Il “Canto de maldoror” – “Terra em trance” in trance

Johnny Papigatuk, Baleia, 2015
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da VITOR MORAIS GRAZIANI*

Commento allo spettacolo ideato da Nuno Ramos e Eduardo Climachauska

Lo spettacolo La Canzone di Maldoror: la Terra in trance, ideato da Nuno Ramos e Eduardo Climachauska (Clima), presentato nell'ottobre di quest'anno al Theatro Municipal de São Paulo, dovrebbe essere salutato inizialmente come un evento singolare in un panorama morente come quello della cultura, solo perché fa riflettere chi lo guarda .

Una considerazione che, a suo modo, spiega anche tutta l'intreccio di significati che tormenta ormai da tempo il duo di designer, e che forse si può dire che abbia iniziato il suo percorso con i cortometraggi Luce scura (per Nelson1) e Due ore (per Nelson2), del 2002. Da allora, il presupposto che elabora la presenza di qualcosa di sempre meno contemporaneo a noi, nonché l'evidente sofferenza psicologica che ne deriva, vale come luogo a cui raggiungere le opere di Nuno Ramos e Clima. Tutto questo nell’ottica dell’intellettuale illuminato che, dalla periferia, porta con sé il peso di dover intervenire su ciò che pensa, dando unicità alla proposta presentata e consentendo il raro esercizio della critica – anch’essa immersa nella intera trance di Terra in trance.

Detto questo, vale la pena ricordare che il film di Glauber Rocha su cui si concentra lo spettacolo (1967) – un vero e proprio trauma a finale aperto – era già stato oggetto di Nuno Ramos nel 2018, alla vigilia del secondo turno del elezioni presidenziali, nel lavoro svolto presso l'Istituto Moreira Salles come atto conclusivo della serie “ao vivo”. A quel tempo, il paese era testimone del gran finale culmine di un decennio decisivo, in cui si riaccese nel paese la trance che nel decennio precedente aveva decollato sulla copertina di The Economist.

Nonostante le previsioni che il tempo tentava di avverarsi, lì il futuro sembrava ancora aperto, qualunque fosse la sua direzione. Si stava verificando un accumulo e l'imposizione di elaborare questo accumulo a caldo, all'interno di un decennio in trance, ha dato il tono allo spettacolo del 2018. Le scene del film di Glauber Rocha erano accompagnate da estratti del Giornale Nazionale (data la cancellazione del dibattito tra i candidati alla presidenza che avrebbe dovuto svolgersi contemporaneamente allo spettacolo), che venivano silurati direttamente nelle orecchie degli attori, costruendo una cacofonia di voci che uscivano dal caos.

Lo stesso forse non si può dire dello spettacolo qui presentato. Da allora, il decennio si è chiuso e il lungo cammino del XXI secolo è già lì, annunciato e ticchettante. I fatti accaduti tra i due ottobre, 2018 e 2024, non hanno bisogno di ulteriori commenti, se non quello che riguarda proprio la perdita della trance nel presente. Ciò a cui assistiamo oggi è piuttosto la scomposizione delle accumulazioni dell'ultimo decennio care al settore di cui parla lo spettacolo, piuttosto che l'elaborazione di qualcosa di nuovo; qualcosa capace di produrre una nuova accumulazione.

Il tono, per i progressisti – in cui identità di sinistra e fede nel progresso si fondono e si confondono – è soprattutto di malinconia e disillusione. È questo un moto perpetuo che tormenta da tempo la produzione di Ramos e Clima, dando un valore di differenziazione alle loro opere, dovuto all'anticipazione della malinconia in passate ore di generale positività, come in bandiera bianca (2010).

È chiaro che questo processo, prossimo alla rinuncia all’intervento diretto nel mondo contemporaneo, trova la sua spiegazione nel limite etico del cammino della storia, in cui vengono alla ribalta le mutazioni fasciste della nostra formazione. Un rifiuto di combattere la lotta erculea contro il “male assoluto” così com’è nel nostro spazio, e senza una vicinanza geografica disposta a salvarci, anche se in molti casi è immerso in condizioni simili. A questo proposito, Terra in trance in trance parla, dal 1967, di fuori 2024, rispetto a quello messo in scena nel 2018.

Nelle dichiarazioni rilasciate a sostegno del lavoro di quest'anno, l'espressione “perdita di riferimento” era onnipresente. Il “referenziale”, qui, può essere inteso come tutto ciò che ci ha formato, e, una volta formato, ci illustra il mondo che corre fuori. Per quanto mi risulta, il lavoro di Nuno Ramos e Clima è segnato da questo non-posto sul posto, basandosi sulla constatazione che l'avanzamento del tempo non permetteva la costruzione di nuovi riferimenti capaci di comporre la trama che spiega tale avanzamento. Da quel momento in poi, il grande oggetto attraversa il tempo: il suo passaggio irreversibile, come se risucchiasse ciò che ci resta di ciò che lo ha preceduto.

È importante, quindi, chiedersi quale sia lo stato attuale Terra in trance - e a chi lo dice. Detto, qual è il prossimo passo da compiere. La proposta, quindi, di La Canzone di Maldoror: la Terra in trance È, a partire da questo quadro, che si cerca di accedere alla situazione attuale. Una situazione attuale per la quale, come analizza Lorenzo Mammì nel booklet della mostra, la sfinge che ci viene offerta è piuttosto ripugnante e caotica – e non maestosa e circospetta come la macchina del mondo di Drummond. Un caos, però, interno, a un settore ben preciso di pubblico, ovvero coloro che sono interessati alla proposta in cerca di nuovi riferimenti per raccontare ciò che accade nel presente. Un dono imminentemente ripugnante, tenendo presenti i vecchi riferimenti che lo hanno formato fino ad ora.

Si può quindi dire più chiaramente che la mostra mira a racchiudere, nelle possibilità eroiche e fruitive dell'arte, questi riferimenti formativi la cui base è semplicemente in un divenire che non proviene dal Brasile moderno. Questo obiettivo appare malinconico solo ai presenti veramente malinconici del Teatro Comunale; cioè coloro che riescono a non scommettere più sul naufragio di questi riferimenti specifici.

In generale, il tono di chi ancora investe in questo intero universo formativo tenderà più a quello ludico, reso possibile dalla dissacrazione dello spazio sacro dell’alta cultura rappresentato dal Teatro Municipale di San Paolo – la cui apertura a qualcosa di fuori dal mondo Anche l'ordinario come ciò che qui viene narrato merita di essere salutato. C'è ancora un'ultima possibilità, più difficilmente accessibile, e cioè che, una volta confermata la malinconia, si possa sentire vibrare la giocosità fruibile delle rovine irresolute, della “costruzione che è già rovina”, e che resta come il ultimo orizzonte – e le cui potenzialità si prevede che l’arte apocalittico-messianica sia l’ultima arte, proprio come in Terra in trance.

Tutto si esprime in un'ora e mezza di presentazione basata sulla tensione tragica (con possibilità comiche) di tre luoghi, la cui importanza appare ordinata anche nel film di Glauber Rocha: quello intellettuale; la sinistra; la gente. Il primo gruppo, simboleggiato da Paulo Martins, un poeta che prima adula il leader di destra Diaz, poi si inclina verso l'invenzione del populista di sinistra Vieira e finisce per suicidarsi come suo eroe, è caratterizzato da discorsi in nome di qualcosa che disprezza.

È rappresentato durante lo spettacolo da Marat Descartes e Georgette Fadel, in modi diversi, e che rappresentano la sua duplice posizione. In Descartes, la sua voce appare estremamente vicina al suono utilizzato dai notiziari della polizia quando intervistano qualcuno che richiede l'anonimato a causa della sua fragilità. È possibile, tuttavia, notare tracce della dizione del presidente Lula, in un mix di accento nordorientale e voce usurata, che rafforza un carattere espressivo gutturale. In Fadel la percezione vocale è quella di un pappagallo, che ripete una determinata ricetta.

Da un lato, c’è lo spazio oscuro dell’intellettuale di punta, condizione ormai ineludibile anche per un leader di origine popolare come Lula, ma il cui ultimo compito storico è stato proprio quello di mantenere il riferimento novecentesco da cui proviene Paulo Martins. . Dall'altro, la caratterizzazione del secondo posto, la sinistra, anch'essa sintetizzata da Martins, ma nella dizione di Fadel, che dimostra realmente la cancellazione di questo da parte del regime di accumulazione. In questa maldestra operazione, la sinistra smette di proclamare modi di stare al mondo, in nome della liberazione generale, tanto che questi stessi propositi diventano comandamenti esaurientemente ripetuti, tanto da perdere il senso di ciò che viene detto.

Un'azione comunicativa priva di valore emancipativo, corrosa dal vuoto della magniloquenza, di cui non resta altro che la ripetizione meccanica di qualcosa che si trasmette. In mezzo a tutto questo, il popolo parla, attraverso il coro – per definizione potente per il numero di voci che riunisce – e gli assoli contestabili di Marcela Lucatelli, in cui si crea una tradizione popolare lontana anche dalla contemporaneità urbana in trance. , ma il cui potere rituale nell'organizzazione sociale rurale non può essere ignorato.

Il materiale musicale, a sua volta, basato sull'orchestrazione di Piero Schlochauer e Rodrigo Morte, è diviso in quattro piazzole, la cui frequenza varia a seconda dell'identificazione tematica del percorso, suddiviso tra “presente esteso” (- 12), “passado Vieira” (- 16), “delirio” (normale) e “passato Diaz” (+ 12), e che possono essere identificati dai quattro pendoli nello scenario di Laura Vinci. La scelta delle altezze per ciascuno intonazione, certamente, dimostra l'affermazione di Diaz di fronte alla dissoluzione di Vieira negli orizzonti del presente – in cui il delirio di Paulo Martins continua così com'è.

La voce del popolo, a sua volta, appare come presente, il che implica una domanda su quale popolo stiamo dicendo – nel intonazione “presente prolungato”. Nell’orchestrazione, invece, i procedimenti determinano l’enfasi degli archi nei momenti dissoluti, attraverso glisands, mentre i fiati degli ottoni annunciano la celebrazione pubblica tipica del Brasile arcaico del 1967 e le percussioni impongono la forza delle masse, non lasciando spazio al lirismo degli strumenti a fiato come flauti, oboe, clarinetti e fagotti.

Ruotando in alto, i pendoli, trasportando parafulmini capovolti, cercano di risucchiare l'energia sonora alla ricerca di una forza maggiore capace di spiegare ciò che sta accadendo – sul palco e fuori. Il contrabbasso di Marcelo Cabral rafforza la tensione, fungendo da elemento di drammatizzazione nelle interpretazioni di Cartesio e Fadel, che recitano anche negli altri personaggi del film. In genere dall'inizio della lunga ellisse che si apre Terra in trance con una punta di candomblé — e che riappare in tutta l'opera —, fino al destino manifesto di Diaz che la pone fine, l'attendibilità dello spettacolo nello svolgimento del film è quasi completa — una sola scena è tralasciata, sulle trattative con Explint.

La proposta originale è quindi quella di ascoltare il film senza le sue immagini, lasciando che si formi un immaginario dalla forza sonora dell'orchestra, del coro e dei solisti. La presentazione, però, come ho cercato di dimostrare, non si limita a questo, poiché rappresenta qualcosa di più, anche per quanto riguarda l’esplorazione di altri linguaggi oltre la musica da concerto e il suo tradizionale spazio nei grandi teatri.

L'idea di sottoporre il materiale a una distorsione sonora rappresenta, di per sé, una ricerca di manipolazione dell'attualità del film, che è al centro di ogni possibilità di interpretazione della proposta di ascolto che Nuno Ramos e Clima propongono. Nodo intonazione da Diaz la ritualizzazione dei suoi eventi sonori viene rafforzata, come in Vieira tutto si scioglie. Questi processi si riflettono nella direzione dei solisti, che a modo loro replicano anche la dimostrazione dell'attualità attraverso distorsioni del discorso. Quindi, la scommessa di Nuno Ramos e Clima risiede nella colonna sonora di Terra in trance il momento clou del film, presenta una diagnosi del presente che punta al consolidamento di intonazione “Diaz passa” e impone un nuovo orizzonte di percezioni.

O jazz dalle orge intellettuali appare tiepido; I punti candomblé hanno dimostrato il carattere di confronto che è loro caro, ovviamente all’interno dei loro schemi di bastioni della tradizione; e la grande arte cara alla caratterizzazione di Diaz – da Verdi a Carlos Gomes – appare ben visibile, tra il pacchiano del datato e l'odiosa del reale. Il che, in effetti, si può ribadire tenendo presente che diverse scene con protagonista Diaz sono state girate al Teatro Municipal di Rio de Janeiro e che, a San Paolo, dove si svolge lo spettacolo, una scultura di Carlos Gomes veglia sul palco dall'alto soffitto . Villa-Lobos è, lì, il punto di tensione tra Candomblé e samba di fronte alla cultura alta, funzionando quasi come un terreno sonoro comune.

Non c'è da stupirsi che siano tuoi Bachianas brasiliane n. 9 il percorso della festa sulla terrazza del Palazzo Alecrim in cui si svolge la famosa scena in cui Paulo Martins copre la bocca del sindacalista Jerônimo — detto il “popolo”. (Scena che, è bene ricordarlo, ha il momento più contemporaneo del film per quanto riguarda gli illuminati alla ricerca del popolo redentore: sto parlando dell'uomo che prende il posto di Jerônimo e dice che lui, che ha sette figli e ha nessun posto dove vivere è che sia il popolo. Lui finisce morto gridando “di sinistra”. È in questo passaggio fulmineo ma fondamentale del mascalzone di Alecrim che sta la forza e la paura del passo successivo, ancora da compiere, “in”. ricerca del popolo brasiliano”.

In questo appello, in cui la cultura della tradizione appare come una medicina velenosa (nell'interpretazione del paese di José Miguel Wisnik), lo spettacolo di Nuno Ramos e Clima sembra ancora fare affidamento su una forza “popolare”. Questa scommessa avviene tramite Marcela Lucatelli, le cui improvvisazioni, alcune con un tono di disprezzo per i personaggi del film interpretati da Cartesio e Fadel, funzionano come un “contro-film”, cioè come l'unica entità esterna, che ripudia tutto e mette in discussione il suo posto originariamente senza voce in tutto quell'apparato.

Uno schiaffo alla posizione di classe del film, del pubblico, che, in un certo modo, appare nella vecchia macchina espositiva cinematografica proiettata verso il pubblico che, ruotando, chiede a noi, oggetti dell'intero film: cosa fare? Forse la domanda migliore è: c’è qualcosa da fare? "NO. L’unica cosa da fare è suonare un tango argentino”, ha detto Manuel Bandeira.

*Vitor Morais Graziani È un critico d'arte.


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