da RUBENS RUSSOMANNO RICCIARDI*
I generi dell’industria culturale non sono arte popolare e funzionano come feticcio della colonizzazione come ideologia di dominio
Come si suol dire, nella dittatura dell'opinione pubblica la cultura è sempre buona; il suo significato, positivo. Ma lo è davvero? Dicono addirittura che la cultura è inclusiva, anche se appartenere a un’identità delimitata può portare alla segregazione. E sono i politici che definiscono, ad esempio, la portata di ciò che intendono come cultura brasiliana – anche se si tratta, invariabilmente, di un’idea di secondo ordine.
Inoltre, oggi, a causa della forza del colonialismo neoliberista, i generi dell’industria culturale yankee-americana sono ufficialmente brasiliani: il hip hopo fifao vangelo e nazione (i cosiddetti campagnoli universitari, che non sono né contadini né studenti universitari), tra gli altri, già ricevono sussidi pubblici dal Ministero della Cultura. Allora ci chiediamo: è tutto chiaro come la luce del giorno o ci stiamo lasciando sedurre dalle ideologie della cultura? Ora, se sviluppiamo il pensiero critico, non è possibile problematizzare la cultura attraverso un processo epistemologico più ingegnoso?
Nonostante la sua sterilità, anche rispetto ai bilanci pubblici, la cultura si afferma come una politica ufficiale imposta dall’Unione, che coinvolge anche Stati e comuni. Chiediamo inoltre, chiaramente in pieno giorno – come è prevedibile – se la politica culturale agisce a favore delle compagnie di teatro e di danza, delle gallerie d'arte, dei teatri e degli altri spazi fisici adatti all'arte, delle orchestre e delle compagnie d'opera, delle scuole d'arte per bambini, dei progetti sociali coinvolge le arti e il patrimonio storico-architettonico è conservato con dignità? Giusto? Sbagliato! – nulla di tutto ciò appare nella politica culturale brasiliana.
Tale democratizzazione della cultura si riduce, secondo la logica neoliberista, a mega spettacoli pirotecnologico – e il resto cadrà in rovina. Esiste addirittura un Sistema Culturale Nazionale – sì, l’inferno è pieno di buone intenzioni – come se il SUS, che è essenziale e della massima importanza, meritasse un’analogia così a buon mercato e opportunistica.
Le segreterie e il ministero della cultura – e la stessa logica appare anche nelle estensioni alienate dei presidi della cultura nelle università – promuovono innanzitutto la spettacolo e ancora in gran parte di origine yankee-americana. Pertanto, nella politica della cultura – sempre con costi socializzati e profitti privatizzati – c’è, in Brasile, meno voce propria (emancipazione critica) e più subordinazione coloniale (esternalizzazione del pensiero e, come quasi tutte le esternalizzazioni, precarietà). E tutto questo senza arte né filosofia.
Chiariamo chiaramente che la nostra critica è contro lo Stato, che è antagonista alle arti e impone una cultura ufficiale, ma non si deve concludere che siamo a favore della privatizzazione o dell'assenza dello Stato. Oggi lo Stato, grande promotore delle arti, attraverso le istituzioni pubbliche – come università, fondazioni estrinseche al settore culturale ed enti stabili – è l’unico in grado di fornire alternative all’industria culturale neoliberista. Il nostro problema è che il cosiddetto settore culturale (politica culturale) non è adatto alla cura o alla gestione delle arti e ancor meno è in grado di promuovere il pensiero critico.
Più precisamente, la situazione è imbarazzante: i politici culturali – generalmente politici sponsorizzati senza meriti intellettuali – sono gerarchicamente al di sopra degli artisti. In questo modo la mancanza di talento governa il talento – un’inversione di valori forse impensabile in altri ambiti del sapere. Nel caso dei politici culturali, invece, è quasi sempre così: l’ignorante, rivestito di autorità, diventa crudele.
E a proposito di crudeltà, la politica della cultura risale alla Camera della Cultura del Terzo Reich (Reichskulturkammer) di Adolf Hitler e del Ministero della Cultura Popolare (Ministero della Cultura Popolare) di Benito Mussolini. Fu proprio il nazifascismo a consacrare al suo culmine il neologismo illuminista della cultura: la cultura convertita in una nuova razionalità – cultura e propaganda ideologica (strategia di dominio) diventarono due cose insieme. Abbiamo un’altra realtà oggi? Peggio che no.
Ricordiamo quello che tutti dimenticano: prima dell'Illuminismo non esisteva cultura al di fuori dell'agricoltura. La cultura, fin dai tempi dei romani, era solo agricoltura – anche in metafora. Ecco che è emersa la coltivazione, oltre che delle zucchine, anche delle menti – menti mai emancipate. Da allora la cultura non si limitò più a piantare patate o ad allevare bestiame: divenne, da un giorno all’altro, la manifestazione dell’intelletto umano. Con il suo nuovo significato a partire dal XVIII secolo – anche se in Brasile questo significato è arrivato tardi – il neologismo della cultura ha invaso gran parte dei campi artistici, anche quelli più fruttuosi.
Con la forza della metafora, sempre ferma nelle sue buone intenzioni, si trattava anche di fecondare le menti affinché fossero altrettanto fertili. Da lì sono nate e cresciute le identità culturali e si sono forgiate le rispettive strategie comunicative. Siamo passati dall'allevamento dei suini alla cosiddetta cultura alta: dalla stalla alla raccolta estetica dell'affinamento culturale; uccidere buoi o comporre opere d’arte: tutto è cultura.
Ma solo il spettacolo è una priorità nel bilancio pubblico per la cultura in Brasile. Oggi, attraverso altoparlanti sempre più rumorosi, si celebra l’ideologia neoliberista con massicci agglomerati di pirotecnologia all’aperto o, peggio ancora, nella sua versione falso con il mostrare attraverso le sue creazionicerto – quando le orchestre rinunciano per tempo all’arte del suono e si riducono alla condizione (estrinseca alla loro natura) di apparato culturale.
Nel culturalismo, non con raro cinismo, si dice che tutto è importante e che tutto è cultura. Ma dietro la presunta inclusione c’è della demagogia. Le arti (e anche la filosofia), anche se sottoposte arbitrariamente alla definizione di meri beni culturali, non vengono prese in considerazione dalla politica culturale. Incongruamente, ad esempio, le arti sono incluse nella definizione di cultura ma escluse dal bilancio. Non c’è violenza più grande, infatti, che includere le arti tra i beni culturali: l’attesa dell’arte come bene culturale corrisponde all’attesa di un pesce fuor d’acqua.
I culturalisti sono pessimi in teoria: danno la stessa portata concettuale a fenomeni essenzialmente distinti. Pertanto, riassunto in una frase, il concetto sopra menzionato va bene tutto: nell’universo della cultura, il centro è ovunque – e così appare nell’ambiente metafisico dell’Orologio Centrale in Campus da Butantã all'USP:
Questa frase, ormai cliché, non sarebbe cinica se fosse detta così: la cultura ideologica dei centri di New York e Los Angeles è ovunque. Ma nonostante la sua incongruenza, la frase originale è stata reiterata nei nostri ambienti dell’USP – indipendentemente dal fatto che sia stata coniata da Miguel Reale, un attivista politico di estrema destra e nemico della democrazia.
I brasiliani, del resto, non possono essere così negligenti riguardo ai fatti storici o così pessimi di memoria: Miguel Reale, decano dell'USP in due mandati (1949-1950 e 1969-1973), è stato il “principale giurista organico” (secondo Rodrigo Jurucê Mattos Gonçalves) del regime totalitario instaurato dal colpo di stato militare-borghese del 1964. Prova di ciò è la sua parecer del 12 settembre 1964, con la quale Miguel Reale ordinò il licenziamento dei dipendenti pubblici a tempo indeterminato, provvedimento che tanto disonorò la stessa USP. Un altro fatto inconfutabile della tua brutalità è il tuo rapporto Rivoluzione e normalità costituzionale, del 1966, attraverso il quale Miguel Reale cercò la legittimazione giuridica della dittatura – nonostante le torture e gli omicidi.
Già in qualità di rettore dell'USP, Miguel Reale, nel 1972, concepì, installò e coordinò il nefasto Special Security and Information Advisory (AESI), un organo di repressione che sarebbe stato estinto solo nel 1982. Quanti professori, studenti e dipendenti dell'USP non Sono stati denunciati agli agenti della dittatura dall'AESI di Miguel Reale? – un’infiltrazione illegale della Rettoria nelle comunità uspiane finalizzata esclusivamente alla persecuzione politica. Ecco, tra le vittime della dittatura, circa il 10% erano uspiani.
Ci chiediamo quindi se dovremmo assimilare passivamente il culturalismo reazionario di Miguel Reale, concordando con lo sciovinismo vertiginoso contenuto nella frase dell’USP Clock, secondo cui “nell’universo della cultura il centro è ovunque” – dove anche una nozione alienata di periferia è giustificata – o dovremmo ci chiediamo, inizialmente, se la politica della cultura sia effettivamente un universo? Non è piuttosto un esempio ideologico?
Intendiamo il suddetto concetto di ideologia nel suo forte significato filosofico, con il suo significato critico e negativo, come un'astrazione fuorviante della storia o una distorsione politica della conoscenza, quando una falsa autorità, attraverso una falsa coscienza, cerca di mettere in sicurezza gli apparati di potere. L’ideologia, quindi, ha a che fare con l’egemonia politico-economica e culturale della classe dominante – e non con le lotte della classe dominata per la propria emancipazione né con i linguaggi critico-inventivi delle arti.
Con il neoliberismo non solo cultura, controcultura e industria culturale sono diventate una cosa sola, ma l’abisso che le separa dalle arti è sempre più accentuato. La politica della cultura ostile alle arti è sempre più normalizzata: nelle ideologie culturali, infatti, l’arte non è mai al centro. In effetti, non si trova da nessuna parte.
È allora necessario, proprio come nel significato forte di ideologia, anche concettualizzare criticamente e negativamente il concetto di cultura, poiché il suo significato è andato da tempo oltre la sua antica origine agricola. Secondo poiesis critica, la nostra nuova epistemologia legata alla linea di ricerca della critica culturale, le dimensioni della cultura sono limitate al costume, all'abitudine, alla vita quotidiana, alle norme, alle regole, alla ripetizione non critica, ai modelli e alle forme di comunicazione o retoriche, arbitrarie o manipolate, compresa la logica dei sistemi.
In questo senso forte possiamo ancora concepire una prospettiva costruttiva per la cultura. La cultura sarebbe una prima natura – dalla quale dobbiamo liberarci per sperimentare una seconda natura, se abbiamo in mente l’esistenza nella sua pienezza. L’essere umano ha questa prima natura (appartenenza): la sua lingua materna, le sue abitudini sociali e alimentari, la sua religione, la sua squadra di calcio o il suo sport preferito, il suo profilo di consumo, ecc.
Secondo Eraclito di Efeso, invece, la mente umana contempla linguaggi e intelligenze (loghi) che si accrescono, da qui il potenziale di una seconda natura (distanza critica): emancipazione intellettuale, spezie del linguaggio e trascendenza inventiva (superamento dei confini epistemologici). Le scienze naturali, le arti e la filosofia sono possibili solo in questa seconda natura. Ecco perché è necessaria una distanza critica dall'appartenenza, in un processo dialettico fruttuoso.
È importante, quindi, comprendere le arti – questione di linguaggio e non di comunicazione – in un ambiente epistemologico diverso: la condizione trascendente delle arti, della filosofia e delle scienze naturali (seconda natura) in rapporto alla cultura (prima natura). Pensiamo qui al significato precristiano e romano di trascendere, cioè di trasformazione: pensata come approssimazione della distanza – quando leviamo le ancore dal porto sicuro e navighiamo in alto mare.
In questo contesto unico di significato romano, la trascendenza (qui intesa come realtà critico-poetica libera dai vincoli restrittivi della cultura) non ha nulla a che fare con l'aspetto mistico, spirituale, religioso o metafisico. La trascendenza (nel senso originario romano e non in quello tardo cristiano) fu dimenticata insieme all'oblio poiesis ovvero la poetica di tutte le arti: il processo critico-inventivo nell'elaborazione dell'opera del linguaggio. Per il poiesis critica, tuttavia, è proprio la trascendenza poetica che separa l'arte dalla cultura.
Anche in poiesis critico, non lavoriamo nemmeno con la patetica metafisica della cultura alta e bassa. Comprendiamo che le arti e le arti popolari – entrambe estrinseche alle ideologie culturali – non rientrano in queste definizioni culturaliste riduttive e persino pregiudiziali. Le arti e le arti popolari non hanno mai formato blocchi monolitici insormontabili, poiché la libertà artistica dipende dalla molteplicità delle iniziative di ciascun artista o gruppo di artisti – che non devono essere confuse con la politica della cultura o la strategia della cultura. Marketing della cultura [industria].
Inoltre, per quanto riguarda il poiesis, non consideriamo mai se è alto o basso. Pensiamo piuttosto al suo svelamento come linguaggio e alla sua singolarità. L’arte, quindi, fonda la storia e inaugura ciò che resta. Se la cultura (prima natura) è datata e condannata all'obsolescenza, a sua volta, in modo diverso, solo nell'arte (seconda natura), in cui il poiesis con il suo fruttuoso potenziale trasformativo, c'è una fusione di orizzonti tra il vecchio e il nuovo, il classico e lo sperimentale, il regionale e il cosmopolita: il luogo della parola (luogo dicendi) dell'artista è l'intero universo e la storia delle arti è la storia delle appropriazioni culturali. Anche per questo il mondo della vita (ambiente di vita, concetto di Heinrich Heine) non si limita mai alla cultura.
A sua volta, il poiesis l'arte costituisce relazioni nel mondo della vita, sia con mimesi (rappresentazioni simbolico-inventive) e con distanza critica (la resistenza delle arti contro i domini ideologici), oltre alle astrazioni più innovative, la cui radicalità – come elaborazione del linguaggio – la cultura, invariabilmente rassegnata, non potrà mai raggiungere. Pertanto, è la cultura a soccombere all’ideologia, non la grande arte.
Inoltre, se la cultura è ordinaria e l’arte è straordinaria, è importante ripensare la rigidità antiartistica della cultura – così ben definita da Jean-Luc Godard: la cultura è la regola, l’arte l’eccezione… La regola vuole la morte dell’eccezione . In una parola, la cultura non protegge, ma soffoca l’arte.
Come direbbe Martin Heidegger, la libertà di Dasein (la realtà o presenza umana, l’essere umano nella sua integrità esistenziale) va oltre la norma culturale, perché la libertà della cultura è comoda, perfino pigra. Quando si è bloccati in uno stato culturale, la libertà è già perduta.
Queste tesi sono corroborate da Theodor W. Adorno, perché poiché la coscienza della classe dominante coincide con l'andamento generale della società, la tensione tra cultura e kitsch. Oltre a ciò, ora lo affermiamo con il neoliberismo, la cultura e kitsch sono diventati uno. O kitsch predomina dall'AI alle vicende delle segreterie e dei presidi dell'industria culturale; dall'ideologia della pseudoperiferia propagata dall'identitarismo agli ideologi filanti, il tutto in sintonia con la mentalità borghese e legato alla pubblicità delle banche, dei cellulari, dei deodoranti e della birra falsi –anche se c’è anche propaganda da parte di alcuni whisky scozzese legittimo.
E confluente con Martin Heidegger e Theodor Adorno, possiamo citare anche il concetto di invasione culturale di Paulo Freire: le masse popolari vengono oppresse per conquistare l'oppressore, attraverso una propaganda ben organizzata, i cui veicoli sono sempre i cosiddetti mezzi di comunicazione con le masse (non critichiamo i mezzi in sé, ma l’uso che viene loro dato) – come se la reiterazione ad nauseam questo contenuto straniante l'ha già resa un'arte popolare e non quello che realmente è: una comunicazione strumentalizzata.
Il trionfo della cultura avviene come sistema ideologico di comunicazione e anche di comportamento (regola morale come dottrina di massa). Ciascuno nel proprio tempo, Joseph Goebbels e Miguel Reale, entrambi rinomati nei loro paesi come grandi filosofi della cultura, sostenevano la cultura come comunicazione politicamente strumentalizzata: entrambi sapevano, con precisione, come separare ciò che doveva essere culturalmente assimilato e ciò che doveva essere omesso o mai divulgato. In entrambi i casi, dietro le quinte della presunta erudizione, si nascondevano i crimini.
Nei nostri tempi neoliberisti ancora oscuri, le stesse false rappresentazioni prevalgono non solo nelle questioni di economia politica, ma anche nell’epistemologia dei linguaggi. I culturalisti continuano a confondere arte e cultura, tra linguaggio e comunicazione: privilegiano il mercato degli eventi culturali, nella sua libertà di essere sempre uguale, a scapito del mondo del lavoro artistico, nonostante, in quest’ultimo caso, le sue maggiori potenzialità inventivo.
Le ideologie culturali operano oggi, in Brasile, attraverso editti solo apparentemente democratici o inclusivi. Tali politiche sponsorizzate con il bilancio pubblico sono simili a gettare il mais ai polli: possono essere umilianti, al punto da limitare la libertà inventiva e di iniziativa. A capo dei progetti ci sono agenti culturali, solo molto raramente artisti. La diagnosi non potrebbe essere peggiore: la priorità è data all’industria culturale, dove il tragico e l’ironico sono stati cancellati – solo gli eroi Marvel sono in linea con le regole morali e con il perimetro dei buoni costumi neoliberisti.
Le arti brasiliane, sin dal periodo coloniale, a loro volta, rimangono escluse da questo centro culturale – nonostante i nostri meriti storici unici e il nostro forte potenziale per nuove ricerche e nuovi risultati artistici, inclusa la ricostruzione della memoria. Nei secoli XVIII e XIX, ad esempio, il Brasile era il paese al mondo con il maggior numero di grandi artisti neri e bruni. Tuttavia, un film come Pantera nera conta molto di più per la cultura ufficiale brasiliana: Lereno, Aleijadinho o Emerico, tra molti altri, rimangono invisibili. Infatti, vecchia o nuova, tutta l'arte estrinseca all'industria culturale è stata esclusa dai bandi.
In conclusione, proviamo a richiamare l'attenzione su due travisamenti in gran parte cristallizzati dalla dittatura dell'opinione pubblica o anche dal buon senso, anche se dotto. Cosa proponiamo? – contrariamente a quanto detto, (i) esiste un significato critico e negativo della cultura, come nel suddetto significato forte di ideologia – infatti, ciò che abbiamo nel caso della cultura, quasi sempre, sono ideologie della cultura ; (ii) la politica della cultura non è mai stata un’agenda di sinistra – basti ricordare i rapporti dei fascisti con la cultura, così come, oggi, i loro legami neoliberisti. Esaminiamo questi due punti più in dettaglio di seguito.
Il significato peggiorativo di cultura ha a che fare, tra gli altri, con i libri Il malessere in cultura (Das Unbehagen nella cultura), di Sigmund Freud – uno dei pilastri della critica culturale. Freud definisce la cultura come una fonte di sofferenza, che porta a un disagio crescente a causa della sua opposizione agli impulsi esistenziali (così abbiamo la cultura credente, la cultura della milizia, l'identitarismo, l'Olavismo culturale, ecc.). Si osserva che il culturalismo nuoce alla teoria della conoscenza. Nel titolo della prima edizione brasiliana era tradotto Cultura dalla civiltà – annientando il significato originario di Freud.
I culturalisti hanno difficoltà a concepire la cultura come un problema. La civiltà, a sua volta, è un concetto più antico: gli antichi elogiavano la cittadinanza e la dignità nei rapporti umani (civiltà/civili), senza escludere le diverse popolazioni di tutti i continenti e di tutti i tempi – nulla che si avvicini al neologismo illuminista della cultura, invariabilmente fonte di travisamento ideologico.
I generi dell’industria culturale non sono arte popolare e funzionano come feticcio della colonizzazione come ideologia di dominio. Configurando sia la dimensione economica che quella intellettuale, l’industria culturale neoliberista dimostra esattamente la teoria dei classici, secondo cui l’ideologia dominante è quella della classe dominante. In una parola: l’industria culturale è il feticcio del neoliberismo, che a sua volta è l’ideologia del capitale finanziario. La cultura, quindi, con le sue ideologie, equivale a dominio e oppressione – sia nel caso dei culturalisti Joseph Goebbels e Miguel Reale, sia nell’industria culturale neoliberista.
*Rubens Russomanno Ricciardi È professore presso il Dipartimento di Musica dell'USP di Ribeirão Preto e direttore d'orchestra presso l'USP Filarmonica. Autore del libro Contro l’identitarismo neoliberale – un saggio di Poíesis Crítica per il sostegno delle arti (controcorrente). [https://amzn.to/4eYrz6b]
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