da JEAN PAUL D'ANTONY*
Un nuovo tipo di frusta scivola giorno dopo giornoi nostri giorni, nel postcolonialismo, nei corpi dei nuovi sudditi pós coloniale
Ogni giorno nero o nero. Per favore aspetta un secondo. È complicato scegliere l'espressione linguistica appropriata perché tutte sembrano spingerci nella trappola del razzismo strutturale, in una rappresentazione di questo pregiudizio che può essere socio-culturalmente più o meno accettabile. Forse la riformulazione simbolica di questi lessici, nelle loro costituzioni identitarie, è molto più importante della loro scelta. Cominciamo così, ogni giorno i neri, in questa cosiddetta civiltà postmoderna, sono perseguitati e violati nei loro diritti, nella loro morale, nella loro dignità, nel loro diritto di essere, e il cosiddetto stato di diritto democratico usurpa le loro esistenze con l'argomentazione per attaccare una criminalità che, nella stragrande maggioranza dei casi, è strumento di un progetto più ampio di eugenetica ereditato dallo stato schiavista. Quello che è successo a George Floyd è il riflesso, l'esempio di migliaia in tutto il mondo, come qui in Brasile ogni giorno.
Dal 18 dicembre 1865, quando gli Stati Uniti abolirono la schiavitù attraverso il 13° emendamento alla Costituzione, al 13 maggio 1888 qui in Brasile, dove la Legge d'oro non era altro che un dispositivo legale per immettere manodopera nel mercato, lasciando seri interrogativi Per quanto riguarda la presunta azione umanista e le sue conseguenze, il razzismo strutturale è stato incorporato e strumentalizzato attraverso diverse reti modernizzate di pratiche e rappresentazioni coloniali che invadono la nozione di corpo e potere identitario di ciascuna di queste nazioni e delle loro singolarità. Ogni presentazione della violenza, della sottomissione dell'altro, della disumanizzazione, è diversa e reinventata in base alle esigenze di ogni spazio di potere. È così negli Stati Uniti così come in Brasile.
E così, un nuovo tipo di frusta scivola, giorno dopo giorno, nel postcolonialismo, nei corpi dei nuovi soggetti postcoloniali.
Le colonie sono presenti, lo stigma della colonizzazione è impresso su tutti i marciapiedi, nel riflesso delle vetrine, sulle telecamere dei centri commerciali, su ogni corpo nero disteso impunemente per le storie cancellate di chi fu violato e sconfitto, e ha dovuto adattarsi alla fantasia di un nuovo mondo la cui narrazione era di libertà e uguaglianza. I padroni di casa oggi si chiamano imprenditori e molti si occupano di politica, agiscono con mani non invisibili, hanno nomi e impronte digitali, favorevoli al mantenimento di un razzismo strutturale che non indietreggia, avanza solo visibilmente e incorpora, continuamente, al ethos di vario slogan.
Ora, accade che, il più delle volte, il mantenimento della violenza razzista sia strumentalizzato dall'industria consumistica per anestetizzare l'illuminismo, i sensi, la ragione critica e il sentimento di schiavitù pulsante in tanti angoli, in tanti colli, in tanti manganelli , dentro tante case invase, in tanti proiettili che si dice persi e in tanti spazi di parola, creando una serra che attutisce le urla, alimenta l'oblio, le mutilazioni nell'anima e le morti. L'isolamento delle classi, del genere e della razza è sempre stato presente, con lo scenario del Covid-19 questo isolamento è diventato più violento. Per quanto tempo il mantenimento di questa distopia sarà valutato solo da finestre, obiettivi, musica e solo da parole di "scusa" (quando queste si presenteranno ancora)? La distopia del razzismo è un cancro che attraversa l'ascendenza, va isolato, spento, per promuovere una società dove gli spazi delle differenze siano condivisi, non divisi, non più categorizzati. Gli spazi delle differenze vanno vissuti per condividere esperienze/esistenze, non come demarcazione di storie e memorie che soggiogano gli altri, senza demarcazioni. Non sto parlando qui di omogeneizzazione, sto parlando di rispetto, convivenza, convivenza.
La storia dei vincitori continua a rendere operativo il discorso in cui le politiche di inclusione vengono offerte alla popolazione come pane e politiche da circo, come semplice e difficile favore, cancellando il diritto di resistenza e il diritto storico-politico-esistenziale all'inclusione. George Floyd e João Pedro, e tanti George e tanti João, come il ragazzo Miguel Otávio, non sono numeri di una thanatos-politica, della necro-politica di tante nazioni, sono i risultati di genocidi estesi come gocce di acido e sangue negli occhi e sulla pelle dei neri e di tutti i gruppi isolati di diritti e voce che ogni giorno sono bersaglio di queste azioni. Secoli di asfissia.
Il polso batte ancora, il polso batte ancora, il polso batte ancora, e in ogni goccia di acido, e in ogni goccia di sangue, una valanga pulsante di persone scenderà in strada urlando e cercando spazio per la pace nella corrente storia. Valanga contro Pace, contraddittoria? NO! La poetica della disperazione, la poetica delle voci smorzate che sono già traboccate. Ciò che trasuda è dolore, e che questo dolore diventi la freccia che strapperà (una volta per tutte, costantemente in aria, senza cadere, come un Araldo) il movimento di chi si ostina a frammentare e soggiogare l'umanità sulla base dei propri pregiudizi. Non dovrebbe essere così, ma purtroppo anche la morte (no! gli omicidi!) risveglia la rabbia della resistenza. La resistenza deve pulsare sempre, vigile, e non solo urlare ad ogni diritto e ad ogni vita soffocata. Forse così, molto forse, resta da credere che il dolore che oggi prende le strade degli USA e del mondo sia la finestra di una nuova umanità. In verità la memoria insegna che molte di queste azioni sono passate alla storia, ma non sono state dimenticate, sono diventate la polvere da sparo che solca l'aria che esplode, alimentando il viaggio. Qualunque cosa! Quindi non basta credere. Contraddicendo isolamento e distanza, come dice la canzone di Geraldo Vandré, “Pra Não Dizer Que Não Falai De Flores”, “Camminando e cantando / E seguendo il canto / Siamo tutti uguali / A braccetto o no / Nelle scuole, nelle strade / Campi, edifici / Camminando e cantando (…), il riferimento qui è un grido della voce di resistenza e di unione, come le maschere nelle strade soffocano meno di un ginocchio sul collo o di una pallottola nel petto. Contro la morte per asfissia da covid-19. Contro la morte causata dal soffocamento del razzismo. Quale malattia uccide di più?
Il razzismo cerca sempre di sfigurare l'identità della sua vittima per soggiogarla e rendere la sua esistenza una miseria di fronte all'aggressione, così come rendere l'aggressione una miseria allo scopo di non giustificare l'applicazione della giustizia. Ciò di cui l'aggressività non tiene conto è che ogni essere umano è una casa che ospita identità diverse. Questa casa è il tuo corpo dove abita la biblioteca delle tue storie, ricordi, ricordi e, come tale, va rispettata. Non si invade la casa dell'altro, la sua privacy, perché ogni tipo di invasione è violenza, quindi reato.
È imperativo non lasciare la trasparenza della negazione del razzismo in tutti gli spazi preposti al tempo. Il tempo si è rivelato anodino, alimentando la connivenza di coloro che lasciano a loro la cancellazione della violenza razzista. Chi usa questa premessa si sbaglia. Il razzismo è l'estetica della crudeltà, le cui narrazioni non sono finzioni su cui possiamo soffermarci con la pulsione di piacere della lettura. Il razzismo è un'eredità malata, un cancro che si sta diffondendo dalle stive delle navi negriere agli spazi luminosi dei grandi viali di questo nuovo secolo ed esposto in ogni riflesso di finestra, così come in ogni promessa dell'industria di consumo e della sua bio -potere per la regolazione di una falsa ascensione sociale, di un ruvido e opaco riflesso di libertà e riconoscimento identitario, vestendo corpi e coscienze, spesso svuotate di illuminismo, al servizio di un'estetica biancastra per l'accettazione di sé e dell'altro oppressore. Ogni oppressore è, consapevole o meno del suo spazio e ruolo di fronte all'oppresso, educato o addomesticato anche da una cultura postcoloniale, erede di nuove nicchie e metodi del razzismo e della sua storia di diramazioni molto distanziate, che vanno contemplate e problematizzate così quella vigilanza non abbassa mai la guardia né resta a bocca aperta in attesa dell'effimera anestetizzazione dell'ampia destra esistenziale. Che la valanga avanzi, che la frusta non schiocchi più, o che l'orchestra stridente e ironica continui solo a nutrirsi di una folla, il cui suono di frusta perduri giorno dopo giorno, fino alla notte, e tante voci che erano taciute continueranno a urlare senza farsi sentire. : “Signore Dio dei miserabili! / Dimmi tu, Signore Dio! / Se è follia... se è vero / Quanto orrore davanti al cielo?!.
*Giovanni Paolo d'Antonio è professore all'Università Federale di Sergipe, caporedattore della rivista Entheoria: lettere e discipline umanistiche.