Il racconto nella rivoluzione

Bridget Riley, Senza titolo, 1968.
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da JULIO CORTAZAR*

Conferenza tenuta all'Avana negli anni '1960

Oggi, davanti a voi, mi trovo in una situazione piuttosto paradossale. Uno scrittore di racconti argentino è disposto a scambiare idee sul racconto senza che i suoi ascoltatori e interlocutori, con alcune eccezioni, non sappiano nulla del suo lavoro. L'isolamento culturale che continua a colpire i nostri Paesi, sommato all'ingiusta incomunicabilità a cui Cuba è stata sottoposta in questo momento, hanno determinato che i miei libri, di cui sono già pochi, non siano pervenuti, se non eccezionalmente, nelle mani di lettori volenterosi ed entusiasti come i gentiluomini. Il brutto di tutto questo non è tanto che tu non abbia avuto modo di giudicare le mie storie, ma che mi sento un po' come un fantasma che viene a parlarti senza quella relativa tranquillità data dal conoscersi preceduto dal lavoro svolto negli anni. .

Si dice che il desiderio più ardente di un fantasma sia quello di recuperare almeno una parvenza di corporeità, qualcosa di tangibile che lo riporti, per un attimo, alla sua vita di carne e ossa. Per avere un po' di tangibilità davanti a te, dirò in poche parole la direzione e il significato delle mie storie. Poiché mi accingo a trattare alcuni aspetti del racconto come genere letterario ed è possibile che alcune mie idee sorprendano o sconvolgano coloro che le ascolteranno, mi sembra un elementare onore definire il tipo di narrazione che mi interessa, sottolineando il mio modo speciale di intendere il mondo.

Quasi tutti i racconti che ho scritto appartengono al genere cosiddetto fantastico, in mancanza di un nome migliore, e si oppongono a quel falso realismo che consiste nel credere che tutte le cose possano essere descritte e spiegate come ottimismo filosofico e campo scientifico del Settecento, cioè all'interno di un mondo governato più o meno armonicamente da un sistema di leggi, principi, rapporti di causa ed effetto, psicologie definite, geografie ben mappate. Nel mio caso, il sospetto di un altro ordine più segreto e meno comunicabile e la fruttuosa scoperta di Alfred Jarry, per il quale il vero studio della realtà non risiedeva nelle leggi, ma nelle eccezioni a queste leggi, sono stati alcuni degli orientamenti principi della mia ricerca di una letteratura lontana da ogni ingenuo realismo.

Per questo, se negli spunti che seguono trovi una predilezione per tutto ciò che c'è di eccezionale nella storia, siano i temi o anche le forme espressive, credo che questa presentazione del mio modo di intendere il mondo spiegherà il mio posizione decisionale e la mia concentrazione sul problema. All'estremo estremo, si può dire che ho parlato della storia solo mentre la praticavo. Tuttavia, non credo che questo sia il caso. Sono sicuro che ci sono certe costanti, certi valori che si applicano a tutte le storie, fantastiche o realistiche, drammatiche o umoristiche.

Ma, oltre a questa sosta nel cammino che ogni scrittore deve compiere a un certo punto del proprio lavoro, parlare del racconto è per noi di particolare interesse, poiché quasi tutti i paesi americani di lingua spagnola gli stanno dando un'importanza eccezionale, che non lo è mai stato in altri paesi latini come la Francia o la Spagna. Da noi, come è naturale nelle giovani letterature, la creazione spontanea precede quasi sempre l'esame critico, ed è bene che sia così. Nessuno può affermare che i racconti vengano scritti solo dopo che le loro leggi sono note.

Primo, non esistono tali leggi; al massimo si può parlare di punti di vista, di certe costanti che danno una struttura a questo genere così poco classificabile. In secondo luogo, teorici e critici non devono essere essi stessi scrittori di racconti, ed è naturale che entrino in scena solo quando c'è già una raccolta, un volume di letteratura che permette di interrogare e chiarire il suo sviluppo e le sue qualità. In America, che sia a Cuba o in Messico, in Cile o in Argentina, un gran numero di scrittori di racconti lavora dall'inizio del secolo senza conoscersi, scoprendosi, a volte, quasi postumo.

Di fronte a questo panorama privo di sufficiente coerenza, in cui pochi conoscono a fondo il lavoro degli altri, credo sia inutile parlare del racconto al di sopra delle particolarità nazionali e internazionali, perché è un genere che tra noi ha un'importanza e una vitalità che cresce giorno dopo giorno. Un giorno si faranno antologie definitive – come fanno ad esempio i paesi anglosassoni – e allora si saprà fin dove siamo riusciti ad arrivare. Al momento non mi sembra inutile parlare del racconto in astratto, come genere letterario. Se abbiamo un'idea convincente di questa forma di espressione letteraria, essa potrà contribuire a stabilire una scala di valori per questa antologia ideale che si sta per realizzare. C'è troppa confusione, troppe incomprensioni in questo campo. Mentre gli autori di racconti svolgono il loro compito, è tempo di parlare di quel compito in sé, al di là delle persone e delle nazionalità.

Per comprendere il carattere peculiare del racconto, si è soliti paragonarlo al romanzo, genere molto più popolare e su cui abbondano i precetti. Rileva, ad esempio, che il romanzo si sviluppa su carta e, quindi, durante il tempo della lettura, senza altri limiti che l'esaurimento del materiale romanzato; il racconto, dal canto suo, parte dalla nozione di limite, e in primo luogo dal limite fisico, al punto che in Francia, quando un racconto supera le venti pagine, si chiama già “nouvelle”, un genere situato tra il racconto e il romanzo stesso.

Uno scrittore argentino, appassionato di boxe, mi ha detto che in questa lotta tra un testo avvincente e il suo lettore, il romanzo vince sempre ai punti, mentre il racconto deve vincere per KO. Questo è vero nella misura in cui il romanzo accumula progressivamente i suoi effetti sul lettore, mentre una buona storia è incisiva, pungente, senza quartiere fin dalle prime frasi. Questo non va preso troppo alla lettera, perché il bravo narratore è un pugile molto astuto, e molti dei suoi colpi iniziali possono sembrare inefficaci quando in realtà stanno già minando le scorte più solide dell'avversario.

Prendi qualsiasi racconto che ti piace e guarda la sua prima pagina. Sarei sorpreso se trovassero elementi liberi, meramente decorativi. Lo scrittore di racconti sa di non poter procedere cumulativamente, di non avere il tempo come alleato; la sua unica risorsa è lavorare in profondità, verticalmente, sopra o sotto lo spazio letterario. E questo, che così espresso sembra una metafora, esprime tuttavia l'essenza del metodo. Sono da condannare il tempo e lo spazio del racconto, sottoposti a forti pressioni spirituali e formali per provocare quella “apertura” a cui alludevo prima. Chiediti solo perché una particolare storia è brutta. Non è male per il tema perché in letteratura non ci sono temi buoni o cattivi, c'è solo una trattazione buona o cattiva del tema. Né è male perché i personaggi mancano di interesse, poiché anche una pietra è interessante quando se ne occupa un Henry James o un Franz Kafka. Una storia è brutta quando è scritta senza questa tensione che deve manifestarsi fin dalle prime parole o dalle prime scene. E così possiamo già anticipare che le nozioni di significato, intensità e tensione ci permetteranno, come si vedrà, di avvicinarci alla struttura stessa del racconto.

Abbiamo detto che lo scrittore di racconti lavora con materiale che noi qualifichiamo significativo. L'elemento significativo del racconto sembrava risiedere principalmente nel suo soggetto, il fatto di aver scelto un evento reale o fittizio che ha quella misteriosa proprietà di irradiare qualcosa di più fuori di sé a tal punto che un comune episodio domestico, come accade in così molti mirabili resoconti di una Katherine Mansfield o di una Sherwood Anderson, diventa il riassunto implacabile di una certa condizione umana, o il simbolo bruciante di un ordine sociale o storico.

Una storia è significativa quando rompe i propri limiti con quell'esplosione di energia spirituale che improvvisamente illumina qualcosa che va ben oltre la piccola e talvolta miserabile storia che racconta. Penso, ad esempio, al tema della maggior parte dei mirabili racconti di Anton Cechov. Cosa c'è che non sia tristemente quotidiano, mediocre, spesso conformista o inutilmente ribelle? Quello che viene raccontato in questi racconti è quasi quello che da bambini, nelle noiose riunioni che dovevamo condividere con gli adulti, ascoltavamo raccontare nonni o zie, la piccola e insignificante cronaca familiare di ambizioni frustrate, di modesti drammi locali, di angoscia nei limiti di una stanza, di un pianoforte, di un tè con i dolci.

Tuttavia, i racconti di Katherine Mansfield di Cechov sono significativi, qualcosa esplode in essi mentre li leggiamo e propongono una sorta di rottura con la quotidianità che va ben oltre il racconto recensito. Avrete già capito che questo significato misterioso non risiede solo nel tema della storia, perché in effetti la maggior parte delle brutte storie che tutti abbiamo letto contengono episodi simili a quelli di cui si occupano gli autori citati. L'idea di significato non può avere senso se non la mettiamo in relazione con quella di intensità e tensione, con la tecnica utilizzata per sviluppare il tema. È qui che, bruscamente, avviene la distinzione tra il buono e il cattivo narratore. Ecco perché dovremo soffermarci il più attentamente possibile a questo bivio, per cercare di capire un po' di più questa strana forma di vita che costituisce una storia realizzata e vedere perché è viva mentre altre, apparentemente simili ad essa, lo sono nient'altro che pittura su carta, cibo per l'oblio.

Guardiamo la cosa dal punto di vista dello scrittore di racconti e, in questo caso, obbligatoriamente, dalla mia personale versione dell'argomento. Uno scrittore di racconti è un uomo che, immediatamente, circondato dall'immenso incomprensibile del mondo, impegnato in misura maggiore o minore con la realtà storica che lo contiene, sceglie un certo tema e ne fa una storia. Questa scelta di un tema non è così semplice. A volte lo scrittore di racconti sceglie e altre volte si sente come se il tema gli si imponesse irresistibilmente, spingendolo a scriverlo. Nel mio caso, la stragrande maggioranza delle mie storie sono state scritte – diciamo – al di fuori della mia volontà, al di sopra e al di sotto della mia coscienza razionale, come se non fossi altro che un mezzo attraverso il quale si manifestava una forza aliena. Ma questo, che può dipendere dal temperamento di ciascuno, non cambia il fatto essenziale, che è che in un dato momento c'è un tema, inventato o scelto volontariamente, cioè stranamente imposto da un piano dal quale nulla è difendibile. C'è un tema, ripeto, e questo diventerà un racconto. Prima che ciò accada, cosa possiamo dire del tema stesso? Perché questo argomento e non un altro? Quali ragioni consapevolmente o inconsapevolmente spingono lo scrittore di racconti a scegliere un certo tema?

Mi sembra che il tema da cui emergerà una buona storia sia sempre eccezionale, ma non voglio dire con questo che un tema debba essere straordinario, fuori dal comune, misterioso o insolito. Al contrario, potrebbe essere una storia perfettamente banale e quotidiana. L'eccezionalità sta in una qualità simile a quella di una calamita: un buon tema attrae tutto un sistema di relazioni connesse, coagula nell'autore e poi nel lettore una quantità immensa di nozioni, scorci, sentimenti e anche idee che fluttuavano virtualmente in la sua memoria o nella tua sensibilità; un buon tema è come il sole, una stella attorno alla quale ruota un sistema planetario di cui molte volte non si è a conoscenza finché lo scrittore di racconti, astronomo delle parole, non ce ne svela l'esistenza.

O, per essere al tempo stesso più modesti e attuali: un buon tema ha qualcosa di un sistema atomico, di un nucleo attorno al quale ruotano gli elettroni; e tutto questo, in fondo, non è già come una proposta di vita, una dinamica che ci spinge ad uscire da noi stessi per entrare in un sistema di relazioni più complesso e più bello? Molte volte mi sono chiesto quale sia il pregio di certi racconti indimenticabili. In quel momento li abbiamo letti insieme a tanti altri, che potrebbero essere anche degli stessi autori. Ed ecco, gli anni sono passati e tanto abbiamo vissuto e dimenticato, ma questi piccoli e insignificanti racconti, questi granelli di sabbia nel mare immenso della letteratura sono ancora lì, ad abbaiarci.

Non è vero che ognuno ha la propria raccolta di racconti? Io ho il mio e potrei darti qualche nome. Io ho William Wilson, di Edgar Poe, ce l'ho palla di sego, di Guy de Maupassant, I piccoli pianeti girano e girano; Ecco qui Un ricordo di Natale, di Truman Capote; Tlon, Ugbar, Orbis, Tertius, di Jorge Luis Borges; Un sogno realizzato, di Juan Carlos Onetti; La morte di Ivan Illich, di Tolstoj; Cinquantamila, di Hemingway; I sognatori, di Izak Dinesen, e così potrebbe continuare all'infinito... Avrete già notato che non tutti questi racconti sono necessariamente antologici.

Perché indugiano nella memoria? Pensa ai racconti che non potresti dimenticare e vedrai che hanno tutti la stessa caratteristica: legano insieme una realtà infinitamente più vasta di quella della loro mera storia, e per questo ci hanno influenzato come una forza che non avrebbe più insospettire la modestia del suo contenuto apparente, la brevità del suo testo. E quell'uomo che a un dato momento sceglie un tema e con esso scrive un racconto sarà un grande scrittore di racconti se la sua scelta contiene – a volte senza che lui lo sappia consapevolmente – quella favolosa apertura dal piccolo al grande, dall'individuo e circoscritta all'esistenza stessa della condizione umana.

Siamo così giunti alla fine di questa prima tappa della nascita di un racconto e siamo giunti alla soglia della sua stessa creazione. Lo scrittore di racconti si trova di fronte al suo tema, di fronte a questo embrione che è già vita, ma che non ha ancora acquisito la sua forma definitiva. Per lui, questo tema ha un significato, ha un significato. Ma se tutto si riducesse a questo, sarebbe di scarsa utilità. Ora, come ultimo termine del processo, come giudice implacabile, il lettore attende l'anello finale del processo creativo, il compimento o il fallimento del ciclo.

Ed è allora che il racconto deve nascere ponte, deve nascere passaggio, deve fare il salto che proietta il senso iniziale scoperto dall'autore, a quello più passivo e meno vigile e spesso anche indifferente estremo che chiamiamo il lettore. Gli scrittori di racconti inesperti tendono a cadere nell'illusione di immaginare che basterà loro scrivere semplicemente su un argomento che li ha commossi, per commuovere, a loro volta, i lettori. Cadono nell'ingenuità di quell'individuo che pensa che suo figlio sia bello e dà per scontato che gli altri lo vedano bello.

Nessuno dei lord avrà dimenticato il tino di amontillado, di Edgar Poe. La cosa straordinaria di questo racconto è il brusco disprezzo di qualsiasi descrizione dell'ambiente. Con la terza o quarta frase siamo già nel cuore del dramma, assistendo all'inesorabile compimento della vendetta. Gli assassini, di Hemingway, è un altro esempio di intensità raggiunta eliminando tutto ciò che non è essenzialmente drammatico. Tuttavia, siamo molto lontani dal sapere cosa accadrà nella storia, ma comunque; non possiamo allontanarci dalla sua atmosfera. In caso di La botte di Amontillado e Gli assassini, i fatti spogliati di ogni preparazione ci balzano addosso e ci afferrano; d'altra parte, in un lungo e scorrevole resoconto di Henry James – La lezione del maestro, per esempio – si sente subito che i fatti stessi crescono di importanza, che tutto sta nelle forze che li hanno scatenati, nelle maglie sottili che li hanno preceduti e accompagnati. Ma sia l'intensità dell'azione che la tensione interna della storia sono il prodotto di ciò che ho chiamato prima: il mestiere dello scrittore, ed è qui che non andremo alla fine di questa passeggiata attraverso il racconto.

Nel mio paese, e ora a Cuba, ho potuto leggere racconti degli autori più svariati: maturi o giovani, di città e di campagna, dediti alla letteratura per ragioni estetiche o per imperativi sociali del momento, impegnati o no impegnato. Ebbene, e anche se mi sembra di ripetere l'ovvio, sia in Argentina che qui le belle storie le scrivono coloro che padroneggiano il mestiere nel senso già indicato. Un esempio argentino lo chiarirà meglio. Nelle nostre province centro-settentrionali esiste una lunga tradizione di racconti orali che i gauchos si raccontano di notte intorno al fuoco, che i genitori continuano a raccontare ai figli, e che improvvisamente passano attraverso la penna di uno scrittore regionalista e, in un travolgente maggior parte dei casi, diventano brutte storie.

Capita? Le storie stesse sono deliziose, traducono e riassumono l'esperienza, il senso dell'umorismo e il fatalismo dell'uomo di campagna, e alcune raggiungono anche una dimensione tragica o poetica. Quando le sentiamo dalla bocca di un vecchio criollo, tra chimarrão e chimarrão, sentiamo che il tempo si annulla, e pensiamo che anche il greco aedos raccontasse così le gesta di Achille, per l'ammirazione di pastori e viandanti.

Ma nel momento in cui Omero avrebbe dovuto fare di questa somma di tradizioni orali un'Iliade o un'Odissea, nel mio paese appare un signore per il quale la cultura delle città è un segno di decadenza, per il quale i narratori che tutti amiamo sono degli esteti , che scriveva per il mero diletto delle classi sociali liquidate, e questo signore capisce, d'altra parte, che per scrivere un racconto breve basta scrivere un racconto tradizionale, conservando il più possibile il tono della conversazione, le mode contadine, gli errori grammaticali, quello che chiamano colore locale. Non so se questo modo di scrivere storie popolari sia coltivato a Cuba; Spero di no, perché nel mio paese non sono rimasti che volumi indigeribili che non interessano né ai contadini, che preferiscono continuare ad ascoltare le favole tra un bicchiere e l'altro, né ai lettori di città, che saranno corrotti, ma che si considerano lettori dei classici del genere.

D'altra parte – e mi riferisco anche all'Argentina – siamo stati scrittori come Roberto Payró, Ricardo Güiraldes, Horácio Quiroga e Benito Lynch che, partendo anche da temi spesso tradizionali, hanno sentito parlare di vecchi “criollos” come a “Don Segundo Sombra”, hanno saputo valorizzare questo materiale e trasformarlo in un'opera d'arte. Ma Quiroga, Güiraldes e Lynch conoscevano a fondo il mestiere dello scrittore, cioè accettavano solo temi significativi e arricchenti, proprio come Omero, molti episodi bellicosi e magici devono essere ignorati per lasciare solo quelli che ci sono pervenuti grazie a la loro enorme forza mitica, la sua risonanza di archetipi mentali, di ormoni psichici, come chiamavano miti Ortega y Gasset. Quiroga, Güiraldes e Lynch furono scrittori di dimensione universale, senza pregiudizi localisti, etnici o populisti; per questo, oltre a scegliere con cura i temi delle loro storie, le sottoponevano a una forma letteraria, l'unica in grado di trasmettere al lettore tutti i loro valori, tutto il loro fermento, tutta la loro proiezione in profondità e in altezza. Hanno scritto in modo teso, hanno mostrato intensamente.

L'esempio che ho fatto può interessare Cuba. È evidente che le possibilità che la Rivoluzione offre a uno scrittore di racconti sono pressoché infinite. La città, la campagna, la lotta, il lavoro, i diversi tipi psicologici, i conflitti ideologici e caratteriali; e tutto questo sembra essere esacerbato dalla voglia che vedi in te di agire, di esprimerti, di comunicare in un modo che non hai mai saputo fare prima. Per tutto questo, come si tradurrà in grandi storie, storie che raggiungano il lettore con la forza e l'efficacia necessarie? È qui che vorrei applicare concretamente quanto ho detto su un terreno più astratto.

L'entusiasmo e la buona volontà da soli non bastano, così come non basta il solo mestiere di scrittore per scrivere storie che fissino letteralmente (cioè nell'ammirazione collettiva, nella memoria di un popolo) la grandezza di questa Rivoluzione in progresso. Qui, più che altrove, si richiede oggi una fusione totale di queste due forze, quella dell'uomo pienamente impegnato nella sua realtà nazionale e mondiale e quella dello scrittore lucidamente sicuro del suo mestiere. In questo senso non c'è errore possibile. Per quanto veterano, per quanto esperto possa essere uno scrittore di racconti, se gli manca una motivazione radicata, se le sue storie non nascono da un'esperienza profonda, il suo lavoro non andrà oltre un mero esercizio estetico. Ma il contrario sarà ancora peggio, perché il fervore, la volontà di comunicare un messaggio, non ha valore se mancano gli strumenti espressivi, stilistici, che rendono possibile questa comunicazione.

A questo punto, tocchiamo il nocciolo della questione. Credo, e lo dico dopo aver soppesato a lungo tutti gli elementi che entrano in gioco, che scrivere per una rivoluzione, voler scrivere dentro una rivoluzione, voler scrivere in modo rivoluzionario, non significhi, come molti credono, necessariamente scrivendo della rivoluzione stessa. Giocando un po' con le parole, Emmanuel Carballo ha detto qui qualche giorno fa che a Cuba sarebbe più rivoluzionario scrivere storie fantastiche che storie su temi rivoluzionari. Naturalmente la frase è esagerata, ma produce un'impazienza molto rivelatrice.

Da parte mia, credo che lo scrittore rivoluzionario sia colui nel quale la consapevolezza del suo libero impegno individuale e collettivo si fonde indissolubilmente con quell'altra sovrana libertà culturale che gli conferisce la piena padronanza del suo mestiere. Se questo scrittore responsabile e lucido decide di scrivere letteratura fantastica, psicologica o retrospettiva, il suo atto è un atto di libertà all'interno della rivoluzione, motivo per cui è anche un atto rivoluzionario, sebbene le sue storie non si occupino di questioni individuali o collettive azioni che la rivoluzione adotta.

Contrariamente ai rigidi criteri di molti che confondono la letteratura con la pedagogia, la letteratura con l'insegnamento, la letteratura con l'indottrinamento ideologico, uno scrittore rivoluzionario ha tutto il diritto di rivolgersi a un lettore molto più complesso, molto più esigente in materia spirituale di quanto immaginano gli scrittori e i critici improvvisati. dalle circostanze e convinti che il loro mondo personale sia l'unico mondo che c'è, che le preoccupazioni del momento siano le uniche preoccupazioni valide. Ripetiamo, applicando a ciò che ci circonda a Cuba, la mirabile frase di Amleto ad Orazio: “Ci sono molte più cose in cielo e in terra di quanto suppone la tua filosofia…”.

E pensiamo che uno scrittore non si giudica solo dal tema dei suoi racconti o romanzi, ma dalla sua presenza viva nel cuore della comunità, dal fatto che l'impegno totale della sua persona è garanzia inconfutabile di verità e la necessità del suo lavoro, per quanto estraneo possa sembrare alle circostanze del momento. Questo lavoro non è estraneo alla rivoluzione perché non è accessibile a tutti. Al contrario, dimostra che esiste un vasto settore di potenziali lettori che, in un certo senso, sono molto più distanti di chi scrive dai fini ultimi della rivoluzione, da quei traguardi della cultura, della libertà, del pieno godimento del bene umano condizione che i cubani si pongono: l'ammirazione di quanti li amano e li comprendono.

Più alto è lo scopo degli scrittori che sono nati per esso, più alti saranno gli obiettivi finali del popolo a cui appartengono.

Attenti alla facile demagogia di una letteratura esigente accessibile a tutti! Molti di coloro che la sostengono non hanno altro motivo per farlo se non la loro evidente incapacità di comprendere una più ampia gamma di letteratura. Chiedono a gran voce temi popolari, senza sospettare che molte volte il lettore, per quanto semplice possa essere, istintivamente distinguerà tra un racconto popolare scritto male e un racconto più difficile e complesso, ma che lo costringerà a lasciare il suo piccolo mondo circostante per un momento e ti mostrerà qualcos'altro, qualunque cosa sia, ma qualcos'altro, qualcosa di diverso. Non ha senso parlare seccamente di argomenti popolari. Le storie su temi popolari saranno buone solo se si adatteranno, come qualsiasi altra storia, alle impegnative e difficili meccaniche interne che abbiamo cercato di mostrare nella prima parte di questa conferenza. Anni fa, ho avuto la prova di questa affermazione in Argentina, in un circolo di uomini di campagna che frequentavamo alcuni scrittori.

Qualcuno ha letto un racconto tratto da un episodio della nostra guerra d'indipendenza, scritto con una voluta semplicità per collocarlo, come diceva l'autore, “al livello del contadino”. La relazione è stata ascoltata educatamente, ma era difficile rendersi conto che non aveva toccato una corda. Poi uno di noi ha letto La zampa di Mono, il racconto giustamente famoso di WW Jacobs. L'interesse, l'emozione, lo stupore e infine l'entusiasmo sono stati straordinari. Ricordo che passammo il resto della notte a parlare di stregoneria, streghe, vendette diaboliche. E sono sicuro che il racconto di Jacobs sopravvive nella memoria di questi gaucho analfabeti, mentre il racconto apparentemente popolare, fabbricato per loro, con il suo vocabolario, le sue apparenti possibilità intellettuali e i suoi interessi patriottici, deve essere dimenticato quanto lo scrittore che ha scritto prodotto.

Ho visto l'emozione che provoca una rappresentazione di Borgo tra gente semplice. Questo lavoro sottile e difficile, se esistono, e che continua ad essere oggetto di studi accademici di infinite controversie. È vero che queste persone non riescono a capire molte cose di cui sono appassionati gli specialisti del teatro elisabettiano. Ma cosa importa? Solo la tua emozione conta; il suo stupore e il suo trasporto di fronte alla tragedia del giovane principe danese. Il che prova che Shakespeare scriveva veramente per il popolo, in quanto il suo tema era profondamente significativo per tutti – su piani diversi, certo, ma raggiungendo un po' tutti – e che la trattazione teatrale di quel tema aveva l'intensità caratteristica dei grandi scrittori e grazie a cui le barriere intellettuali apparentemente più rigide vengono abbattute e gli uomini si riconoscono e fraternizzano a un livello che è al di là o al di sotto della cultura. Sarebbe ingenuo, naturalmente, credere che ogni grande opera possa essere compresa e ammirata dalla gente semplice; non lo è e non può esserlo. Ma l'ammirazione suscitata dalle tragedie greche o da quelle di Shakespeare, l'interesse appassionato suscitato da tanti racconti e romanzi tutt'altro che semplici o accessibili, dovrebbero far sospettare ai sostenitori del male chiamato "arte popolare" che la loro nozione del popolo sia parziale, ingiusto e, in ultima analisi, pericoloso.

Le persone non si fanno un favore se gli viene offerta una letteratura che possono assimilare senza sforzo, passivamente, come chi va al cinema a vedere cowboys. Quello che devi fare è educarlo e questo è, in una prima fase, un compito pedagogico e non letterario. È stata per me un'esperienza confortante vedere come a Cuba gli scrittori che più ammiro partecipino alla rivoluzione dando il meglio di sé, senza limitare parte delle loro possibilità in aree di arte presumibilmente popolare che non saranno utili a nessuno. Un giorno Cuba avrà una raccolta di racconti e romanzi che conterranno, trasmutata sul piano estetico, eternata nella dimensione extratemporale dell'arte, la sua opera rivoluzionaria di oggi.

Ma queste opere non saranno state scritte per obbligo, dallo scrittore che sente di doverle modellare in racconti, romanzi o commedie o slogan del momento. I suoi temi nasceranno quando sarà il momento giusto, quando lo scrittore sentirà di doverli plasmare in racconti, romanzi, opere teatrali o poesie. I suoi temi conterranno un messaggio autentico e profondo, perché scelti non da un imperativo didascalico o di proselitismo, ma da una forza irresistibile che si imporrà all'autore, e che lui, facendo appello a tutte le risorse della sua arte e la sua tecnica, senza sacrificare niente e nessuno, trasmetterà al lettore come si trasmettono le cose fondamentali: di sangue in sangue, di mano in mano, di uomo in uomo.

* Julio Cortázar (1914-1984), giornalista e scrittore, è autore, tra gli altri libri, di Il gioco della campana (Compagnia di lettere).

Traduzione: Zwingli Dias per la rivista Incontri con la civiltà brasiliana no.12, giugno 1979.

 

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