Il Brasile in Mosè

Dora Longo Bahia, The police come, the police go, 2018 Acrilico su vetro laminato incrinato 50 x 80 cm
WhatsApp
Facebook
Twitter
Instagram
Telegram

da RODRIGO MAIOLINI REBELLO PINHO*

Parlare di un suolo senza divisioni non è certo parlare di questo Brasile, ancora patria di mercanti senza arrossire.

L'assassinio di Moïse Kabamgabe pone ancora una volta davanti agli occhi del mondo, come in un'anatomia in un corpo vivente, le viscere di quello che si chiama Brasile. Mette a nudo un passato che non è stato superato, che non esiste come semplice residuo, ma vive come eredità. Come i morti che afferrano i vivi per i capelli, pulsa il modo coloniale degli schiavi di oggettivare il capitale.

Ora, cos'è il famigerato chiosco Tropicália se non un'impresa commerciale volta a soddisfare stomaci e fantasie gringos? Cos'è il Brasile se non una macchina per macinare la propria gente, che si nutre della propria carne e del proprio sangue per soddisfare i bisogni stranieri?

Un Moïse torturato e assassinato sulla spiaggia, le onde che vanno e vengono sciabordando, il vento che fischia, bersagli e coppie di turisti che comprano birra ghiacciata, guardando con sgomento un corpo nero legato e imbavagliato, già impotente e inerte, come se fosse un componente naturale del paesaggio inutile.

L'Atlantico in fondo a Tropicália non era forse il paesaggio più appropriato per il martirio di Moïse, ma il fango organico tinto di sangue che scorre dalle colline di Petrópolis attraverso le braccia della capitale, che distrugge le uniche due fonti di ogni ricchezza: la natura e L'essere umano.

La morte di Moïse Kabamgabe ci fa venire voglia di chiedere a Colombo di chiudere la porta a questi mari. Perché Moïse è fuggito dalla vita in Congo per trovare qui la morte. Prima dell'ultima realtà sperimentava ancora lo sfruttamento. Ha lavorato a Tropicália, ha servito i turisti, ha dormito sulla sabbia, ha lavorato il giorno dopo, non è stato pagato, ha chiesto ciò che era suo e, per questo, è morto. Morì sul marciapiede pubblico, bloccando il traffico, perché sua madre, come un'Antigone, non accettò il silenzio iniquo e fermò il traffico delle auto, il cui fastidio partorì così la morte di Moïse.

Oltre alla speranza, straniero in questa terra, Moïse è arrivato qui portando solo i marchi dei costruttori, tutti estranei a questa terra: operai, neri, immigrati. Ma se Moïse non è nato espropriato, non è nato nero e non è nato immigrato, se è stato il mondo a renderlo lavoratore, nero e immigrato, c'è da chiedersi, mille volte, se un social suolo che non fosse diviso in classi, che se non fosse diviso in razze, se non fosse costellato di Stati nazionali, sarebbe un terreno così fertile per il fatto, gli autori e la vittima dell'orrendo crimine di prosperare?

Ma parlare di terra senza divisioni non è certo parlare di questo Brasile, ancora patria di mercanti senza arrossire, ancora terra che già nel nome rivela il suo volto di stirpe, il suo scopo mercantile.

Di tutto ciò che si può dire, non c'è nulla che possa consolare coloro che rimangono dalla partenza così ingiusta di coloro che sono così goffamente ostacolati dal ricevere il minimo che gli era dovuto dal capitalismo pionieristico, liberatore e di bottino.

Rimane, tuttavia, ai vivi da vivere. E, vivendo, smuovi questo suolo marcio, perché non vi ritorni mai un Moisè in cenere, ma un Moisè in fiore.

*Rodrigo Maiolini Rebello Pinho Master in Storia presso PUC-SP.

 

Vedi tutti gli articoli di

I 10 PIÙ LETTI NEGLI ULTIMI 7 GIORNI

Vedi tutti gli articoli di

CERCARE

Ricerca

TEMI

NUOVE PUBBLICAZIONI

Iscriviti alla nostra newsletter!
Ricevi un riepilogo degli articoli

direttamente sulla tua email!