Niente è la nostra condizione

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da AIRTON PASCHOA*

Commento a un racconto “politico” di Guimarães Rosa

Le grandi questioni storiche, nazionali, politiche, economiche, sociali, ecc., non sono appannaggio esclusivo del romanzo, né dei cosiddetti scrittori realisti. Contaminano anche le forme brevi e inseguono narratori avversi, in linea di principio, al realismo più terreno, o agli slogan più scottanti dell'epoca. È il caso di un racconto di Guimarães Rosa, da prime storieDi 1962.

Il titolo, “Niente e la nostra condizione”, apparentemente filosofico, esistenzialista, ne indica subito il carattere esemplare; riguarda la condizione umana; solo che questa esemplarità sarà data da un destino rustico quasi cifrato, un destino che dovrà essere interpretato, e che, a differenza di quello di un Riobaldo del Grande Sertão: Veredas, ad esempio, non ce ne offre nemmeno una versione.

Il nostro personaggio, Tio Man'Antônio, parla appena, e quando lo fa, le poche volte che lo fa, tocca la sfinge: “A casa... vado a casa...”; “Fai finta, figlia mia… Fai finta…”; "Fare finta!"; “Non tanto, figlia… Non tanto…” — tali sono le frasi reticenti, laconiche e incomplete, pronunciate sempre con lo stesso tono, come a comporre un discorso essenziale, oracolare.,

Come il suo discorso, i gesti di Zio Man'Antônio sono veramente enigmatici, gesti, peraltro, in apparenza, del tutto irragionevoli, propri, se visti da lontano, di un pazzo ("A volte, spesso, anche i suoi gesti principali omessi: quello di, vieni invece, facendo così si allontanerebbe lentamente da te, qualsiasi cosa”).

“Destinato”, enigmatico, codificato nel suo comportamento e nella sua espressione, questo personaggio che, dal profondo del suo abisso, borbotta Shakespeare, “cose serie, grandi, senza suono né senso”, questo personaggio porta ancora una colpa indefinibile e una vaga speranza , compiendo un vero e proprio rito di purgazione.

un sacco di domande

Alla prima lettura del racconto, e della sua prima parte, soprattutto quella che precede la morte di Tia Liduína, che innesca la metamorfosi del vedovo, accumuliamo domanda dopo domanda:

. una fattoria acquistata alla fine del mondo… perché?

. un uomo “individuale e sfuggente”… perché? ci sarebbe qualcosa da coprire? Si stava nascondendo da qualcosa, lui, il cui passato "cose ​​molto reali nessuno sapeva"?

. una casa padronale infanda (“non la chiamavo quasi mai per nome”), che non dovrebbe essere nominata… perché? perché questo disagio quando ci si entra? perché non si sentiva bene, così bene, così generoso e schierato?

. questa vestizione “in livrea bassa”… perché? saresti l'ultimo uomo di una casata nobile?

. e cosa pensare dei suoi “principali gesti omessi”, allontanando qualcosa di invisibile ma tangibile, che tanto lo infastidiva?

. e il paesaggio, allora? perché contemplarlo così tanto, fino quasi a perderlo di vista?

. perché questa necessità di ammirare il paesaggio sorprendente, i suoi "alti e bassi"?

. perché questo rituale di "speranza ed espiazione", questa salita e discesa senza fine, attraversando "sentieri rocciosi, sull'orlo di scogliere e crepacci - grotte di altezza tremenda (...) abissale, molto profonda", sopportando "aridità, solitudine, caldo e freddo"?

. qual è il motivo — questo è l'intrigo più grande — del purgatorio, visto che l'orografia del suo monte (“Dal balcone, data la giornata limpida, già a distanza di tante leghe lo si vedeva, punteggiando l'aria chiara, in certi tornanti di strada, in avvicinamento e in allontanamento, nemmeno sequenziali") riproduce la montagna a chiocciola del Purgatorio dantesco?

. perché quest'uomo doveva essere, per meglio dire, questo “destinato” che era diventato alla fine del suo viaggio, perché doveva essere, tornando al titolo del racconto, un esempio della “nostra condizione”?

Insomma, siamo di fronte a un racconto dalle pretese esemplari, plasmato in un tono fiabesco e con protagonista una sfinge, personaggio oracolare, quasi sovrumano, che vive per espiare una colpa indefinibile e nutrire una vaga speranza.

Se prestiamo attenzione, però, allo scenario straordinariamente suggestivo che descrive Guimarães Rosa, una casa padronale ai confini del mondo e in cima a una montagna, una casa padronale, da un lato, simbolo del nostro passato coloniale, con tutte il suo peso storico ancora sensibile, e, dall'altro, un paesaggio affascinante e misterioso, un grande sertão magico e “leggendario”,, con tutto il suo fascino soprannaturale, e in mezzo, pressato, un individuo, “indiviso” cioè sfuggente e visionario, che compie un rituale di espiazione e di speranza, comincia a emergere una chiave esplicativa.

In contrasto con il grande sertão, la sua rappresentazione spettrale, in contrasto con la caratterizzazione fiabesca del personaggio stesso ("un uomo di più eccellenza che presenza, che potrebbe essere stato il vecchio re o il giovane principe nelle future fiabe ”), crebbe una grande casa, dipinta con colori quasi realistici: “Cosa - a due piani, profonda, con soffitti alti, lunghi e con tanti corridoi e stanze inutilizzate, profumati di frutta, fiori, pelle, legno, farina di mais fresca e sterco di vacca - era rivolto a nord, tra il limoneto ei recinti, che erano un ornamento; e, nella parte anteriore, una scala in legno di quaranta gradini in due cale che conduceva allo spazio della veranda, dove, da una trave, in un angolo, pendeva ancora il cordone del campanello usato per comandare gli schiavi asserviti.

Una casa padronale così grande, descritta con tanto realismo, al punto che quasi ne sentivamo gli odori inconfondibili, potrebbe ora spiegare i “gesti principali omessi” di Zio Man'Antônio, la sua ripugnanza come a voler allontanare qualcosa; il suo disagio entrandovi; la sua incapacità di nominarla.

La colpa ancestrale, collettiva, che il maniero simboleggia, e il personaggio incarna, chiarisce anche il purgatorio, il rito che compie, di “espiazione e speranza”, mosso da un oscuro anelito di salvezza; la casa padronale spiegava così perché si rivolgesse anche al paesaggio, al grande sertão, cercando di trascendere la sua condizione storica di patriarca, che aveva cominciato a negare con la sua uniforme di “livrea bassa”.

La casa padronale, che sintomaticamente sarebbe scomparsa solo con l'incendio, con il personaggio stesso, questa casa padronale nella “difficilissima fattoria del Torto-Alto” ​​riusciva a spiegare anche la conformazione fisica di Zio Man'Antônio, la sua somiglianza così profondo con lei, alta e storta come lei, e il suo disagio, lui che si chinava tutto, come se fosse troppo alto, quando entrava nel cupo solare ("Ma, ogni volta, si chinava, in un certo senso, per entrare, come se l'alta porta fosse timida e aliena, invitata, a buoni ripari").

Stabilito il senso di colpa, stabilito il contrasto tra la grande casa e il grande entroterra, il contrasto tra la storia e l'anelito a trascenderla, riusciamo a comprendere il senso del “piano sordo”, dell'“enorme, fatta fantasia”. .

Il progetto, che capovolge la vita del personaggio, inizia nella seconda parte del racconto, quella che dà inizio alla narrazione stessa, e che possiamo chiamare il favoloso regno della finzione.

Passiamo ora ad una parafrasi interpretativa, in linea con la nostra ipotesi iniziale, che attribuisce alla casa padronale, quale simbolo del nostro tutt'altro che roseo passato coloniale, la causa del malessere della sfinge e sfuggente patriarca, e che vede in il grande sertão, paesaggio di vocazione metafisica, possibilità di trascendenza, speranza di salvezza.

Prima di questo è d'obbligo una piccola digressione, dovuta alla parentela tematica tra la storia che stiamo ora interpretando e la telenovela che ne fa partequeste storie, del 1969, una deliziosa saga sull'orgoglio, scritta nel 1964 su richiesta di José Olympio per far parte del libro I sette peccati capitali.

In “Passenger Hats”, titolo della saga, identifichiamo anche un malessere generale. In esso, però, è indiscutibile l'origine del disagio del tormentato bambino di quattrocento anni che narra la storia, Nestorzinho Leôncio Aquidabã Pereira Serapiães Dandrade, e che lotta per allontanare la sua amata, Drininha, dall'orgogliosa stirpe incarnato da Vovô Barão, un uomo «irreparabile, tale è la sua torsione», un uomo che «sembrava essere — la montagna indeclinabile»: il peso o la maledizione del sangue. È orgoglio come cimelio di famiglia e allo stesso tempo classe, patrimonio storico.

l'imperativo estetico

Così, se nella prima parte del racconto vediamo un contadino, dal passato incerto e con una certa “tenzione” (“Vivia, fez tention”), condurre la sua vita su e giù, quotidianamente e con fervore, una montagna, a volte dirigendosi al villaggio vicino, a volte alla grande casa in cima alla collina, umilmente montata su un umile asinello, (dopo l'agnello e la colomba, il più cristiano degli animali) con un vago senso di colpa e una vaga speranza di salvezza , e quasi perdendo di vista, letteralmente, contemplando e interrogando il paesaggio fiabesco di “bassi e cime” e le sue “insidiose salite e discese”, se in questa parte, dunque, di bussola d'attesa, di sintesi di preoccupazioni, noi sentire che qualcosa sta per accadere (è la “speranza”) e qualcosa si epura (è l'“espiazione”), che riassumiamo nell'idea di rito, — nella seconda parte un evento inatteso innesca una rivoluzione nella vita del personaggio.,

Sua moglie, Tia Liduína, muore e Tio Man'Antônio va contro le aspettative delle sue figlie; “incongruo”, pratica il lutto aperto, aprendo la casa di stanza in stanza; in una sorta di epifania del tempo, che ora si presenta, contemplando il paesaggio, non più “segmentato”, “seriale”, ma in un sol colpo, “nello scorcio”, cogliendolo di spalle, dall'interno verso l'esterno , — si ridefinisce “indistruttibile”, facendo a meno di passato e futuro.

Infatti, aprendo subito la casa padronale, ampia, come se fosse una specie di bara, angusta e opprimente, il personaggio rinasce, si trasforma, diventa “un'altra persona gentile, decorosa”, metamorfosi fisica e morale, alla punto di rassomigliargli quasi al paesaggio montuoso, alla montagna sormontata dal cielo, i “sottili (...) grigio scuro (...) gli occhi celesti”.

Consolando le sue figlie, rispondendo a una di loro, Felícia (“Padre, la vita è fatta di insidiosi alti e bassi? Non ci sarà per noi un tempo di felicità, di vera sicurezza?”), Zio Man'Antônio raggiunge il suo motto massimo: “Fingi, figlia mia… Fingi…”

Questo ritrovamento diventerà, di default, un passo capitale nella storia, un vero e proprio progetto, il “piano sordo” che guiderà l'intera condotta del protagonista: “Al contrario, però, Zio Man'Antônio ha concepito. - 'Fare finta!' ordinò subito, docilmente. Un progetto, da credere e da realizzare, ha sollevato. Uno, che è iniziato. 'Fare finta!'"

Che progetto è questo?

Che rivoluzione sarà?

Possiamo dire che, nella glossa kantiana, siamo di fronte a un imperativo estetico, ma un imperativo estetico che, pur cercando di universalizzarsi, nell'azione, nell'opera, (non dimentichiamo l'ambizione esemplare del racconto) non cessa di essere, in ultima istanza, etico.

La finzione, quell'imperativo estetico che governa il mondo della carochinha, che è, insomma, il fondamento ultimo del mondo della finzione, è la risposta di Rosa al peso della storia, alla nostra storicità, alla nostra precarietà, alla caducità delle cose, la risposta finalmente alla “nostra condizione”.

L'imperativo estetico (ed etico), "Fingi!" lusso fiat del mondo della creazione, irrompendo come il lusso fiat della creazione di un mondo nuovo, reinterpreterà anche il significato di “nulla”.Tutto accade come se la mancanza dell'articolo determinativo nel titolo – “Nulla e la nostra condizione”- stesse già indicando che, invece di un punto, il nulla, con tale indefinibilità, va visto soprattutto come punto di partenza, come punto di partenza indefinito, ma inevitabile per chiunque voglia trascendere la propria condizione.

Si tratta quindi di una reinterpretazione positiva del nulla. È come se l'iniziale mancanza di definizione, più che una battuta sull'impossibilità logica e ontologica di definire il nulla, significasse, in realtà, la precedente condizione di trascendenza.

Brandendo tale bandiera della creazione, Tio Man'Antônio si mette all'opera, iniziando la sua lunga e paradossale curva di vita, una storia di semplicità e magnificenza, di smaterializzazione e spiritualizzazione assoluta (“di trasparenza in trasparenza”), e che si concluderà in un una sorta di consacrazione del fuoco, una storia di semplicità e grandiosità, che assimila la superba montagna e culmina nella fondazione del mito.

Dopo essersi già spogliato del dolore del lutto, con la frase liberatoria (“Far credere…”), comincia, prima, spogliandosi del paesaggio, “smantellando l'apparenza del luogo”, smantellando la realtà fisica della regione, spianando su campi e pianure le “rampe di montagna”.

La sua “sordità piatta” è poi venuta alla luce, consumando “un'enorme fantasia fatta”.

Spogliato del paesaggio, Tio Man'Antônio si spoglia delle sue figlie, mentre celebra festosamente, organizzando una festa per sposarle, il primo anno dalla morte della moglie.

Spogliarsi ma crescere ai nostri occhi, prosperare ma continuare a lavorare, pregare e lavorare, - fingendo, nelle sue parole, di aver così raggiunto l'apogeo del favoloso regno della finzione.

la riforma sociale

In questa terza parte del racconto si radicalizza lo spogliamento del personaggio, il cui “gesto più consueto era come se lasciasse andare tutto, qualsiasi oggetto”. Prospero, all'apice della prosperità, “tutto era però sottovalutato per lo zio Man'Antônio”.

Le “fragilità umane” facevano pensare a una “giustizia maggiore”. In senso figurato, era come se il contadino ora si rivolgesse alle umili pianure, dopo tanto tempo si rivolgeva alla superba montagna, "alta - come risultato di nessun atto".

Con un occhio alle sproporzioni sociali, il protagonista si spoglia delle sue ricchezze, inviandole alle figlie e ai generi in città, si spoglia delle sue terre, donandole ai servi, insieme al suo famoso motto, compiendo una silenziosa storia agraria riformatrice, la “storia tanto alterata”.

Se, con il “piano sordo” della seconda parte del racconto, seguiamo la nascita dell'imperativo estetico e la sua trasformazione in opera, in comandamento etico, ora, con la riforma agraria, assistiamo alla conversione dello stesso principi in un principio politico, di organizzazione della società.

In altre parole, dopo aver ridefinito il paesaggio fisico, dopo la propria ridefinizione fisica e morale, Zio Man'Antônio ha approfondito il suo progetto, ridefinendo il paesaggio umano e sociale.

Spogliato di tutto e di tutti, insomma, ad eccezione della casa padronale, dove si governava il lavoro degli ex servi della gleba, perché anche loro potessero prosperare, ma ancora odiati “da millenni e bestialmente”, perché “sempre maestà ”, iniziò a ritirarsi e calmarsi. , cessando di interrogare il paesaggio, “adattandosi al vuoto e alla riimportanza”, alla dolce morte del giusto, “come se un filo fosse stato infilato nella cruna di un ago”.

nascita del mito

In quest'ultima parte del racconto, con la morte dello zio Man'Antônio, veniamo a conoscenza dell'ultima clausola del contratto che trattava con i servi, “le parti obbligate di un testo, senza decifrazione”: il “rosso sarà ”, — che corona il paradossale movimento di distacco e grandezza, innescato dal “Fatti valere!”, l'imperativo del mondo del creato ma capace di creare un mondo nuovo, quell'imperativo estetico che nasce per negare l'ordine storico della casa padronale, della “nostra condizione”, e affermare il soprannaturale, metafisico, redentore, carattere storico, dal grande sertão.

Il corpo e la casa vengono dati alle fiamme, provocando un falò così monumentale che era come se la montagna stessa, “così vanitosa e canaglia”, ardesse “splendidamente”.

Scomparsa la trinità personaggio/grande casa/montagna, consumata nel fuoco purificatore, Zio Man'Antônio si ritrova consacrato, convertito in “Destinato”, elevato com'era, ma per opera personale, “alto” allora ma reso “le conseguenze di mille atti”.

Dopo aver fatto finta di non avere niente, spogliato di tutto, ha fatto finta di non essere niente, spogliandosi del proprio bottino. Fingendo di non essere nulla, ha finalmente raggiunto l'Essere, sacrificato, consacrato.Zio Man'Antônio ha raggiunto lo status di mito.

Qui occorre aprire una parentesi.

Il paesaggio, fisico e metafisico, del racconto, come figurazione della vita, non è rigidamente fissato in un'unica direzione, non è facilmente allegorizzabile, diciamo. Più vicino al simbolo, il grande-sertão, punta più o meno in tre direzioni: 1) a volte punta alla vita pericolosa, con i suoi “bassi e picchi”, i suoi “alti e bassi infidi”; 2) a volte indica la vita ordinaria, con le sue sproporzioni apparentemente naturali tra le umili secche e le superbe montagne, “come conseguenze di nessun atto”; 3) e ora indica la vita vera, con il suo esempio alto, “su ali”, sempre minacciando di ascendere, trascendere, “scomparire”.

Tale mobilità di significati, tale tratto simbolico del paesaggio, che accompagna lo sviluppo del personaggio, la sua storia di semplicità e grandezza, è presente anche nelle diverse rappresentazioni della casa padronale. Possiamo dire che supporta quattro cambi di facciata, ciascuno dei quali corrisponde a ciascuna parte della storia.

Così abbiamo: 1) la casa padronale sorprendentemente reale del rituale di espiazione e speranza; 2) il castello “sospeso nel pervio”, nel favoloso regno della finzione; 3) il maniero freyriano, aperto e terrazzato, una specie di isola o faro “da cui il mondo si faceva più grande”, e quando rimuginava sulla riforma agraria nelle sue terre; e 4), con la morte del contadino, nel “Red Willow”, il maniero sorprendentemente stupefacente, o semplicemente House, l'ultimo indirizzo, scritto due volte alla fine, in maiuscolo e mistero.

idealismo rosano

Interpretazione di “Desenredo”, di Tutamia (1967), in cui Jó Joaquim dipana la storia della sua volubile amata, volubile anche nel nome, che non si attacca, Livíria, Rivília o Irlívia, in cui Jó Joaquim “ha creato una realtà nuova, trasformata, superiore”, Davi Arrigucci Jr. (1993) individua “l'idealismo rosiano”.,

Jó Joaquim, contro l'evidenza dei fatti, contro la realtà oggettiva, lui, che era stato ingannato due volte da lei, rifà la vita della sua amata, cancellando i suoi adulteri, purificandola interamente, creando una nuova realtà, e in cui tutti arrivano a credere , le persone, se stesso e persino la donna stessa.

Il paradosso è che la nuova storia funziona, a differenza della storia, che di solito va male... Contro la mimesi realistica, è come se Rosa postulasse la verità dell'immaginazione, la verità poetica, per la quale, aristotelicamente, l'inverosimile, perché credibile, raggiunge lo stato di vero.

Allo stesso modo, con il suo imperativo estetico, Tio Man'Antônio crea un'altra realtà, una “fantasia enorme, fatta”. Dall'inizio della finzione, dalla sfera dell'estetica, vediamo, a poco a poco, la nascita di un ordine completamente nuovo, morale, sociale, politico, economico, che si dipana, come Jó Joaquim, una trama storica opprimente, "radicata in profondità" nella storia del paese, trascendendola infine attraverso l'immaginazione creativa, attraverso la verità della poesia.

materialismo rosiano

Sappiamo che la grande letteratura problematizza, ma ovviamente non risolve. Per questo, non prendiamo il destino generoso di zio Man'Antônio, trascendente, come una prescrizione politica. Lo scrittore non era ingenuo, e d'altronde era nota la sua indole apolitica, la sua apartitismo, meglio dire, per convinzione e per posizione, come dimostra la celebre intervista a Günter Lorenz del 1965.,

Mai si sarebbe aspettato da lui alcun pronunciamento in difesa di alcuna causa. Non avrei parlato delle Leghe contadine del suo tempo, liquidate poi solo dal golpe militare del 64, né avrei parlato del nostro Movimento dei senza terra. Ma la sua responsabilità di scrittore, il suo impegno per il destino umano, e soprattutto la sua essenziale solidarietà con i poveri, con gli oppressi, con la sua visione mitica del mondo, diciamo, per non allungare troppo la storia, non lo lasciarono ignari delle tremende ingiustizie sociali che ci soffocano.

Tale essenziale solidarietà non si traduce, però, solo in adesione alla prospettiva degli umili; è anche, e soprattutto, tradotto sul piano letterario stesso. Contrariamente a Graciliano, per recuperare la feconda opposizione di Alfredo Bosi, la sua antimimesi dell'aridità, con la sua esuberanza stilistica, il suo straripamento poetico, la sua abbondanza di invenzioni linguistiche, anche mimiche, e mimiche, curiosamente e paradossalmente, un'utopia, un originale discorso che non è mai esistito, ma esisterebbe potenzialmente nell'uomo. Ecco cosa imita veramente la loro letteratura.

Potreste obiettare che questa è invenzione, pura invenzione, e non mimesi, quindi... Ma quale invenzione è questa in cui si riconosce un'umanità più alta e più profonda? Il discorso originale, quello Grande Sertão: sentieri costituisce una massima massima, non manca di imitare, perché la potenzia, un'umanità che lo scrittore riconosce in germe, in uno stato di preistoria.

Sconcerta e fa meditare sempre di più sull'inesauribile ricchezza poetica, che ha scavato questa straordinaria letteratura in un ambiente umano e naturale così arido e miserabile. Oltre a dare voce a chi non ce l'ha,,la poetizzazione, in senso alto, del grande sertão, di un mondo favoloso noto per essere condannato a perire nelle mani del progresso, lascia intravedere la posizione sociale della sua prosa.

In altre parole, è necessario prendere sul serio oggi, in questi tempi di progresso per il progresso, sempre più polverosi e apocalittici, il suo rapporto politico con il linguaggio. Il “reazionario” della lingua, come lui stesso si definiva, vedeva già pericolose affinità tra i padroni del progresso e i loro oppositori, i progressisti.Lo scrittore ci insegna che, prima che il sertão diventasse il mare, toccava trasformarlo in ciò che lo era, perché poteva essere, un mare di poesia.,

*Airton Paschoa è uno scrittore, autore, tra gli altri libri, di la vita dei pinguini (Nanchino, 2014)

Pubblicato in Revisione USP n.º 47, Set/Ott/Nov/2000, dal titolo “Casa-grande & grande-sertão in un racconto di Guimarães Rosa (saggio interpretativo)”

note:


, I corsivi sono tutti dell'originale.

, Approfitto qui dell'osservazione di Antonio Candido sul “grande principio generale di reversibilità” che informa la Grande Sertão: Veredas, responsabile delle “varie ambiguità” del libro, “ambiguità della geografia, che scivola nel leggendario”; di tipi sociali, cavalieri e banditi; affettivo, tra Otacília, Nhorinhá e Diadorim; metafisica, tra Dio e il Diavolo, e ambiguità stilistica, la “grande matrice”, popolare ed erudita, arcaica e moderna, ecc. (“L'uomo degli opposti”, Tese e antitese, San Paolo, Ed. Nacional, 1978, 3a ed., p. 134-5).

, La morte improvvisa della donna partecipa, secondo Alfredo Bosi (1988), a quell'“universo semantico dell''improvviso'”, così vitale per i personaggi di Rosa nel prime storie, facendoli passare dal regno della necessità al regno della libertà. Nel poetico detto del critico: “Nel grigio, l'evento. L'epifania” (“Paradiso, inferno”, Paradiso Inferno. San Paolo, Attica, 1988, p. 24).

, Per avere un'idea delle molteplici risonanze simboliche del grande-sertão nell'universo di Rosiano, vedi l'interpretazione mozzafiato di Davi Arrigucci Jr. del capolavoro dello scrittore ("Il mondo misto — romanticismo ed esperienza a Guimarães Rosa", Nuovi studi Cebrap, n.40, novembre/94).

, “Metodi e tecniche di analisi e interpretazione dell'opera letteraria”, corso di perfezionamento presso FFLCH/USP, 1° sem/93.

, “Letteratura e vita – un dialogo tra Günter W. Lorenz e João Guimarães Rosa” (Arte in rivista n.º 2, San Paolo, Kairós, 1979).

, Per una comprensione formale del lirismo in Rosa, vedi Roberto Schwarz (“Grande Sertao: discorso", La sirena e il sospettoso, San Paolo, Paz e Terra, 2a ed., 1981).

, Si veda, sempre sulla famosa intervista al traduttore tedesco, il commento stimolante di João Adolfo Hansen, “L'immaginazione del paradosso” (Arte in rivista n.º 2, San Paolo, Kairós, 1979).

 

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