da FLO MENZES*
Leggi uno degli articoli del libro digitale “Rischi sulla musica: saggi – ripetizioni – test”
Recenti scoperte nel campo della medicina genetica legate alla ricerca sul provoca la morte di grandi compositori del passato hanno svelato in questi mesi rivelazioni davvero roboanti nel mondo della cultura musicale.
Sulla falsariga di quanto sta accadendo con le ricerche sulla morte di Chopin, svelando la sua malattia mortale attraverso l'analisi del DNA dei resti del suo cuore tra le tracce lasciate da questo organo sui pilastri di una delle principali chiese di Varsavia, per la quale il suo cuore è stato, seguendo il suo desiderio, trapiantato dal suo defunto, da Parigi alla capitale polacca, dalla sorella nel 1849, eminenti ricercatori di medicina genetica hanno effettuato vari test sulle tracce dell'urina di Beethoven lasciate sui resti dei suoi vestiti e nella genetica residui di cellule salivari che hanno resistito al tempo nei calici di piombo che il compositore utilizzava per degustare i suoi vini – quasi sempre di dubbia qualità, come accertato dai resoconti dell'epoca –, al fine di chiarirne le vere ragioni per la sua scomparsa.
L'ipotesi che Beethoven sarebbe morto a causa del progressivo deterioramento del suo organismo dovuto agli effetti dannosi del piombo in questi calici e dell'alcool o, al contrario, che avrebbe sofferto fatalmente, come Schubert e Schumann, come risultato della sifilide derivante dal fatto di aver (come gli altri due grandi maestri) assiduamente frequentato bordelli rimane aperto. Tuttavia, le analisi genetiche, nelle loro attuali fasi di ricerca, notevolmente avanzate, hanno permesso ai ricercatori di mettere in relazione i geni rintracciati con la struttura cocleare e con l'anatomia dell'orecchio interno ed esterno di Beethoven, rivelando, con sorpresa di tutti, qualcosa di completamente diverso, inaspettato e che avrebbe essere considerato del tutto assurdo da chiunque abbia anche solo azzardato una simile ipotesi, al di là dei progressi della scienza, figuriamoci dai suoi contemporanei:
BEETHOVEN NON È MAI STATO SORDO!!!
La struttura cocleare e anatomica dell'orecchio di Beethoven così come il suo funzionamento erano perfetti! L'ipotesi ora sollevata dagli scienziati del Europäischer Verein für geschichtlichegenetische Forschung (Società Europea per la Ricerca Storico-Genetica) della Comunità Europea, con sede a Vienna – ipotesi da me condivisa, poiché, da adolescente, fui affetto dallo stesso dilemma a cui alluderemo tra poco e dalla stessa sindrome psichica, dubitare visceralmente della musicalità del discorso, la cui crisi profonda mi ha portato a decidere di smettere di parlare (cosa che, fortunatamente, non è durata più di un giorno, rimanendo, in un certo senso, ancora un essere relativamente socievole) –, è quel Beethoven avrebbe simulato la sua sordità in modo che, in un certo senso, potesse anche tacere. Questa ipotesi, frutto di ricerche genetiche, mi è stata confermata personalmente da e-mail dal capo scienziato del team austriaco che guida la ricerca, il prof. dott. Klaus-Peter Lugner.
Una tale opzione beethoveniana sarebbe decaduta da ogni significato di natura filosofico-pitagorica, in un'astensione esistenziale dai suoni verbali di fronte all'umana e propria ignoranza??? È noto che i pretendenti alla setta pitagorica attraversarono un lungo periodo di cinque anni di silenzio (echemizia), durante la quale non proferirono parola e ascoltarono gli insegnamenti del Maestro senza vedere l'origine dei suoni, finché furono ammessi in seno alla confraternita divisa tra i matematici (Μαθηματικοι = matematicoi) e il acusmatica (Ακουσματικοι = akousmatikoi), e che questa condotta rituale dell'udire senza vedere continuò nella pratica dell'acusmatica. Beethoven sarebbe stato un ribelle compositore post-pitagorico, adepto dei precetti dell'acusmatica che adorava il silenzio per ascoltare pienamente??? Se sì, perché hai scelto di emulare la tua sordità??? Beethoven potrebbe prefigurare un Wittgenstein che, pronunciando il suo famoso motto, affermava che “su ciò che non si è sicuri, meglio tacere”??? Beethoven, attraverso un rovesciamento di tale atteggiamento acusmatico, avrebbe simulato la sua menomazione uditiva per potersi privare della parola???
Come tutto indica, però, l'opzione di Beethoven per il silenzio è scaturita, vediamo, soprattutto da una forte convinzione nelle proprie conoscenze. musicale, espressivo, relativa ai suoni del Verbo. Se la parola deve essere usata, sia nel modo più espressivo possibile, e l'irascibile indignazione di Beethoven si trasformerà quindi in simulata sordità. Non poteva, allora, avventurarsi in un'espansione radicale delle parole, in un'amplificazione temporale delle loro strutture fonologiche – come io modestamente intrapresi con l'invenzione del mio forme di pronuncia –, poiché la fonologia avrebbe bisogno ancora di un centinaio di anni per nascere… Anche il genio ha i vincoli del suo tempo. E Beethoven ha fatto quello che poteva, pagando il prezzo della sua acuta nevrosi!
In risposta all'attenzione rivoltami dal Prof. Lügner, ho compiuto un passo, credo, importante ed ho aderito alla ricerca di questa Società Europea - che è stata, con mia grande soddisfazione ed onore, accolta subito ed con entusiasmo dagli scienziati che coordinano le ricerche che qui riporto, in maniera pionieristica modo, nel nostro paese –, aggiungendo alla medicina genetica proprio musicologia genetica, e anche se la mia convinzione non si basava esattamente sull'analisi dei suoi manoscritti nona sinfonia, ma piuttosto solo nel contenuto testuale utilizzato in quest'opera chiave dell'eredità beenthoveniana, ho ipotizzato che tale simulazione beethoveniana fosse motivata dalla sua diffidenza per l'uso meno che musicale delle parole, come quelle usate dalle società borghesi.
Profondamente scettico, quindi, nei confronti del espressione verbale lontano dal discorso standard della vita quotidiana, Beethoven intendeva isolarsi dalla sua comunicazione verbale con le persone. Non aveva altra scelta che formare una barriera insormontabile tra sé e gli altri. Per farlo doveva fingere di essere sordo, per accentuare la sua nevrastenia acuta, aggrottando la fronte e riducendo notevolmente il numero di bagni che faceva in un mese e, una volta simulata la sordità, tacere. Così, è diventato incomunicabile e puzzolente, un essere asociale, se non attraverso la sua musica, sublime al punto che i suoi coetanei, questa volta, davanti a lei, si sono resi completamente sordi.
L'ipotesi “quasi genetica” dal punto di vista della musicologia, da me sollevata e subito accolta dagli scienziati europei, è avvalorata dal chiaroveggente inserimento testuale che Beethoven fece, nel suo nona sinfonia, di una frase scritto da te, personale, che precede il testo del poeta Friedrich Schiller che funge da base per il suo magnum opus. Infatti, come ben sappiamo, la voce solista, imponente, seria irrompe con il Verbo, nell'ultima parte dell'opera, la tessitura orchestrale, e con le seguenti parole:
Oh Amici, non tali suoni!
Ma cantiamo suoni più dolci e gioiosi! ,
Ora, questa frase iniziale – e pochi se ne rendono conto – non fa parte della poesia di Schiller, An die Freude, del 1786, scelto da Beethoven per il suo nona sinfonia! Tra il non voler sentire e l'essere sordi, c'è un intero oceano! Con l'emergere di questa frase, così bisognosa e allo stesso tempo così umanitaria, che riecheggia le idee della recente Rivoluzione francese e invita a fraternità contemporaneamente a per nuovi suoni, Beethoven ha rivolto, di suo pugno, un ultimo appello alla sensibilità umana affinché si svegli, realizzi la sua strategica dissimulazione organica e prenda coscienza delle potenzialità espressive dei suoni. Ma più che con gli uomini, Beethoven si sentiva un fratello per i suoni stessi. Se i suoni devono continuare a essere cantati in quel modo, allora è meglio non ascoltarli.
Sebbene la mia ipotesi sia basata su questa schiacciante evidenza e che, questa volta, sia stata accettata dal team di ricercatori europei, mi è stato chiesto dal prof. Lügner e il suo principale assistente, il prof. dott. Christoph von Possenreißer, direttore del Zentrum für musik wissenschaftlichegenetische Forschungen (Centro Ricerche Genetiche-Musicologiche) di Nordrheinwestfalen, con sede a Bonn, Germania, se nella partitura di Beethoven ci fossero ulteriori prove che corroborerebbero la mia affermazione, alla quale ho risposto affermativamente. La sordità simulata di Beethoven viene svelata dallo sfogo di questo appello, in tono forte e chiaro, a suoni nuovi, in manifesto rifiuto di chi lo circonda, ma la sua strategia è, effettivamente, preventivamente rafforzata e ratificata sintomaticamente dall'uso nella stessa opera , di modo insistente, recitativo puramente orchestrale, insolitamente Mudo, che prefigura ciò che Felix Mendelssohn avrebbe cominciato a fare con la canzone due anni dopo la morte di Beethoven (quindi nel 1829) con il suo Canzoni senza parole (canzoni senza parole). Se Beethoven ha portato la voce nel genere sinfonico, lì ha messo a tacere la Parola nel mezzo del suo genere più tipico. Per scandire il suo distacco dalla mancanza di espressione nell'uso banale delle parole, nulla è più efficace che servirsi del genere musicale che le utilizza nel modo più vicino alle banalizzate inflessioni verbali del parlato ordinario, amputando però proprio il Verbo stesso: un emblematico Rezitativ ohne Worte, Perciò.
Una volta che un tale innesto testuale della sua paternità e un uso così insolito del recitativo furono compresi dal suo pubblico – il che, tra l'altro, non è stato fino ad oggi! –, Beethoven avrebbe certamente deciso di gettare definitivamente nell'immondizia della storia i suoi dispositivi contro la sordità, che utilizzava con grande difficoltà solo per fingere di essere sordo di fronte a quella società insensibile alla musicalità generale dei suoni, fossero quelli di tutti i giorni vita che sentiamo circondarci, sia dai fonemi che intrecciano le nostre intenzioni espressive nella fonologia delle parole, per non parlare dell'insensibilità e della sordità generalizzate alla loro stessa musica. In un certo senso ha anticipato, con il suo gesto, di quasi 140 anni quello che avrebbe fatto Luciano Berio quando nel 1961 avrebbe composto, Visage, opera elettroacustica basata sui suoni vocali emessi da Cathy Berberian e combinati con suoni elettronici, in cui ogni parola conosciuta è quasi del tutto assente – con l'eccezione sintomatica della parola le password, giustamente parole, in italiano –, in una critica, come definisce così bene lo stesso compositore italiano, della radio (su cui e per la quale l'opera è stata realizzata), “la più grande dispensatrice di parole inutili”. Inutile – sia per l'uno che per l'altro – perché parlato male, pronunciato in modo standard, morto dal punto di vista espressivo, omologato dal mutismo degli affetti e dalla codardia di fronte alla non estensione espressiva, durativo, dei loro suoni.
Perché fu a questo mutismo sociale e assordante che Beethoven rispose con il suo nona sinfonia e con il suo bluff, facendosi, con le sue orecchie perfette, sordo e quasi muto, una strategia ormai svelata dalla scienza genetica, con un piccolo contributo della musicologia genetica, intrapresa da questo modesto essere che scrive queste scarne, tuttavia, crediamo, sorprendenti linee.
*Flo Menezes è un compositore, autore di un centinaio di opere di vari generi musicali. È il fondatore e direttore dello Studio PANaroma de Música Eletroacústica presso Unesp, dove è professore di composizione elettroacustica.
Riferimento
Flo Menezes. Rischi sulla musica: prove – ripetizioni – esami. San Paolo: Editora Unesp Digital, 2018.
Nota
[1] "O amico, nicht diese Töne! /Sondern laßt uns angenehmere / anstimmen und freudenvollere!"