da ARI MARCELO SOLONE*
Deve esserci qualche punto nel giudaismo che, invece di sfociare nel sionismo o nella psicologia, sfocia nella preghiera.
Da prima dello scoppio degli ultimi disastri in Israele e Palestina, un rumore impedisce la riflessione all'interno del mondo ebraico. Il dibattito pubblico ha trasformato l’esistenza ebraica in un assordante binario: siamo a favore o contro Israele, siamo a favore o contro la Palestina. Queste categorie mescolano senza ostacoli il diritto all'ebraismo, all'islam, ai territori, alla diaspora e, localmente, sono legate da un certo sonnambulismo alle tensioni ormai quasi nominali tra sinistra e destra. Brulicano esperti, persone offese, eroi e altri tipi di disperati.
Questo testo non intende discutere del conflitto, né prendere posizione di fronte alla parata di orrori che ha scatenato. Vuole essere un appello comico e tardivo agli ebrei brasiliani dediti al mantenimento del valore della vita umana. Se sono cinquanta, dieci o due, queste povere cose valgano l'immensità di Sodoma e Gomorra in cui viviamo. Qui risiedono la speranza e l’impegno.
Diritto di abbandonare
Le formule facili rendono difficile che le alternative fioriscano nella confusione dell’esperienza interna. Un esempio è la separazione tra ebraismo e sionismo. Per un ebreo all’interno della sua comunità, non è difficile comprendere la trasposizione della retorica antiebraica nella categoria dell’antisionismo. I sionisti controllano le finanze, la politica internazionale, i media, seguono il... Talmud e non il Torah, loro sono Cazari convertiti e cercano di schiavizzare, femminilizzare e sottomettere il mondo, incoraggiando l’immigrazione di massa, la dissoluzione dei popoli, l’imperialismo capitalista, il comunismo internazionalista. Allo stesso tempo, il vero sionismo è anche un’incognita interna al mondo ebraico.
Per alcune generazioni, l’autoproclamata sinistra ebraica brasiliana si è trovata in un vicolo cieco che, ad eccezione di momenti di peggioramento degli orrori in Israele, sembra confortevole. È un vicolo autoimposto, un territorio tanto semplificatore quanto il trattore della separazione discorsiva (e non effettiva) tra ebraismo e sionismo. UN haskalah portò con sé il cupo soprannome di “ebreo non ebreo” che, se in un contesto di emancipazione e di antagonismo verso shtetl, aveva senso, data la distanza reale tra la vita e il commercio ebrei e il ethos borghese dell’Europa cristiana – è diventato oggi uno slogan debole. Non c'è scampo, l'assimilazione ha vinto e l'ebreo è stato incorporato nell'universo sensibile della borghesia. Un ebreo non ebreo non è altro che un cittadino vestito con il folklore della sua cultura ancestrale.
È colui che invoca il diritto alla laicità interna che trasforma l'ebraismo in un popolo come gli altri, dotato dell'esigenza di esercitare il proprio nazionalismo come gli altri. Resta la contraddizione di una sinistra legata alla destra e all'etnonazionalismo. Il superamento della religione sommato al mantenimento del titolo trasforma l'ebraismo in una mera tappa nella cronologia dell'emancipazione dei popoli, quando siamo in buoni rapporti. Il diritto di abbandonare l'ebraismo è assoluto o terribilmente limitato, alimentato dall'auto-repulsione.
Va oltre la sensibilità degli apparenti discepoli di Isaac Deutscher che il testo fondativo di questa idea inizi con la figura di Acher, il vicino eretico. Ben Abuia non è diventato l'ebreo non ebreo a causa dell'assenza del giudaismo, ma a causa del suo eccesso, poiché era uno dei sopravvissuti al pardes. Se la nostra sinistra ebraica, armata solo della paura della morte e dell’antisemitismo (ed essendo pienamente ebraica), non sapesse né cercasse di sedersi con i saggi in un beh, midrashAcher non solo si è seduto accanto agli insegnanti ma, quando si è alzato, questi gli sono caduti dalle ginocchia. sefarim acherim. Cavalcandogli il culo durante shabbat, un ebreo non ebreo è in grado di legarsi alla tradizione quanto basta per dire al suo discepolo non eretico quanta strada gli è consentito camminare, dato il divieto di melachot.
Se il haskalah ci ha insegnato la logica borghese dei diritti, la tradizione insegna la logica ebraica dei doveri. Abbiamo il diritto di abbandonarli, resta da vedere se sarebbe umano.
Un popolo non-come-gli-altri
C’è il dovere di immergersi nella liturgia. Non è negoziabile ed è uno dei frutti di cui beneficiamo sia nel mondo presente che nella realtà futura – insieme all’accoglienza degli stranieri, alla visita dei malati, agli atti di amore e giustizia e alla ricerca della pace, per citarne alcuni. La liturgia è il nostro palazzo. Lo ripetiamo, perché da esso ricaviamo una fonte di vita.
Il diritto ad abbandonare la liturgia, superata e legata all’universo pre-borghese – che ci ricorda la condizione pre-cittadina – è allo stesso tempo il diritto a dimenticare i testi e la fonte della vita. Alcuni elementi di questa letteratura appaiono invece interessanti alla luce del dibattito sulla condizione ebraica.
Cosa significa implorare Dio di salvarci dalle persone e dalle loro dinamiche? Cosa significa ripetere il mandato divino che ci è proibito il comportamento dei popoli? La preghiera strappa la richiesta di libertà alla sua astrazione. Siamo un popolo scelto per adempiere ad una serie di doveri arbitrari; tra questi la negazione delle dinamiche dei popoli. Si tratta di un valore che abita l'universo confessionale ebraico, non le sue forme moderne.
La richiesta secolare di assomigliare agli altri è storicamente giusta, ma religiosamente debole. Assomigliare agli altri implica la violenza contro la quale l'Assoluto stesso ci mette in guardia nella sua manifestazione. La liturgia ci insegna anche che non abbiamo nessun re all'infuori di Lui. La nostra fondazione consisteva nella nostra liberazione da Mitsraim, il luogo stretto, in modo da avere libero accesso al cherut olam, alla realtà verticale e ampia, davanti alla quale tutti gli esseri umani sono insignificanti e ugualmente fondamentali. È l’Assoluto che esige cura dell’orfano, della vedova e dello straniero – esseri abbondanti.
Non dobbiamo essere una luce per il popolo in quanto popolo perfetto, bensì come la promessa dell'antipopolo. Parte dell’antisemitismo storico nasce dalla comprensione dell’ebraismo come negazione dell’alterità, nello stesso tempo in cui la liturgia ci impone la percezione che siamo un’eterna reiterazione dell’alterità cosmica. Siamo una promessa di abolizione dei popoli e di preservazione dei popoli. Questi valori sfuggono ai diritti acquisiti dall’ haskalah e rendere il secolarismo ebraico meno potente per la trasformazione. Permettere all'ebraismo come tradizione religiosa di circolare solo nelle mani di reshaim è firmare la nostra condanna a morte.
L’insistenza degli attivisti laici sul fatto di avere qualcosa che può essere chiamata “etica ebraica” è ridicola quando diventa chiaro il disagio con cui gestiscono la tradizione. Un'etica ebraica è il risultato di un pensiero che si posiziona lifnei meshurat hadin, oltre i limiti della legge – cioè dipende dalla legge stessa come promessa di superamento della legge. Una “etica ebraica” militantemente moderna è ebraica quanto Breno Altman o André Lasjt.
il cimitero
Il mondo non ortodosso, lo spazio in cui un ebreo di sinistra può sperimentare, viene abbandonato. Case lussuose condannate al vuoto, all'interno delle quali echeggiano melodie di Debbie Friedman o Carlerbach per volti tristi in cerca di conforto piccolo-borghese.
La responsabilità del fallimento degli ebrei brasiliani ricade sugli ebrei brasiliani. Se oggi la Casa del Popolo è un buco nero che cerca di riscattarsi dal proprio ebraismo in favore delle utopie calpestate di un Israele socialista o di una civiltà ebraica puramente laica, seppur morale e plurale, la responsabilità è in grembo quelli che, anche per un attimo, hanno creduto che la coscienza ebraica risiedesse nel sangue, nella cucina, nelle canzoni, nelle belle storie o anche nella storia della reazione all'antisemitismo.
La nostra speranza è nella ripresa. Per parafrasare un giovane Leonard Cohen, deve esserci qualche punto nel giudaismo che, invece di sfociare nel sionismo o nella psicologia, sfocia nella preghiera.
*Ari Marcelo Solon È professore presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'USP. Autore, tra gli altri, di libri, Percorsi di filosofia e scienza del diritto: il legame tedesco nel futuro della giustizia (Prisma). [https://amzn.to/3Plq3jT]
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