da JORGE LUIZ SOUTO MAIOR*
Nel gioco STF, a perdere è la classe operaia: fino a quando?
Non è una novità che i media mainstream si siano posizionati come paladini della democrazia, ma questa azione militante si scontra con il limite della difesa della storica alleanza che mantiene con gli interessi dei settori economici che la sostengono. Anche il suo attacco alle sfuriate autoritarie e populiste dei governanti trova sempre un punto di tregua quando vengono utilizzate pratiche antidemocratiche per ridurre i diritti sociali.
I media mainstream, che si dichiarano intransigenti difensori della democrazia, si sono alleati con l'intero processo antidemocratico culminato nella “riforma del lavoro”. Per inciso, i recenti shock alle istituzioni democratiche del paese sono stati stimolati proprio per imporre alla classe operaia una revoca incostituzionale dei diritti.
In piena pandemia il lavoro e, di conseguenza, i lavoratori erano visti, ad occhio nudo, come essenziali. Ma è stata mantenuta tutta l'invisibilità sulle precarie condizioni di lavoro a cui l'intera classe operaia brasiliana era portata sia dalla “riforma” sindacale sia dal reiterato, verificatosi per decenni, delle iniziative di distruzione del progetto sociale instaurate nel Costituzione del 1988.
Nel 2020, lavoratori e lavoratrici sono stati applauditi per aver salvato vite con il loro lavoro e, allo stesso tempo, essere stati sottoposti a nuove forme di precarietà e riduzione del reddito. L'opera fu vista e applaudita, ma le condizioni di vita e di lavoro degli operai furono, solennemente, ignorate.
Nel gioco di scena che si instaura, i poteri si fronteggiano pubblicamente e quando si sentono logorati cercano il punto d'intesa che è il patto attorno allo smantellamento della rete di protezione sociale che era costituzionalmente garantita ai lavoratori.
È stato così dagli anni '1990 e ci sono molti esempi di governanti con le spalle al muro che cercano l'equilibrio attraverso promesse di favori ai settori economici. Il fatto, tra l'altro, può essere verificato nella formazione indiziaria delle "agende del lavoro" presso il Tribunale federale.
Il giudizio sull'aggiornamento del credito lavoro emesso dalla STF (ADC 58 e ADC 59) la scorsa settimana è un'ulteriore prova di questo copione. La settimana precedente, l'STF era stato posto sotto sorveglianza dai media mainstream, essendo stato precedentemente accusato di aver stracciato la Costituzione se avesse autorizzato il rinnovo dei mandati di Senato e Camera dei Deputati.
Opponendosi al voto del relatore e andando contro le previsioni, la maggioranza dei membri dell'STF non ha autorizzato la rielezione, cosa che ha soddisfatto i media mainstream, ma ha generato instabilità interna. Affinché tutto potesse sistemarsi, qual è stata pensata la soluzione equilibrata? La stessa di sempre: l'istituzione di un'agenda sindacale in cui la sentenza possa ristabilire l'ordine interno e ammorbidire i riflettori esterni.
È in questo contesto che la STF ha definito la nuova forma di aggiornamento delle domande di lavoro, pur mantenendo questioni fondamentali relative all'accesso al tribunale del lavoro (ADI 5766) e all'addebito del risarcimento del danno morale (ADI 5870) – o perché non avere argomenti per negare l'incostituzionalità delle disposizioni introdotte nella “riforma” del lavoro, o per mantenerle come patrimonio di fronte a un nuovo attacco mediatico.
Il risultato, per quanto la speranza che insiste nell'ingannarci abbia guidato la nostra immaginazione, è stato quello, del tutto prevedibile, integrato nel contesto storico della ritrattazione dei diritti del lavoro sulla base di presunte argomentazioni economiche.
Ma non era un compito semplice, cioè perché l'STF aveva già deciso che il TR non poteva essere un fattore di correzione monetaria, poiché era insufficiente ad accompagnare il processo inflazionistico e ciò che era nelle mani dei giudici era il dichiarazione di costituzionalità o incostituzionalità della disposizione della legge n. 13.467/17 che, modificando il comma 7 dell'articolo 879 TPL, ha stabilito che il TR sarebbe l'indice di correzione monetaria del lavoro.
Non c'era quindi modo che il dispositivo potesse essere dichiarato costituzionale, sebbene la posizione personale del relatore, il ministro Gilmar Mendes, fosse in questo senso. D'altro canto, dichiarando l'incostituzionalità si poneva il problema di lasciare aperto l'indice di applicabilità e il TST si era già posizionato verso l'applicazione dell'IPCA-E.
Risulta che l'applicazione dell'IPCA-E non sarebbe in linea con il movimento per ridurre i diritti dei lavoratori, poiché, come evidenziato dal relatore, poiché le due ingiunzioni emesse nello stesso processo, l'IPCA-E genera un effetto economico 25% superiore a quello del TR – e anche per questo il TR è stato fissato come indice di correzione dal testo della “riforma” del lavoro, il cui obiettivo, come è noto, era quello di soddisfare le voglie del potere economico.
Si precisa, in ogni caso, che tale dato percentuale non rappresenta un vantaggio ingiustificato per il creditore, come ha cercato di giustificare il relatore, in quanto il confronto tra i due indici ha senso solo in considerazione della variazione dell'inflazione in un dato periodo . E ciò che la più alta percentuale di correzione IPCA-E significa è solo una maggiore approssimazione dell'indice inflazionistico e non un arricchimento ingiustificato.
Partendo dall'errata considerazione che l'applicazione dell'IPCA-E rappresenterebbe un vantaggio ingiustificabile per i lavoratori o che graverebbe eccessivamente sui datori di lavoro, il voto guida non si è attenuto al limite oggettivo dell'azione e ha iniziato a “colmare il vuoto” lasciato dalla dichiarazione di incostituzionalità dell'attuale comma 7 dell'articolo 879 TPL, sebbene, concretamente, non vi fosse alcuna lacuna da colmare nell'ambito del ricorso in esame, posto che il testo dichiarato incostituzionale è entrato in vigore solo nel novembre 2017, con l'entrata in vigore della Legge n. 13.467/17, e prima d'allora non era stato considerato un problema giuridico in materia.
Si ricorda che l'applicazione dell'IPCA-E in Cassazione era già stata consolidata, nell'agosto 2015, nella sentenza ArgInc-479-60.2011.5.04.0231, per effetto della presa di posizione sottoscritta dalla stessa STF, il 25 2015, nella valutazione delle ADI 4357 e 4425.
Secondo il relatore, nel giudizio degli ADC 58 e 59, sebbene la STF avesse già fissato l'applicazione dell'IPCA-E, questa sarebbe avvenuta solo in relazione ai crediti d'imposta e, di conseguenza, la posizione del TST sarebbe stata sostenuta da una “indebita corrispondenza tra la natura del credito di lavoro e il credito assunto nei confronti dell'Erario”.
Così, si è chiuso un occhio sull'articolo 889 del CLT, il quale chiarisce che “i precetti che regolano il processo dei dirigenti tributari per la riscossione giudiziale del debito scaduto dell'Erario Pubblico Federale” sono applicabili all'esecuzione di lavori titoli.
Giuridicamente ancora più errato è stato il criterio utilizzato per arrivare ad un indice di correzione diverso dall'IPCA-E, ovvero l'assimilazione del credito lavoro ad un credito civile: “la proposta che porto alla collazione è che, una volta accertata la validità del viene tolto il TR, nel Tribunale del Lavoro viene utilizzato lo stesso criterio di interesse e rettifica pecuniaria utilizzato nelle condanne civili in genere” (cfr. voto del relatore).
A questo punto, la decisione emessa dalla STF ha superato decenni di una tradizione giurisprudenziale radicata nel riconoscimento del privilegio del credito al lavoro, anche in deroga al credito d'imposta, come peraltro espressamente previsto dall'art. 83 della Legge n. 11.101/05 (Legge di Riordino Giudiziario) – anch'essa solennemente ignorata.
Del resto, la STF ha ignorato il proprio precedente, contenuto nell'ADI 3934, in cui, dichiarando espressamente la costituzionalità dell'art. 83 della Legge n. 11.101/05, è stato espressamente riconosciuto che il credito lavoro è privilegiato rispetto a tutti gli altri, sebbene, in quell'occasione, sia stato stabilito un limite (di 150 salari minimi) per creditore a tale privilegio - che è stato mantenuto, anche nella recente approvata la legge n. 14.112, del 24 dicembre 2020.
In ADI 3934, l'STF ha applicato la Convenzione ILO 173, che sancisce, a livello internazionale, la posizione privilegiata del credito al lavoro. All'epoca, il richiamo alla suddetta Convenzione doveva giustificare la limitazione al privilegio imposto dall'art. 83 della Legge n. 11.101/06, nei seguenti termini: “È importante evidenziare, peraltro, che la stessa normativa internazionale di tutela del lavoratore contempla la possibilità di stabilire limiti di legge ai crediti di natura lavorativa, a condizione che il minimo indispensabile per la sopravvivenza del lavoratore è preservato.
Questa comprensione trova espressione nell'art. 7.1 della Convenzione 173 dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro – ILO (Convention on the Protection of Labour Claims in the Event of Employer Insolvency), secondo la quale “la legislazione nazionale può limitare l'ambito del privilegio delle rivendicazioni del lavoro a un importo stabilito, il che non non deve essere inferiore a un minimo socialmente accettabile”.
Si dà il caso che, per giungere a tale risultato, la Corte Suprema abbia esplicitamente integrato nell'ordinamento nazionale le norme dell'ILO, in particolare per quanto riguarda la tutela delle rivendicazioni lavorative, a prescindere anche dal processo di ratifica. Come stabilito nella decisione in questione: “Sebbene tale Convenzione non sia stata ancora ratificata dal Brasile, è possibile affermare che i limiti adottati per la garanzia delle pretese lavorative, in caso di fallimento o recupero giudiziale delle imprese, sono supportati da le norme adottate nell'ambito dell'ILO, ente membro delle Nazioni Unite, il cui scopo è quello di far adottare ai Paesi che lo integrano standard minimi di protezione dei lavoratori.
Al riguardo, le disposizioni della Legge 11.101/2005 nutrono una preoccupazione di natura distributiva, stabilendo criteri il più possibile equi rispetto alla concorrenza dei creditori. In altre parole, fissando un limite massimo – del tutto ragionevole, va detto – per il trattamento preferenziale delle domande di lavoro, la Legge 11.101/2005 mira a garantire che tale tutela raggiunga il maggior numero di lavoratori, cioè proprio coloro che guadagnano i salari più bassi.
Pertanto, la “scelta”, del tutto casuale e frutto della volontà personale del giudice, di equiparare il credito di lavoro al credito civile, esula da ogni parametro di legge, tenuto conto che il rapporto di lavoro è regolato dal Diritto del Lavoro e non dal Codice Civile Diritto proprio perché riconosce, storicamente, la diversità dei rapporti giuridici civili e di lavoro, i primi, segnati dall'uguaglianza, i secondi, dalla disuguaglianza e dalla dipendenza economica.
L'equivalenza proposta dalla STF è contraria alla realtà dei fatti e un affronto a tutti i precetti giuridici concepiti riguardo ai rapporti di lavoro come fattore, compreso lo sviluppo della società capitalistica, che è stato addirittura espressamente riconosciuto nella Costituzione federale in più dispositivi: “ arte. 1, punti III e IV; arte. 4, punto II; arte. 5°, capo XXIII; arte. 7°; arte. 170 e punti III e VIII; e arte. 186, punto III.
Quel che è peggio è che l'argomento per equiparare le rivendicazioni di lavoro alle rivendicazioni civili non è stato utilizzato solo per escludere l'applicazione dell'IPCA-E. Estrapolati tutti i limiti dell'azione, la votazione è andata avanti ed ha colto l'occasione, pur senza alcuna provocazione da parte dei soggetti costituzionalmente legittimati in tal senso, per proporre la bocciatura, senza formale dichiarazione di incostituzionalità, dell'applicazione del § 1 dell'arte. 39 della Legge n. 8.177/89, che fissa gli interessi moratori nei rapporti di lavoro all'1% mensile, dalla presentazione della domanda di lavoro.
Se ciò sarà effettivamente evidenziato nella sentenza che sarà pubblicata, l'STF avrà abrogato la legge n. 8.177, che disciplina l'aggiornamento dei crediti di lavoro dal 1991, sostituendolo con l'art. 406 cc, con conseguente applicazione dell'aliquota SELIC, già composta da interessi e rideterminazione monetaria. Così, per magia legale, il credito di lavoro che era stato aggiornato dall'indice IPCA-E, retroattivo al momento del "default", e l'interesse aggiunto dell'1% al mese, conteggiato dalla data di deposito della domanda di lavoro, avrebbe essere aggiornato dall'IPCA-E durante il periodo pregiudiziale (come denominato dal voto del relatore) e, dalla data di deposito del rapporto di lavoro in poi, dal SELIC, tenuto conto che il tasso SELIC era del 4,5% annuo , nel 2019, e la proiezione è che rimarrà al 2%, nel 2020.
In questo modo, la presentazione di una domanda di lavoro diventa un fattore in più per ridurre gli effetti dell'illegalità, cioè una forma di punizione per la vittima, anche stimolando pratiche processuali di procrastinazione, perché, d'ora in avanti, più il processo dura, tanto più eroso sarà il credito e tanto più beneficerà l'autore del reato.
E' estremamente importante evidenziare, quindi, che l'effetto concreto di questa ingegneria giurisprudenziale non è solo quello di un'equiparazione del credito al lavoro al credito civile, ma l'abbassamento del primo rispetto al secondo, poiché quanto previsto dall'art. 406 cc è che tale indice, che riguarda solo gli interessi di mora, sarà applicato quando il contratto non prevede diversamente. Ora, è noto che nei contratti civili il creditore ha piena facoltà di “imporre” clausole moratorie, e uno dei punti di maggior discussione in ambito civilistico ruota proprio attorno all'“abusivo interesse”. La disuguaglianza contrattuale, quando esiste nei rapporti civili, è favorevole al creditore. Vedi, ad esempio, cosa succede tra l'affittuario e il padrone di casa, tra la banca e il cliente, tra il commerciante e il consumatore. Così, in concreto, raramente vale la regola dell'art. 406 del codice civile trova applicazione. In ambito lavorativo avviene esattamente il contrario e il creditore, il lavoratore, non ha la minima condizione per esigere l'istituzione di clausole di moratoria nel contratto di lavoro.
Inoltre, la votazione prevalente non ha fatto menzione dell'art. 404 c.c., che garantisce al creditore il diritto al risarcimento del “danno e del danno” derivante dall'illecito di cui è stato vittima, integrando automaticamente la rideterminazione monetaria, gli interessi, le spese e onorari, oltre a precisare che quando gli interessi di mora non sono sufficienti a coprire il danno subito, il giudice può determinare un'ulteriore indennità [I].
Pertanto, la posizione annunciata è quella di un enorme declassamento dei crediti di lavoro, incoraggiando attività illegali e contribuendo all'impunità dei datori di lavoro. Essa ha rappresentato, per così dire, una riduzione della condizione di cittadinanza dei lavoratori e delle lavoratrici, e quindi il presupposto utilizzato nel voto secondo cui “il debito del lavoro giudizializzato sta assumendo contorni estremamente vantaggiosi (ben al di sopra della media di mercato)” è del tutto falso.
A titolo informativo, è importante rilevare che trattandosi degli effetti della decisione sui processi in corso, l'indirizzo è stato nel senso di:
– riterranno validi – non dando adito ad alcuna ulteriore discussione (nell'azione in corso o in una nuova domanda, inclusa l'azione rescissoria) – tutti i pagamenti effettuati utilizzando il TR (IPCA-E o qualsiasi altro indice), in modo tempestivo (stragiudiziale o ordine del tribunale, compresi i depositi giudiziari) e interessi di mora dell'1% al mese;
– mantenere l'esecuzione delle sentenze definitive e inappellabili che hanno espressamente adottato, nella motivazione o nel provvedimento, il TR (o l'IPCA-E) e gli interessi di mora dell'1% mensile;
– applicare, retroattivamente, il tasso Selic (rapporto interessi e monetario) nei processi in corso sospesi in fase conoscitiva (indipendentemente dal fatto che abbiano o meno un giudizio, anche in fase di appello), pena la futura contestazione di inapplicabilità di titolo giudiziario basato su un'interpretazione contraria alla posizione della STF (art. 525, §§ 12 e 14, o art. 535, §§ 5 e 7, CPC);
– applicare erga omnes efficacia ed efficacia vincolante della decisione resa, al fine di pervenire a cause già divenute definitive ed inappellabili nelle quali non vi sia stata espressa manifestazione circa gli indici di correzione monetaria e di tasso di interesse (omissione o semplice considerazione di seguire il criteri giuridici).
Tutto questo affronto a vari precetti costituzionali, sovracostituzionali, legali, di principio, logici e umani è stato realizzato nella decisione emessa dall'STF venerdì 18 dicembre 2020. E cosa è stato detto di questa decisione nei media mainstream? Assolutamente niente! Silenzio totale!
Perché? Perché nel racconto dei media brasiliani e dell'élite economica, la Costituzione federale, in materia di diritti del lavoro, non è altro che un foglio di carta che può (e anche dovrebbe) essere costantemente strappato.
La cosa curiosa è che in ambito sindacale non si è visto parlare dell'argomento e pochissimo in ambito giuslavoristico. La spiegazione di ciò potrebbe essere che dopo tante e ripetute perdite di diritti, subire una diminuzione della correzione monetaria e dei tassi di interesse non sarebbe più un duro colpo. Coinvolto in un certo sconforto, era come se l'ambiente giuridico e il mondo del lavoro dicessero: “cos'è un po' più di argilla per chi è già completamente impantanato nel fango?!”.
Ma c'è anche una spiegazione quantitativa. Il problema è che dopo tante e successive revoche di diritti e la diffusione di forme precarie di assunzione, sommate agli ostacoli per accedere al tribunale del lavoro, sono pochissimi i brasiliani che hanno un contratto formale e diritti del lavoro legalmente garantiti. Ancora meno sono coloro i cui diritti del lavoro sono effettivamente rispettati. E una quota molto minore sono coloro che pretendono di fare causa al Tribunale del lavoro per i propri diritti (nel 2019 le denunce sono state 1,5 milioni, all'interno di un universo di 33,6 milioni di lavoratori con regolare contratto). Di coloro che propongono denunce, è andato diminuendo il numero di coloro che effettivamente vedono accolte le proprie pretese, dato un notevole mutamento dell'atteggiamento della Corte del lavoro nei confronti dell'assunto della prevalenza dei precetti giuridici sociali sugli interessi economici. Di conseguenza, la questione degli interessi di mora e della rideterminazione monetaria delle rivendicazioni lavorative è diventata quasi una sorta di “privilegio” per pochissimi cittadini brasiliani.
D'altra parte, questo stesso fatto esclude ogni validità dell'argomento economico utilizzato nel voto per operare questa estrema ingegneria giuridica contro la Costituzione e contro la legge. Questo perché la diminuzione del 25% (o poco più) nei calcoli per l'aggiornamento dei diritti del lavoro precario di non più di 2 milioni di persone non può generare un effetto economico significativo in un Paese di 212 milioni di persone.
Sta di fatto che la posizione assunta dalla Corte Suprema ha finito per aprire tutte le porte alla completa deregolamentazione dei rapporti di lavoro in Brasile.
Per inciso, nella stessa seduta del 18 dicembre, a giudizio dell'ADC 66, è stato compiuto il passo successivo. Riprendendo le argomentazioni utilizzate nell'ADPF 324 (che consentiva l'esternalizzazione dell'attività principale), è stata dichiarata la costituzionalità dell'articolo 129 della legge 11.196/2005, il quale stabilisce che, ai fini tributari e previdenziali, la prestazione di servizi intellettuali, inclusi quelli di di natura scientifica, artistica o culturale, fatta salva la sola disciplina applicabile alle persone giuridiche, indipendentemente dal fatto che il servizio sia prestato a titolo personale o meno, con o senza attribuzione di obblighi a soci o dipendenti della società prestatrice di servizi.
La sentenza ha in pratica legittimato la frode sul lavoro operata per “pejotizzazione”, ovvero la trasformazione artificiale del lavoratore in persona giuridica, come se fosse facoltà delle parti scegliere o meno il Diritto del Lavoro a disciplinare il rispettivo rapporto di lavoro. La sentenza va anche contro i precetti fondamentali, radicati nella formazione dei diritti sociali, sulla non distinzione tra i diversi tipi di lavoro, come prescrive addirittura l'unico comma dell'art. 3 TPL (neppure modificato dalla Legge n. 13.467/17), nei seguenti termini: “Art. 3 - Si considera lavoratore subordinato colui che presta servizi a carattere non continuativo ad un datore di lavoro, sotto le sue dipendenze e dietro corrispettivo di una retribuzione. Comma Unico – Non ci saranno distinzioni circa il tipo di impiego e la condizione di lavoratore, né tra lavoro intellettuale, tecnico e manuale”.
È importante notare, in linea con l'identificazione delle coincidenze, che questa decisione è arrivata nel contesto di un'intensa mobilitazione da parte dell'Agenzia delle entrate federale, che aveva perseguito le società di telecomunicazioni per l'uso fraudolento di collegamenti con persone giuridiche per formalizzare l'assunzione di conduttori e artisti, per mascherare il rapporto di lavoro e ridurre il costo fiscale e sociale dell'assunzione.[Ii] E non ci sono state nemmeno ripercussioni mediatiche.
La grande domanda è che questo supremo disprezzo dei precetti giuridici costituzionali attuato dalle suddette decisioni è molto più di un nuovo colpo ai diritti del lavoro. Si tratta di una situazione estremamente grave e come tale deve essere percepita, ai fini di un effettivo rispetto dello stato di diritto democratico.
Nei termini in cui sono state emanate, le sentenze, del tutto estranee ai vincoli della Costituzione e dei vari precetti giuridici e processuali applicabili in materia, aprono spazi decisivi per una situazione di totale distruzione delle garanzie costituzionali, sia lavorative che di qualsiasi altra natura (compresa la libertà di espressione e persino la libertà di stampa), anche consentendo alla stessa Corte Suprema di vedersi ridotta o soppressa la propria legittimità ad invocare l'ordine costituzionale contro gli sfoghi autoritari e gli innumerevoli oltraggi ai diritti fondamentali che sono andati crescendo, in in modo sempre più esaustivo e convinto, nella realtà nazionale – vedi gli innumerevoli casi di femminicidio, razzismo, intolleranza, discriminazione e illeciti finanziari e istituzionali che ogni giorno si moltiplicano nelle cronache.
È urgente ribaltare questo gioco, perché alla fine perderemo tutti! Anche i media mainstream e il settore economico che applaudono (o tacciono) lo smantellamento costituzionale del lavoro saranno in qualche modo vittime del crollo dell'istituzionalità radicata nel patto di solidarietà sociale e umana.
Da un punto di vista strettamente legale, la molteplicità delle forme permette di stabilire contrappunti al movimento di smantellamento totale.
In campo lavorativo, infatti, si è sempre rifiutato di vedere il mancato rispetto dei diritti del lavoro come un autentico atto illecito. Era come se il datore di lavoro avesse "il diritto" di infrangere la legge. Tutti gli oneri punitivi per le “inadempienze” di lavoro – come si suol dire – sono stati depositati in interessi di mora dell'1% al mese dal deposito della domanda di lavoro, accompagnati da correzione monetaria.
Nella maggior parte delle sentenze è stata solennemente respinta la nozione di perdite e danni per assoggettamento ad una situazione illecita, in quanto il risarcimento era già stato dato dagli istituti in questione, dimenticando che l'atto illegittimo richiede, di per sé, un effetto specifico, poiché chi commette un illecito in un rapporto contrattuale impone all'altro una situazione di vita imprevista, carica di conseguenze disastrose e, conseguentemente, di danni materiali e morali. Ad esempio, un datore di lavoro che non registra la carta di lavoro del suo dipendente lascia questo lavoratore in una situazione di totale precarietà e lontano dalle condizioni di lavoro ideali fissate proprio nell'apparato della legislazione del lavoro. In questa situazione ci sono evidentemente perdite e danni presupposti – che non richiedono nemmeno la prova – come si può vedere anche nella perdita del lavoro senza percepire il trattamento di fine rapporto (di indiscutibile natura retributiva).
Ebbene, a fronte del venir meno di ogni onere punitivo del reato lavorativo che era stato attribuito agli interessi e alla correzione pecuniaria, si apre necessariamente anche un'altra porta, quella della visione della riparazione delle perdite e dei danni subiti dalla vittima dell'illecito, che è di cosa si tratta effettivamente quando si dichiara che un diritto del lavoro non è stato rispettato.
L'intenso dibattito pubblico che si è svolto in Brasile attorno alla legislazione del lavoro, in un momento di clamore per la moralizzazione delle istituzioni e per l'etica nelle relazioni sociali, ha portato come effetto minimo inevitabile il riconoscimento che il mancato rispetto dei diritti del lavoro costituisce un atto illecito, che deve essere punito per la corretta conservazione dell'autorità dell'ordinamento giuridico, e non può essere inteso come negozi giuridici validi che semplicemente con la loro forma cercano di annullare i diritti.
Per decenni si è rifiutato di indicare la pratica del mancato rispetto dei diritti del lavoro come un atto illegale, trattandola con l'eufemismo di violazione del contratto. La correzione della situazione considerata come “mera irregolarità” non era carica di effetto punitivo, non essendo vista, quindi, come un salvataggio dell'autorità dell'ordinamento giuridico, ma come una fallace e fuorviante “pacificazione del conflitto”. La dissolutezza di alcuni datori di lavoro che, fino ad oggi, facevano parte della routine quotidiana dei rapporti di lavoro e dei Tribunali del lavoro e ai quali veniva attribuito lo status di “nulla legale”, quali: le assunzioni senza registrazione; pagamento dello stipendio "all'esterno"; assenza di cartellini che rispecchino le effettive ore lavorate; mancato pagamento del TFR; mancata raccolta di FGTS ecc., entra nel campo dell'illecito. Tale presupposto teorico rafforza il carattere punitivo che dovrebbe essere attribuito a tali pratiche, pertanto non sono sufficienti condanne al pagamento della sola somma corrispondente a quanto sarebbe dovuto se il reato non fosse stato commesso.
Il fatto è che dalle argomentazioni che cercano formule nell'ordinamento giuridico per prescindere dall'ordinamento giuridico, emergono inevitabili contraddizioni. Pertanto, è proprio nella tesi dell'equiparazione delle pretese di lavoro a quelle civili che si trova il presupposto decisivo per percepire finalmente il mancato rispetto dei diritti del lavoro come un atto illegittimo, generando non solo la possibilità di riparare perdite e danni, come stabilito dall'art. 404 cc, nonché le linee guida delineate per la responsabilità civile, sulla base degli artt. 186, 187, 927 e 944 cc.
Consente inoltre – e addirittura richiede – l'applicazione di vari altri dispositivi punitivi per pratiche illecite, attirando, soprattutto, le nozioni di recidiva e persino di delinquenza, come un modo, anche, per proteggere il sistema economico.
Infatti, ai sensi della legge n. 12.529/11, che struttura il Sistema brasiliano per la difesa della concorrenza e prevede la prevenzione e la repressione delle violazioni dell'ordine economico, rimane chiara l'idea che il mancato rispetto dei diritti del lavoro rappresenta una violazione dell'ordine economico. Costituiscono violazione dell'ordine economico, a prescindere dalla colpa, gli atti, in qualsiasi forma manifestati, che abbiano per oggetto o possano produrre, anche se non realizzati, i seguenti effetti: I - limitare, alterare o in alcun modo ledere la libera concorrenza o la libera impresa; (….) III – aumentare arbitrariamente i profitti.
Pertanto, l'illecito del lavoro finalizzato ad ottenere un vantaggio sulla concorrenza o ad accrescere i profitti rappresenta una grave violazione dell'ordine economico, a maggior ragione quando si compie ripetutamente.
A sua volta, la recidiva, abitualmente negata in ambito lavorativo, è espressamente prevista, ad esempio, dall'art. 59, della legge n. 8.078/90 (Codice di Tutela del Consumo). Nel Diritto Penale la recidiva costituisce un'aggravante della pena (art. 61, I, CP) e impedisce la concessione della cauzione (art. 323, III, CPP).
Infine, in assenza di uno specifico criterio giuridico oggettivo di riparazione del danno e di sanzione dell'inosservanza dei diritti del lavoro, si rende necessario qualificare la condotta illecita posta in essere, valutare il danno subito dalla vittima e ricercare nell'ordinamento le ragioni della individuando i necessari risvolti giuridici applicabili al fatto, posto che la pretesa di lavoro, d'ora innanzi, equivale a quella civile, a tutti gli effetti.
*Jorge Luiz Souto Maior è docente di diritto del lavoro presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'USP. Autore, tra gli altri libri, di Il danno morale nei rapporti di lavoro (studio dell'editore).
note:
[I]. "Arte. 404. Le perdite ei danni, in obbligazioni di pagamento in denaro, saranno pagati con rideterminazione monetaria secondo indici ufficiali regolarmente stabiliti, comprensivi di interessi, spese e spese legali, salva la sanzione convenzionale.
Paragrafo singolo. Se è provato che gli interessi moratori non coprono il danno, e se non vi è sanzione convenzionale, il giudice può concedere al creditore un'ulteriore compensazione.”.
[Ii]. https://noticiasdatv.uol.com.br/noticia/televisao/receita-federal-acusa-globo-de-associacao-criminosa-com-artistas-47747.