; lo scenario si ripete.

La polizia britannica non ha motivo di sentirsi inferiore alle sue controparti transatlantiche, né ai suoi vicini d’oltre Manica. Ecco alcuni esempi tra tanti: Brixton, 1981: persistente brutalità della polizia e problemi di molestie nelle proteste e negli scontri tra la comunità nera; Feriti 279 poliziotti e 45 civili (i manifestanti evitano gli ospedali per paura), 82 arresti, oltre 150 veicoli bruciati, 1985 edifici danneggiati, un terzo dei quali incendiati. Il turnaround si estende a Liverpool, Birmingham e Leeds. Brixton, 43: la polizia perquisisce la casa di un sospetto e spara a sua madre, Cherry Groce. Un fotoreporter viene ucciso, 10 civili e 55 poliziotti rimangono feriti, XNUMX auto vengono date alle fiamme e un edificio viene completamente distrutto dopo tre giorni di disordini (Cherry Groce sopravvive alle ferite ma rimane paralizzata).

Tottenham, 1985: una donna di colore, Cynthia Jarrett, muore per arresto cardiaco durante una perquisizione in una casa di polizia e un agente di polizia viene ucciso dalla folla durante i disordini che ne derivano. Brixton, 1995: proteste dopo la morte in custodia di un uomo di colore di 26 anni; 22 arresti. Tottenham, 2011: la polizia spara e uccide Mark Duggan; Scoppiano disordini, che si estendono ad altre zone di Londra e poi ad altre città. Nei sei giorni successivi morirono cinque persone, 189 agenti di polizia rimasero feriti e 2.185 edifici furono danneggiati. Beckton, 2017: un portoghese nero di 25 anni, Edson da Costa, muore per asfissia dopo essere stato fermato dalla polizia. Nelle successive proteste davanti alla stazione di polizia, quattro vengono arrestati e 14 agenti di polizia rimangono feriti.

Immagino che questo elenco sia stato tanto esasperante da leggere quanto esasperante da scrivere. A questo punto la violenza della polizia non può essere considerata un “macchia”, come dicono i francesi, ma una caratteristica persistente e transnazionale del capitalismo contemporaneo. (Qui si può ricordare Bertolt Brecht, che, di fronte alla reazione del governo della Germania dell'Est alla protesta popolare nel 1953, chiese: "Non sarebbe più semplice se il governo sciogliesse il popolo per eleggerne uno nuovo?").

Ciò che sorprende è che, dopo ciascuna di queste inversioni di rotta, migliaia di urbanisti, sociologi, criminologi, operatori sanitari, enti di beneficenza e ONG si rivolgono, con contrizione, alle profonde cause sociali, culturali e comportamentali di tale “violenza”, “eccessi” ", "esplosioni" e "vandalismo". La polizia, però, non è considerata meritevole della stessa attenzione. La violenza della polizia viene spesso descritta ma raramente esaminata. Nemmeno Foucault ha affinato la nostra comprensione di ciò concentrandosi su luoghi specifici in cui le forze dell’ordine sono organizzate e istituzionalizzate.

La polizia si è chiaramente evoluta nel corso dei secoli: è stata suddivisa in corpi specializzati (polizia stradale, urbana, di frontiera, militare e internazionale) e i suoi strumenti sono stati migliorati (intercettazioni, tracciamento, sorveglianza elettronica). Ma è rimasto identico sia nella sua opacità che nella sua irriformabilità. Gli Stati sopra menzionati non hanno mai messo all’ordine del giorno una riforma significativa della polizia. Nessuno dei suoi governi ha mai spinto per un’alternativa: perché un regime dovrebbe voler armeggiare con il suo meccanismo disciplinare più efficace? Nemmeno le rivolte, le rivolte e le agitazioni potrebbero portare cambiamenti. Sembra, al contrario, che la rabbia popolare sia un fattore stabilizzante, una valvola di sicurezza per la pentola a pressione sociale. Infine, consolida l’immagine che i potenti hanno della popolazione. Nelle Storie di Erodoto, scritte nel V secolo a.C., il nobile persiano Megabizo afferma: “Non c'è niente di così vuoto di comprensione, niente di così pieno di sfacciataggine, come la plebaglia. Ecco, era una follia non sopportare il dominio. Gli uomini, quando cercavano di sfuggire alla sfrenatezza di un tiranno, si abbandonavano alla meschinità di una folla rude e sfrenata. Il tiranno, in tutte le sue azioni, almeno sa quello che fa, ma la folla è completamente ignara; infatti come può esserci conoscenza in una plebaglia a cui non è stato insegnato e che non hanno il senso naturale di ciò che è giusto e appropriato? Si scaglia contro le istituzioni dello Stato con tutta la furia di un ruscello in piena d’inverno – e confonde tutto”.

Dal punto di vista del regime, è del tutto possibile che le rivolte siano benvenute, poiché garantiscono la rinormalizzazione, permettono ai “bantustan” sociali di rimanere tali e sgonfiano malcontenti che altrimenti potrebbero essere pericolosi. Naturalmente, affinché possano svolgere questa funzione stabilizzatrice, devono essere soggetti a una condanna esterna: gli atti vandalici devono essere denunciati, la violenza deve suscitare indignazione, i saccheggi devono suscitare disgusto. Tali reazioni giustificano la crudeltà della repressione, che diventa l’unico mezzo per arginare l’ondata di barbarie. È in queste condizioni che le rivolte servono a fossilizzare la gerarchia sociale.

Non possiamo non ricordare le rivolte popolari che periodicamente scuotevano il “antico regime” e furono regolarmente e spietatamente soppresse: la Grande Jacquerie del 1358 (che diede origine al nome comune di tutte le successive rivolte contadine), la rivolta di Tuchin in Linguadoca (1363-84), la rivolta dei Ciompi a Firenze (1378), la rivolta di Wat Tyler Ribellione (1381), Guerra dei contadini in Germania (1524-6), Carnevale a Romani (1580) e Rivolta di Masianello a Napoli (1647). Lo storico Samuel Cohn ha contato oltre 200 casi simili in Francia, Fiandre e Italia dal 1245 al 1424.

Ma è stato il grande storico Marc Bloch ad osservare come il sistema feudale avesse bisogno di queste rivolte per sostenersi: “Un sistema sociale non è caratterizzato solo dalla sua struttura interna, ma anche dalle reazioni che provoca: un sistema fondato sui comandamenti può, a in certi momenti, implica doveri reciproci di aiuto svolti onestamente, ma può anche portare a brutali scoppi di ostilità. Agli occhi dello storico, che deve solo osservare e spiegare i rapporti tra i fenomeni, la rivolta agraria appare inseparabile dal regime feudale come, ad esempio, lo sciopero lo è per la grande azienda capitalista”.

La riflessione di Bloch ci porta alla seguente domanda: se il "jacquerie” è inseparabile dal feudalesimo e dallo sciopero del capitalismo fordista, quindi a quale sistema di dominio corrisponde il tumulto dei NEET? La risposta è una sola: un sistema – il neoliberismo – in cui la plebe venisse ricostituita. Chi sono questi nuovi cittadini comuni? Sono i NEET dei grattacieli Usa e dei quartieri sud di Teheran, i sottoproletari delle aree sensibili. Sono la classe che molti dei cosiddetti “progressisti” di oggi disprezzano, temono o, nella migliore delle ipotesi, ignorano.

*Marco D'Eramo è un giornalista. Autore, tra gli altri libri, di Il maiale e il grattacielo (Verso).

Traduzione: Eleuterio FS Prado.

Originariamente pubblicato su blog del sidecar.


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