da MARILIA PACHECO FIORILLO*
Come le donne, nel passato più antico, inventavano modi per dominare e brillare in un mondo esclusivamente maschile
Come Hatshepsut, nell'antico Egitto, Ipazia di Alessandria e la sultana Shajarat al-Durr, vicino al Cairo, inventarono dispositivi per dominare e brillare in un mondo esclusivamente maschile.[I]
Hatshepsut, o meglio, il faraone Hatshepsut (come preferiva essere chiamata) regnò come uomo per 20 anni durante la XVIII dinastia, dal 18 aC (prima dell'era volgare). Fu un periodo di pace e prosperità.
I suoi immediati successori alla guida dell'Egitto si impegnarono in un'opera meticolosa e tenace volta a distruggere ogni traccia del suo regno, nei conti, nelle statue e nei monumenti, preoccupandosi di cancellare le sue tracce, in un'operazione di piazza pulita (terra bruciata) senza precedenti. Fu solo nel XX secolo, quando gli americani scavarono a Luxor, che Hatshepsut riemerse nella sua formidabile grandezza, vedi lo splendido tempio di Luxor, aperto ai visitatori nonostante alcuni attacchi terroristici, e il restauro di innumerevoli edifici semi demoliti, raschiati obelischi e statue e vandalizzati a Luxor e Karnak. Il tentativo di annientarla, cancellandole la memoria attraverso la distruzione delle prove materiali della sua esistenza, fallì. È diventata più popolare.
Qualcosa di simile accadde alla filosofa, matematica e astronoma neoplatonica Ipazia (c 350/370-415 dell'era volgare), all'epoca in cui Alessandria era diventata la “nuova Atene”. Fu assassinata con sadica raffinatezza dai monaci cristiani (istigati dal vescovo ortodosso, poi promosso santo, Cirillo d'Alessandria), che distrussero anche quasi tutta la sua opera.
I fanatici seguaci di Cirillo, però, bravissimi nel sminuzzare carni femminili ma poco astuti, dimenticarono di gettare nel fuoco l'abbondante corrispondenza di Ipazia con il vescovo cristiano-ellenistico Sinesio di Cirene (l'attuale Libia), suo discepolo, amico ed estimatore, nonché un intellettuale esperto di filosofia greca (Opera di Sinesio di Cirene, Classici greci, ed. Grazya, Torino: UTET, 1989, greco/italiano). Molto di ciò che sappiamo di lei deriva da questo amorevole scambio di lettere, come le folle che attirava ad ascoltare le sue lezioni, o il fatto che fosse la principale consigliera del sindaco della città, Origene, o quanto fosse amata indiscriminatamente da entrambi i pagani. e cristiani neofiti, non fondamentalisti.
Oltre a questa fonte, vi sono frammenti degli scritti di Ipazia insieme al padre, il matematico Teone (che diresse il Mouseion alessandrino), conservati in un'apposita sala in Vaticano, e il cui accesso è consentito solo con lettera di raccomandazione e acquiescenza episcopale. La strage di Ipazia costituì all'epoca uno scandalo, al punto da generare un tentativo di indagine del mentore Cirilo (andato a nulla). Tuttavia gli procurò fama, diffamazione e onori postumi nei secoli successivi. Ci sono innumerevoli, diversi libri su di lei,[Ii] Iniziare con best-seller di Charles Kingsley del 1853 (tradotto in sette lingue), e culminato, per un pubblico più vasto, nel monotono film Agora', del 2009, diretto da Alejandro Amenábar e con Rachel Weisz che interpreta l'apparente dolcezza del filosofo.[Iii]
Ipazia è diventata una sorta di icona del femminismo ante litteram, cosa che probabilmente le dispiacerebbe molto, dato che né lei né i suoi ammiratori prestavano molta attenzione alle questioni di genere. Forse si sentirebbe addirittura a disagio con questo epiteto “donna e filosofa”. Verrebbe da chiedersi se esista una logica strettamente maschile (gli inevitabili sillogismi) contrapposta a un sofismo tipicamente femminile (poiché le donne sono ingannatrici e ingannatrici…). Ipazia forse si sarebbe addirittura offesa se l'avessero ridotta a un simile cliché. Era una pensatrice (sostanza) (incidente). Il che, sorprendentemente, non suscitò sorpresa né ispirò la militanza circa venti secoli fa.
La sultana, o meglio, la sultana Shajarat al-Durr (il titolo 'Sultan Shajar' è inciso su un dinaro (moneta) dell'epoca), era un altro sovrano egiziano che comandò gli eserciti nel XIII secolo, durante il VII secolo.a. Crociata e sconfisse i cristiani invasori. Di origine armena, fu probabilmente venduta come schiava ad Al Salih Ayyub, che sposò poi, quando questi divenne sultano. Con la morte del marito, nel pieno del conflitto e con il rischio del collasso dell'Egitto musulmano, Shajarat prese il suo posto, nascosta nella tenda dove aveva nascosto il cadavere, affinché la notizia non si diffondesse e desse coraggio ai nemici, nel 1250.
Pochi sapevano che fu lei a ideare gli stratagemmi che intrappolarono e annientarono gli invasori. Nel giro di un anno restituì l'Egitto ai legittimi proprietari e rimandò Luigi IX in Francia. Ma gli emiri ayyubidi e il califfo siriano abbaside non accettarono di piegarsi al nuovo sultano. Shajar sposò quindi il nuovo sovrano egiziano, Aybak, per la seconda volta, ma continuò a governare il paese da dietro le quinte. Anni dopo, quando si rese conto che il marito le stava sfuggendo, lo fece uccidere mentre faceva il bagno.
I Mamelucchi (un'altra fazione dell'Islam dell'epoca) la protessero, la liberarono dalla prigione e impedirono la sua condanna per omicidio. Ma finì morta, il 28 aprile 1257, per volere del figlio adolescente di Aybak, nel modo più straordinario: con gli zoccoli, picchiata dagli schiavi dell'harem. Il suo corpo nudo fu gettato fuori dalle mura della città. Il suo mausoleo, una piccola perla architettonica, fu abbandonato, ricoperto di erbacce e quasi in rovina negli anni '1990.
C'è molto altro da raccontare, un'infinità di avventure storiche, su queste tre donne che governarono, guidarono militarmente ed istruirono l'Egitto. Qui abbiamo semplicemente dato loro una voce inventata. Lasciamo parlare una certa Hatshepsut, una certa Ipazia fatta a pezzi da monaci cristiani pazzi, e Shajarat picchiata a morte da altre donne. Donne, sottolineiamo.
Hatshepsut
Io, re Hatshepsut, sorella e moglie di Thutmosis II, concepita da Amon, la più amata dei figli di Thutmosis I e Ahmose, di stirpe divina e sangue reale, il cui nome e dominio arrivarono fino alla lontana Etiopia, il cui sigillo e dominio portarono prosperità e pace per ventidue anni sulle rive del Nilo, le cui gesta, tante e magnifiche, sono iscritte sull'obelisco più alto di Karnak, affinché in esso potessero trovare posto i dettagli della mia opulenza, io, il cui tempio funerario fu eretta per far impallidire tutti i palazzi e i templi e i santuari del passato e del futuro, la solare e limpida Deir al-Bahri, un fiore architettonico incastonato nel deserto, ieratico, a me solo simmetrico nello splendore e nella nobiltà.
Io, Maatkare Khnemet-Amon Hatshepsut, incoronato sovrano, signore dell'Alto e del Basso Egitto, il cui nome risuona come una brezza secca, il cui sigillo porta il leone, le cui gesta vanno oltre quelle di qualsiasi generazione, io, re e faraone, re e sovrano , mio re e consorte, io, Hatshepsut-Amun, che indosso le vesti e la barba reale, da qui a Tebe, nel 21° anno della 18° dinastia, scrivo a Senenmut, mio amico, architetto, amante e consigliere, per esaltare lei:
“Il portale di casa sua era aperto.
Mio amato appoggiato ai piedi di tua madre,
fratelli e sorelle lo circondavano.
E quelli che sono passati lungo la strada
erano pieni d'amore per lui,
Giovane perfetto ed unico, di rare virtù.
Posò lo sguardo su di me,
perchè me ne ero accorto.
Quando penso alla persona amata
Il mio cuore è sorpreso
E confonde i miei gesti.
Mi dimentico di vestirmi adeguatamente,
Trascuro i miei fan,
Non mi trucco gli occhi,
Non mi profumo più con profumi tenui.
Oh cuore mio, non espormi a tali dolori.
Perché ti comporti come un pazzo?
Vieni a casa tua, amato.
Non hai nemici.
O bel bambino, vieni alla tua dimora, affinché tu possa vedermi.
Sono tua moglie, colei che ti ama.
Non allontanarti da me, bella adolescente,
Vieni a casa tua adesso.
Il mio cuore ti chiede, i miei occhi ti desiderano.
Ah, che bello vederti, amato.
Alla testata del mio letto
Possa tu dormire, le narici piene di gioia,
E domani presto svegliati con Amon.” [Iv]
Ipazia
Io, Ipazia, figlia di Teone, custode della Biblioteca Alessandrina, figlia dell'Idea e sorella di diverse conoscenze, istruita nelle arti e nelle scienze di Platone, Plotino e Tolomeo, di stirpe greca nello spirito e macedone nel sangue, io, che interrogano il movimento del cielo, del sole e delle stelle e per questo ho inventato l'astrolabio, che pesa la gravità di ogni sostanza liquida e per questo ho inventato l'idrometro, io, astronomo, matematico, geometra, studioso del cosmo e le emanazioni in cui entra il Reale, io, una presenza che è come una calamita e attira folle nelle sale della Biblioteca, sempre più persone che vedono e ascoltano me, io, le cui lezioni serie e serene incantano tutti, ebrei, romani, greci ed egiziani del Delta, io, la cui parola spruzza una medicina che cura le esasperazioni, la cui fama si è diffusa per tutto il Mare Nostrum e ha fatto di Oreste, sindaco della città, il mio ascoltatore prigioniero, il mio allievo più vicino, io, i cui consigli hanno il vigore della persuasione e la forza dell'autorità, io che piego disegni con il soffio della parola e le cui esortazioni sono commoventi e convincenti, io, ultimo rappresentante della filosofia ellenistica, guardo con allarme a un mondo che sta per crollare e d'ora in poi aborrerò la audacia dell'intelletto nell'inchinarsi davanti a un dio geloso ed esclusivista.
Io, Ipazia, da questa nuova Atene, la gigantesca città di Alessandria, nell'anno 415, scrivo a Sinesio, studente fraterno e devoto, che, seppi, fu nominato vescovo della Cirenaica, di tutto il Nord Africa, per calmarlo . Poiché da lui ho ricevuto questa lettera di lamento e di angoscia:
Da Tolemaide ad Alessandria, inizio 413.
“Saluti, benedetta Signora, a te e ai tuoi felicissimi compagni. Da tempo intendo rimproverarti di non scrivermi, non ritenendomi degno di risposta. E se tu, benedetta Signora, e tutti voi, mi disdegnerete, non sarà colpa mia, perché non c'è colpa nell'essere sfortunato come solo un uomo può essere. Ma se solo potessi leggere le tue lettere e sapere come stai (spero di godere della migliore fortuna), mi basterebbe, perché gioirei per te, riducendo così della metà le mie privazioni. Ma ora il tuo silenzio si unisce ai mali che mi affliggono. Ho perso i miei figli, i miei amici e la benevolenza degli altri. Ma la perdita più grande è la mancanza che sento del tuo spirito divino, l’unico bene che speravo mi restasse per aiutarmi a superare i capricci della fortuna e gli inganni del destino.”[V]
Shajarat al-Durra
Sono io, Shajarat al-Durr, che comando migliaia di uomini e centinaia di battaglie, dall'interno di questa tenda dove giace il mio defunto marito. Io, nata schiava e nomade, diventata moglie e serva di Sahli Ayyub, ora usurpo la sua voce e il suo polso e governo attraverso il velo. Per 90 lune decido ogni istante cosa faranno gli inquieti generali, che aspettano, fuori dalla tenda, i miei ordini, che credono siano quelli del mio defunto marito, e per 90 lune in questo trucco accumulo vittoria su vittoria contro gli infedeli , gloria su gloria. E poi mi incoronai Sultano di tutto l'Egitto e regnò senza maschera per altre 80 lune e altrettante battaglie, finché il Califfo di Baghdad e altri emiri mandarono contro di me i loro guerrieri e il loro odio. Ho scelto di non combattere e di non fuggire, ma di sposare il più coraggioso dei miei aguzzini.
Lo feci e diventai la moglie di Aybak, e attraverso lui, attraverso la sua docilità, per molte altre lune ininterrotte governai. Dietro il velo ho continuato a governare attraverso il mio secondo marito, al quale ho nascosto ogni prezioso segreto politico, finché gli intrighi e la sua innata codardia lo hanno contagiato e ha deciso di scacciarmi. Sono andato avanti e l'ho fatto assassinare in tempo. Se prima mi ero servito del cadavere di un marito, poi mi sono servito del desiderio carnale di un altro. Ma si era calmata con la decisione di fare di una seconda moglie la sua preferita. Prima che mi sostituisse a letto e a palazzo, ho simulato la sua morte.
Era sempre stata eccellente nell'arte dell'omicidio e nei suoi sotterfugi. La furia dei miei avversari, tuttavia, guadagnò slancio e seguaci, senza però addormentare alcuni servi fedeli, che mi liberarono dalla prigione e dalle torture e mi condussero ad una torre dove sarei stato protetto, se non fosse stato per l'ira vendicativa. del figlio di Aybak, il ragazzo di 15 anni che ha avuto la meglio sui miei avversari più accaniti ed è riuscito infine a finirmi. Non ha usato spada, pugnale o veleno: mi ha semplicemente consegnato alle donne del suo harem.
Per me, Shajarat al-Durr, l'ultimo grande leader della dinastia ayyubide, il più feroce, sagace e impavido nelle campagne militari, implacabile nell'azione e indifferente alla misericordia, per me, Shagarat ad-Durr, l'“Albero di Perle” , gemello del coraggio e dell'astuzia del curdo Saladino, su di me, che soggiogai i cristiani, persuasi i musulmani e sottomise tanti al mio volere, su di me ricadde l'odio e il rancore delle donne.
Io, l'unica sovrana donna che sia mai esistita nell'Islam, sussurro le mie ultime parole allo schiavo fedele, qui ad al-Qahira, che gli estranei chiamano Il Cairo, pochi minuti prima di essere condotta al banchetto delle concubine.
“Ieri si è creato il delirio di oggi, di questa giornata
e l'indifferenza, il trionfo o la disperazione di domani.
Festeggiamo! Perché non sappiamo da dove veniamo né perché.
Festeggiamo! Perché non sappiamo perché andremo, né dove.
Che cosa! Un pazzo. Niente può provocare il giogo.
È altrettanto sciocco risentirsi dei piaceri goduti sotto il proibizionismo quanto lo è temere la punizione eterna di fronte al dolore che lacera il presente.
I tanti modi per morire
Nel 1458 a.C., tremila anni e mezzo fa, non appena fu incoronato Thutmosis III, suo nipote, Hatshepsut subì una seconda morte. Per ordine del nuovo faraone, per il quale era stata reggente, tutti i segni della sua esistenza, monumenti e iscrizioni che ricordavano il suo predecessore furono distrutti. Alcuni furono demoliti, raschiati e ridotti a frammenti di granito o calcare; altri, adulterati tanto che, nel luogo dove precedentemente appariva la sua immagine, venne scolpita quella di Thutmosis III.
Il movimento dovette essere intenso, poiché gli architetti di Hatshepsut avevano eretto innumerevoli monumenti, naturalmente decorati con l'effigie del sovrano faraone, e la loro soppressione non poteva che richiedere un impegno di distruzione paragonabile a quello di creazione. Oltre a essere scomparso dalla pietra, il faraone Hatshepsut scomparve anche dai papiri e fu cancellato dagli elenchi dei cronisti della storia egiziana (solo uno di essi, Manetone, citato dallo storico ebreo Flavio Giuseppe Flavio, registrò il suo passaggio).
Per gli scribi ufficiali, invece, è sempre stato noto che al regno di Thutmosis I seguì immediatamente quello di Thutmosis III. Hatshepsut Maatkare, colei che si faceva chiamare Re, rimase un fantasma fino all'inizio del XX secolo, quando gli archeologi dell'équipe di Herbert Winlock, del Metropolitan Museum di New York, dissotterrarono accidentalmente, nei pressi di Deir al-Bahri, un considerevole quantità di frammenti di immagini della regina-re, successivamente restaurate e oggi esposte al Metropolitan e nei Musei del Cairo e di Luxor.
Se non fosse per questa felice occasione, Hatshepsut, il più importante sovrano della XVIII dinastia, rimarrebbe ignorato dai posteri. La morte simbolica di un faraone è più grave dell’estinzione fisica – che è solo un passaggio verso una nuova vita, ecco perché le tombe sono piene di manufatti, mobili e gioielli da recuperare al risveglio. L'essenziale era la sopravvivenza sull'altra sponda o nel regno dei morti, ma perché ciò si realizzasse era obbligatorio che vi fossero rappresentazioni, in questa vita, della figura del morto.
Thutmosi III, pur non eliminando fisicamente il suo predecessore, cercò di assicurarle la vera morte, cioè che non raggiungesse mai l'altra sponda del fiume, una volta cancellata dalla memoria della storia e della memoria. Estinguendo il suo passato, abolirebbe il suo destino, assicurandosi di non passare mai attraverso la bilancia di Anubi, che paragona il peso del cuore del defunto a quello di una piuma e decide il suo futuro.
La morte di Ipazia fu un episodio di follia eccezionale anche per gli strani standard del culto del martirio praticato dagli eremiti e dagli asceti del deserto (esicasti) che cercarono la salvezza digiunando e mutando nelle caverne per anni, secondo la "Philokalia"[Vi]. Ipazia fu uccisa a colpi di schegge di conchiglia da una folla di monaci cristiani della Tebaide. La sua testa fu gettata in mare e i pezzi di carne, pelle e ossa furono bruciati. Fu un periodo, lo stesso di Agostino d'Ippona (poi santo, nonostante le sue inclinazioni cripto-protestanti) di travagliata transizione tra il più tollerante cosmopolitismo pagano romano e il cristianesimo ecclesiastico intransigente e risentito.
L'astuto vescovo Cirillo, nella sua ambizione di fagocitare il potere, temeva l'influenza del filosofo sui ricchi e potenti della città, in particolare Oreste, il sindaco. La versione della carneficina di Ipazia adottata da Gibbon,[Vii] è che è stata rimossa con la forza dalla sua lettiga mentre si recava a una delle sue conferenze pubbliche, spogliata nuda, trascinata nella chiesa locale e lì sventrata dai monaci, un'agonia che dovette essere lunga, poiché usavano piccole conchiglie per separare la carne dalle ossa. Allora i monaci la smembrarono (alcuni dicono che gettarono la testa in mare), bruciarono ciò che restava del suo corpo e si recarono da Cirillo per salutarlo come liberatore.
Quanto a Shagarat ad-Durr, le mogli e le concubine dell'harem non persero l'occasione di vendicarsi della favorita del sultano e la picchiarono a morte colpendola con gli zoccoli. Alcuni dicono che il cadavere dell'unica sultana donna dell'Islam fu appeso nel centro del Cairo per servire da cibo per i cani e intrattenimento per la gente. Altri dicono che è stato gettato seminudo, con un tessuto di seta e perle legato alla vita, che è stato poi saccheggiato dai passanti.
Un'altra leggenda, o fatto, è che qualcuno del team dell'archeologo Howard Carter acquistò una scatola di madreperla nel mercato di Khan al Khalili nel 1903 e se ne dimenticò. Anni dopo, suo nipote l'aprì e trovò un sottile rotolo di papiro che descriveva, nell'arabo più squisito, le imprese di questa donna stravagante e potente.
A me, Hatshepsut, non è stata concessa nemmeno una doppietta per oltrepassare l’altra sponda. Millenni di silenzio, fino a riemergere nel deserto. Di me, Ipazia, qualcosa resta impigliato nei coralli del fondo del mare. Di me, sultano Shajarat, il cui epilogo fu servito come pasto ai cani, la storia ha conservato un'effigie su una moneta.
I-Ipazia, chiedo se sono state le stesse mani che hanno smembrato il mio corpo e frantumato i miei libri, I-Shajarat, sospetto che i miei braccialetti siano andati alla concubina più giovane, I-Hatshepsut, sono scampato per un pelo a diventare un frammento di pietra in incognito, I-Shajarat, che piegò l'Islam e il Cristianesimo ai miei desideri, I-Ipazia, che governò una città infiltrandosi nell'intelletto dei suoi uomini, I-Ipazia, la compiacente e saggia, I-Hatshepsut, la magnanima, I-Shajarat, spietata , astuto e davanti al quale tutti tremavano di paura, Io-Noi, amato e temuto in vita, poi gettato nell'oblio, vandalizzato, emarginato, sagome, nebbia, nero splendore: oggi, emergiamo dall'ombra.
*Marilia Pacheco Fiorillo è professore in pensione presso la USP School of Communications and Arts (ECA-USP). Autore, tra gli altri libri, di Kalash amore mio: L'arma famigerata e altre prelibatezze (Gryphus). [https://amzn.to/3qnJWhX]
note:
[I] Questo ibrido di storia e finzione è debitore di alcuni viaggi in Egitto, inizialmente per cercare il Museo Copto del Cairo e indizi tratti dai manoscritti di Nag Hammadi, che contengono il testo più antico del cristianesimo primitivo, il Vangelo di Tommaso. erano previsti pochi isolati e viaggi in furgone o in feluca (la piccola imbarcazione usata dai contadini per navigare nel basso Nilo), visite ripetute a musei, moschee e templi, che scatenavano l'incanto e la successiva lettura e ricerca bibliografica. Senza dimenticare il compianto padre João, di Bragança Paulista, gentile intermediario per il visto episcopale brasiliano affinché potessi accedere a quei documenti riservati della Biblioteca Vaticana che erano chiusi al pubblico.
[Ii] In particolare, Hatshepsout, femme pharaon: biografia mitica. Fawzia Assad, ed Librairie Orientaliste Paul GEUTHNER, prefazione di Michel Butor, 2000; È Hatchepsut il faraone femmina. Joyce Tyldesley, PINGUINO Libri, 1998.
[Iii][iii] Evidenziazione del libro L'eredità di Ipazia: donne nella storia storia delle scienze dall'antichità all'Ottocento. Margaret Alic, ed Riuniti, 1989
[Iv] Collage estratto da Canti d'amore de l'Egypte Ancienne. a cura di La Table Ronde, 1996.
[V] Opera di Sinesio di Cirene, Classici greci, ed. Grazya, Torino: UTET, 1989, greco/italiano
[Vi] La Biblioteca del Monastero di San Pacomio, in Egitto, possiede la più grande e migliore collezione sul cristianesimo ortodosso dei primi cinque secoli, veri e propri tesori. Indice T (voskrese.info)
[Vii] La storia del declino e della caduta dell'Impero Romano, Edward Gibbon, 1776/1789, ed. Strahan e Cadell.
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