Il caso Silvio Almeida

Silvio Almeida/ Foto: Rovena Rosa/ Agência Brasil
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da ANDRE RICARDO DIAS*

Considerazioni sull'idealizzazione reificata dei neri attraverso il discorso identitario

Il caso delle accuse di molestie contro Sílvio Almeida ci offre la possibilità di analizzare due posizioni di vittima riscontrate tra soggetti sociali che subiscono forme discriminatorie di violenza, nonché le loro implicazioni per i dibattiti attuali sulle identità sociali. La prima sarebbe la vittima semplice della violenza subita – qui, nella misura del funzionamento lamentoso della persona risentita, posizione in cui il soggetto attribuisce unicamente all’altro la causa dei propri mali – con il fatto di aver subito la aggressività o non essere indifferente.

È bene chiarire che, a livello di interpretazione psicoanalitica, non importa se la violenza sia effettivamente avvenuta o meno, poiché l'essenziale è che ci sia un mantenimento ciclico di questo affetto paralizzante. L'altro, la vittima, diciamo, indiscussa, sulla quale del resto, in situazioni del genere – vittima di molestie, di stupro – ricadono innanzitutto il sospetto e l'incredulità.

Ed è così che si sono posizionati i militanti di diversi segmenti delle minoranze (la chiameremo militanza identitaria egemonica, senza affrontare gli aspetti politici ed economici in questione) subito dopo la pubblicazione delle prime accuse contro l'ex ministro dei diritti umani. Prima di argomentare a favore della suddetta idealizzazione reificante, voglio ricordare il caso di un partecipante all’ultima edizione di Grande Fratello Brasile, un uomo di colore, che chiamava le donne nere “scimmie”.

Ad oggi, su questo caso regna il silenzio. Consideriamo ora il problema della reificazione. Generalmente questo concetto designa la “cosificazione” o, nel nostro caso, esattamente la trasformazione dell’uomo in oggetto. Questo percorso implica l’idealizzazione, la costruzione di un uomo nero unidimensionale, ridotto alla condizione, immagine e somiglianza dell’identità nera creata in gran parte dal movimento identitario accademico. Ne parleremo più tardi.

Questi casi dimostrano l’impasse in cui si trova ora il nostro attivismo, non sempre esattamente a sinistra dello spettro politico. In primo luogo, chiamiamo identità il discorso egocentrico attorno a forme omogeneizzanti di identità sociali quando, ad esempio, la condizione di razza e di genere arriva a ignorare il fattore di classe, oltre alle molteplici determinazioni che ci modellano come individui che vivono nella società.

Questo tipo di discorso, prevalente nella nostra militanza, ha le sue origini nel pragmatismo nordamericano nella sua valorizzazione discorsiva pratica poco influenzata dalle complessità socioeconomiche intrecciate con questioni di razza, classe, etnia, genere, ecc. Da qui la necessità, da parte di movimenti e teorie così diversi, di coniare termini come intersezionalità, bianchezza, decolonialità, tra gli altri concetti che tentano di collegare con forza diverse determinazioni che si “intersecherebbero” nella chiarezza di una buona analisi critica dialettica. .

Lasciando l'approccio teorico a grosso modo, torniamo qui alla critica della reificazione. Diciamo che esonerare la vittima della violenza razziale di cui, come ben sappiamo, l’ex ministro e l’ex BBB sono potenziali bersagli, dalla responsabilità delle loro azioni nella vita di tutti i giorni, significa riprodurre un doppio pregiudizio. Nel suo duplice aspetto, rimuovendo la condizione di soggetto di fronte alla negazione dell’“agency”, cioè dell’autonomia e della responsabilità, a favore di una deferenza commiserativa che non significa in alcun modo elevare la vittima della violenza razziale allo status di soggetto.

Ora, rispetto alle accuse contro il ministro, cosa ha offuscato la comprensione degli attivisti di fronte a quella situazione? Perché la possibile vittima è stata surrettiziamente screditata, questa volta, dai settori che lottano pubblicamente contro la violenza contro le donne? Mi riferisco anche a personaggi pubblici i cui commenti a sostegno del ministro si possono leggere fino ad oggi nei post sul loro profilo Instagram.

Il dettaglio che la vittima principale è Anielle Franco, una donna che porta in sé condizioni che la rendono un esempio di donna violentata dal nostro patriarcato omicida e sfruttatore, indica la serietà del quadro teorico e militante che guida questi segmenti politici.

Forse si tratta di due reificazioni, quella del razzismo brasiliano, che sottomette il colore della pelle a un fantasma che si riflette nella violenza reale dei rapporti sociali concreti, e la reificazione della “causa”, che riprodurrebbe anche il razzismo parziale, che prende il nero per eccezione non solo per sottolineare la particolarità dell'essere nero in Brasile come strumento di denuncia, ma per delimitare un'identità stabilizzata in vista del mantenimento della posizione di vittima. Sarebbe doveroso capire in nome di quali guadagni quest'ultimo resta attivo, se siamo d'accordo che siamo sull'apice di questo paradosso.

Che l’opinione pubblica si sia innamorata dell’avvocato che ha chiesto, in tono processuale, la prova per un delitto di molestie sessuali, diciamolo, un avvocato di successo che usa i suoi già noti artifici discorsivi e oratori, dimostra che siamo caduti in trappola – eccolo – del vittimismo. Qui opera la risorsa utilizzata da Almeida quando difende pubblicamente se stesso come uomo di colore vittima del razzismo.

La stessa risorsa che elimina la responsabilità del partecipante a un programma televisivo di ampio respiro quando ferisce mortalmente donne di colore, ripetendo a voce alta e chiaramente un insulto dannoso che fa rivivere i traumi sociali del razzismo (l'autore qui veniva chiamato “scimmia” ai tempi della scuola vita) socialmente abominevole oggi.

Sul piano della militanza identitaria egemonica, l’esito del caso Silvio Almeida sarà certamente identico a quello dell’episodio che ha coinvolto il suddetto partecipante alla BBB24: non ci sarà il coraggio di andare oltre il discorso di lamentela verso la giustizia, perché lì troveremo poco altro che la semplice posizione della vittima nel suo lamento ad aeterno che, in questi casi, è un mantello per coprire la codardia.

* André Ricardo Dias è psicoanalista e professore di filosofia presso l'Istituto Federale di Educazione, Scienza e Tecnologia di Sertão Pernambucano (IF Sertão PE).


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