Lo Stato sociale in Danimarca

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da JOÃO DOS REIS SILVA JUNIOR*

Il modello danese di tutela del lavoro si configura come un paradigma di efficacia normativa e sociale, la cui struttura coniuga flessibilità economica con solide garanzie per i lavoratori.

Lo scenario successivo alla seconda guerra mondiale rappresentò una svolta nella strutturazione dei diritti del lavoro, con gli Stati nazionali che implementarono quadri giuridici per attenuare le disuguaglianze esacerbate dal conflitto. L'Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), fondata nel 1919, e la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948) si sono consolidate come assi normativi internazionali, garantendo precetti quali il lavoro dignitoso, la libertà di associazione e una remunerazione adeguata (Hepple, 2014).

Tali documenti, sebbene precedenti al periodo in questione, hanno acquisito una rinnovata rilevanza nell'orientare le riforme del lavoro in contesti nazionali eterogenei, come indicato dalle analisi sulla relazione tra diritti sociali e ricostruzione economica.

Nel contesto europeo, la ristrutturazione postbellica si è articolata con l'emanazione di codici del lavoro esaustivi, tra cui orari di lavoro regolamentati, salari minimi e sicurezza del posto di lavoro. Crouch (2015) sottolinea che l’azione sindacale, sebbene centrale in questo processo, variava a seconda dei modelli di governance: in Germania prevaleva la cogestione aziendale; in Francia, l’intervento diretto dello Stato; e nel Regno Unito, meccanismi di contrattazione collettiva decentralizzati. Queste divergenze evidenziano l'influenza delle tradizioni politiche locali nella formazione dei diritti, anche sotto pressioni globali convergenti.

Negli Stati Uniti, sebbene il Nuovo patto (anni '1930) hanno stabilito basi quali la contrattazione collettiva, il periodo successivo al 1945 ha rivelato contraddizioni tra l'espansione formale dei diritti e la persistenza di emarginazioni etniche e di genere. Hepple (2014) sostiene che la legislazione statunitense sul lavoro, pur essendo progressista in termini di regolamentazione, ha incontrato limiti strutturali nell’universalizzazione delle protezioni, riflettendo le tensioni tra uguaglianza giuridica e disuguaglianza materiale.

Da una prospettiva comparata, il periodo ha mostrato progressi nell'istituzionalizzazione dei diritti, ma con profonde asimmetrie. Come suggeriscono Hepple (2014) e Crouch (2015), l’efficacia delle norme internazionali dipendeva da fattori quali la densità dei movimenti sociali, il grado di istituzionalizzazione democratica e la capacità degli Stati di mediare i conflitti tra capitale e lavoro. Pertanto, paesi come la Germania e la Francia hanno raggiunto una maggiore armonizzazione tra gli standard globali e le pratiche locali, mentre altre nazioni hanno riscontrato lacune tra teoria e applicazione.

In Danimarca

Il modello danese di tutela del lavoro si configura come un paradigma di efficacia normativa e sociale, la cui struttura coniuga flessibilità economica con solide garanzie per i lavoratori. Il suo consolidamento non deriva da isolate contingenze storiche, ma da un processo dialettico tra attori sindacali, movimenti sociali e istituzioni statali. Come sottolinea Jørgensen (2009), l’unicità del caso danese risiede nella simbiosi tra sindacati centralizzati e uno Stato regolatore, che ha consentito la stabilizzazione di diritti quali orari di lavoro retribuiti, congedi parentali e minimi salariali equi, consolidati attraverso la contrattazione collettiva tripartita.

L'attività sindacale, organizzata in centri come LO (Organizzazione territoriale in Danimarca), richieste di lavoro storicamente articolate con strategie di coesione sociale, mitigando i conflitti tra capitale e lavoro attraverso patti istituzionalizzati (Jørgensen, 2009). Allo stesso tempo, i movimenti sociali intersettoriali, come i movimenti femministi, ambientalisti e LGBT+, hanno influenzato la legislazione del lavoro, spingendo per standard antidiscriminatori e ambienti di lavoro inclusivi. Madsen (1999) sostiene che la trasversalità di questi movimenti ha ridefinito il concetto di “protezione” sul lavoro, espandendolo oltre la sfera economica e incorporando dimensioni identitarie ed ecologiche.

Tuttavia, l'efficacia del modello non implica stagnazione. Dinamiche come la precarietà globalizzata e la digitalizzazione richiedono continui adattamenti, come la regolamentazione delle piattaforme digitali e la garanzia della sicurezza per i lavoratori atipici. Come sottolineano Madsen (1999) e Jørgensen (2009), la sostenibilità del sistema dipende dalla capacità dei sindacati di assimilare nuovi programmi senza rinunciare alle conquiste storiche, bilanciando innovazione istituzionale e salvaguardia dei diritti.

In sintesi, il modello danese si distingue non solo per i risultati tangibili, come gli elevati livelli di sicurezza sul lavoro, ma anche per la capacità di integrare attori eterogenei in un progetto comune. Questa caratteristica non lo esime però da critiche: gli analisti segnalano rischi di elitarismo sindacale e lentezza nell'adattamento, sfide che richiedono revisioni costanti per mantenerne la rilevanza in uno scenario globale in continua evoluzione.

Questo modello non è nato per caso. È il risultato di una lunga storia di lotte e conquiste della classe operaia danese, che ha sempre avuto il sostegno di sindacati forti e attivi. I sindacati danesi, organizzati attorno a potenti confederazioni sindacali, hanno sempre svolto un ruolo chiave nella difesa dei diritti dei lavoratori, negoziando contratti collettivi che stabiliscono salari equi, orari di lavoro retribuiti, ferie retribuite, congedi di maternità e paternità, tra gli altri benefici.

Oltre all'azione sindacale, anche i movimenti sociali di varia natura hanno svolto un ruolo importante nella costruzione del modello danese di tutela del lavoro. Il movimento femminista, ad esempio, cedette alle leggi che garantivano l'uguaglianza di genere nel mercato del lavoro, combattendo la discriminazione salariale e altre forme di disuguaglianza. Il movimento ambientalista, a sua volta, ha spinto affinché venissero adottate misure che garantissero un ambiente di lavoro sano e sicuro per i lavoratori. E il movimento LGBTQI+ si è battuto per ottenere diritti che proteggano i lavoratori dalle discriminazioni basate sull'orientamento sessuale o sull'identità di genere.

È importante sottolineare che il modello danese di tutela del lavoro è in continuo miglioramento. La società danese è sempre attenta alle sfide del mercato del lavoro in continua evoluzione, alla ricerca di soluzioni innovative per garantire il rispetto e l'ampliamento dei diritti dei lavoratori. L'azione sindacale e i movimenti sociali restano importanti per garantire che il modello danese continui a essere un esempio per il mondo. restano importanti per garantire che il modello danese continui a essere un esempio per il mondo.

Il modello danese di regolamentazione del lavoro è caratterizzato dall'assenza di una legislazione specifica con un forte impatto simbolico, in contrasto con la solidità di un sistema basato su contratti collettivi negoziati tra sindacati e datori di lavoro. Secondo Madsen (2008), questa struttura è emersa da un processo storico di istituzionalizzazione tripartita, in cui la partecipazione continua degli attori sociali garantiva l'efficacia di norme flessibili, ma vincolanti. Tali accordi, dotati di valore giuridico, regolano tutto, dall'orario di lavoro alle ferie retribuite, fino ai parametri di sicurezza sul lavoro, consolidando un equilibrio tra autonomia collettiva e intervento indiretto dello Stato.

L'uguaglianza di genere nel mercato del lavoro, sebbene non sia regolata da specifiche leggi sulla mobilitazione di massa, è il risultato di pressioni sistemiche esercitate dai movimenti femministi e dai meccanismi di controllo sociale. Madsen (2008) sottolinea che l’assenza di quadri giuridici monumentali non implica fragilità normativa, ma riflette una cultura politica che privilegia la negoziazione continua rispetto alla liturgia legislativa. Questa dinamica si estende alla sicurezza sul lavoro, i cui rigorosi standard derivano meno da decreti obbligatori e più dalla capacità dei sindacati di incorporare le richieste tecniche nelle negoziazioni settoriali.

Lo stato sociale danese, spesso idealizzato come paradigma, si basa su questa simbiosi tra flessibilità istituzionale e garanzie sociali. Tuttavia, la sua stabilità dipende dal mantenimento di elevati livelli di sindacalizzazione (circa il 67% della forza lavoro) e di un consenso politico sulla protezione sociale come asse di coesione nazionale (Madsen, 2008). I critici sottolineano, tuttavia, che questo modello è esposto a rischi crescenti di fronte alla globalizzazione produttiva e all'aumento di forme atipiche di occupazione, che mettono alla prova l'adattabilità dei meccanismi tradizionali di governance del lavoro.

Il modello danese di “flexicurity”, spesso idealizzato come paradigma di equilibrio tra protezione sociale e adattabilità economica, si scontra con contraddizioni insite nella persistenza di forme atipiche di occupazione. Secondo Madsen (2008), la coesistenza di lavoro precario e temporaneo in settori specifici – come i servizi poco qualificati e i contratti stagionali – rivela le crepe in un sistema storicamente ancorato ai diritti universali. Tali modalità, sebbene statisticamente marginalizzate, mettono in discussione la narrazione dell'omogeneità del lavoro, esponendo le tensioni tra la regolamentazione tripartita e le pressioni globali verso la deregolamentazione (Juul; Jørgensen, 2014).

Il lavoro precario, caratterizzato da retribuzioni inferiori alla media, instabilità contrattuale e mancanza di benefici sociali, è concentrato in nicchie come l'ospitalità e l'agricoltura stagionale. Nonostante l'esistenza di salari minimi settoriali e di contratti collettivi, la loro persistenza deriva da fattori strutturali, tra cui l'esternalizzazione di attività non essenziali e la domanda di manodopera flessibile nei settori ciclici (Madsen, 2008).

Il lavoro temporaneo, regolamentato dal Fixed-Term Employment Act (2005), garantisce diritti fondamentali, come le ferie retribuite, ma perpetua le insicurezze legate alla disconnessione dalle reti di sicurezza a lungo termine, come criticato da Juul e Jørgensen (2014).

La dualità di questo scenario, bassa disuguaglianza sociale contro precarietà settoriale, riflette un processo dialettico tra innovazioni istituzionali ed esternalità del capitalismo globalizzato. Mentre i sindacati, come il Danish Trade Union Center (LO), spingono per l'estensione dei contratti collettivi ai settori precari, gli analisti mettono in guardia dal rischio di erosione del modello di fronte all'ascesa delle piattaforme digitali e alla pressione per la competitività internazionale (Juul; Jørgensen, 2014). In questo contesto, la “flexicurity” danese oscilla tra la sua vocazione universalista e la necessità di adattarsi a realtà lavorative frammentate.

Rete di protezione sociale

La rete di protezione sociale danese, consolidata nel corso del XX secolo, è un modello ibrido di intervento statale e contrattazione collettiva, la cui efficacia deriva dalla simbiosi tra sindacati solidi, politiche pubbliche redistributive e un consenso politico sull'universalità dei diritti. Secondo Esping-Andersen (2016), la Danimarca esemplifica la stato sociale socialdemocratico, caratterizzato dall'articolazione tra mercati del lavoro regolamentati, elevati livelli di demercificazione e garanzie di equità attraverso una tassazione progressiva. In questo modello, i sindacati non solo negoziano salari e condizioni di lavoro, ma agiscono anche come attori strategici nell'estendere le tutele ai lavoratori precari, spingendo per clausole inclusive negli accordi settoriali.

Lo Stato, a sua volta, integra questa dinamica con programmi quali: Flessibilità, che unisce flessibilità contrattuale e sicurezza attraverso una generosa assicurazione contro la disoccupazione e politiche attive di riqualificazione (Esping-Andersen, 2016). Questo approccio ha in parte attenuato l'espansione delle forme atipiche di occupazione, sebbene settori come i servizi domestici e la logistica registrino tassi crescenti di contratti temporanei. Le organizzazioni della società civile, a loro volta, operano come reti di sicurezza terziarie, offrendo supporto legale a gruppi emarginati (immigrati, giovani e lavoratori delle piattaforme digitali) le cui richieste non vengono sempre assorbite dai meccanismi di negoziazione tradizionali.

La storicità di questo sistema rivela una traiettoria non lineare. Se negli anni '1960-'1970 l'espansione di stato sociale coincisero con l'universalizzazione dei diritti, gli anni Novanta portarono con sé pressioni per adattarsi alle logiche neoliberiste, come la flessibilizzazione dei contratti e l'esternalizzazione dei servizi pubblici. Tuttavia, la resistenza sindacale e il mantenimento di alti tassi di sindacalizzazione (superiori al 1990%) hanno preservato il nucleo del modello, evitando l'erosione osservata in altri contesti europei.

Difendere il lavoro precario, in questo scenario, rappresenterebbe una rottura con il principio di solidarietà organica su cui si fonda il patto sociale danese. Come sottolinea Esping-Andersen (2016), la resilienza del sistema dipende dalla capacità di bilanciare l’innovazione istituzionale e la salvaguardia dei diritti, una sfida che si intensifica di fronte all’automazione e alla globalizzazione produttiva.

Esping-Andersen (2016) osserva che la transizione da un’economia agraria-industriale del XIX secolo – caratterizzata da orari di lavoro estenuanti, mancanza di limiti al lavoro e precarietà diffusa – a un solido sistema di protezione riflette la capacità di articolazione tra sindacati, Stato e datori di lavoro. Questo modello, ancorato all’“Accordo di settembre” del 1899, istituzionalizzò la contrattazione collettiva come meccanismo regolatore centrale, sostituendo i conflitti di classe con patti che bilanciavano flessibilità economica e diritti sociali.

Nel periodo pre-stato socialeLe condizioni di lavoro danesi erano in linea con le realtà europee del nascente capitalismo industriale: giornate lavorative da 14 a 16 ore, mancanza di protezione contro gli infortuni e sfruttamento del lavoro minorile. L'organizzazione sindacale, inizialmente frammentata, acquisì forza a partire dagli anni '1870 dell'Ottocento, spingendo per leggi come la Amanti Amanti (Labor Act) del 1873, che limitava il lavoro minorile, e la creazione dei primi fondi di assicurazione reciproca (Esping-Andersen, 2016). Tuttavia, è stato l’“Accordo di settembre” a gettare le basi del modello attuale, riconoscendo i sindacati e le associazioni datoriali come interlocutori legittimi e trasferendo le controversie negli ambiti della mediazione istituzionale.

O stato sociale La Danimarca, nella sua fase matura (post-1945), si è espansa attraverso politiche di demercificazione, come l'assicurazione universale contro la disoccupazione (introdotta nel 1907 e ampliata nel 1967) e il congedo parentale retribuito (1970). Esping-Andersen (2016) sottolinea che l’efficacia di queste misure dipendeva dall’elevata densità sindacale (superiore al 70% fino agli anni ’1980), che garantiva legittimità ai negoziati ed evitava l’emarginazione dei gruppi vulnerabili. Tuttavia, il sistema deve affrontare sfide contemporanee, come la pressione alla flessibilità di fronte alla globalizzazione e la crescita di lavori atipici sulle piattaforme digitali, fenomeni che mettono alla prova la resilienza del modello storico.

Industrializzazione

L'industrializzazione danese della fine del XIX secolo, inserita nel contesto europeo dell'ascesa capitalistica, fu caratterizzata da contraddizioni tra modernizzazione produttiva e degrado delle condizioni di lavoro. Secondo Christiansen (2006), la migrazione di massa dei lavoratori rurali verso centri urbani come Copenaghen e Aarhus ha generato sovraffollamento nei quartieri operai, aggravando lo sfruttamento nelle fabbriche tessili, metallurgiche e alimentari. Orari di lavoro superiori alle 14 ore giornaliere, mancanza di dispositivi di sicurezza e salari inferiori alla soglia di sussistenza caratterizzarono uno scenario di precarietà strutturale, catalizzando la formazione di sindacati come Organizzazione Faglig Fælles (FF), fondata nel 1871, che espresse richieste di riduzione dell'orario di lavoro e di norme sanitarie.

Lo sciopero generale del 1899, spesso idealizzato come un momento di svolta del consenso sociale, fu preceduto da decenni di conflitti frammentati. Tra aprile e settembre di quell'anno, più di 40.000 lavoratori di settori strategici – come i bacini portuali, le ferrovie e l'industria chimica – sospensero il lavoro, chiedendo il riconoscimento legale dei sindacati e l'istituzione di tribunali arbitrali. Christiansen (2006) sostiene che lo sciopero, sebbene inizialmente represso dalla polizia, costrinse i datori di lavoro a negoziare, dando luogo all’“Accordo di settembre”.

Questo patto, firmato tra la Confederazione dei sindacati danesi (LO) e la Confederazione dei datori di lavoro (DA), istituzionalizzò un modello di contrattazione collettiva tripartita, sostituendo gli scioperi con una mediazione regolamentata e stabilendo parametri minimi quali una giornata lavorativa di 10 ore (ridotta a 8 ore nel 1919) e il divieto di licenziamenti ingiusti.

L'efficacia dell'accordo dipendeva da fattori strutturali: la sindacalizzazione raggiunse il 70% dei lavoratori urbani nel 1910 e lo Stato cominciò a intervenire come garante dei diritti attraverso leggi come la nuova Posto di lavoro (Legge sul lavoro) del 1910, che regolamentava le ferie retribuite. Tuttavia, come sottolinea Christiansen (2006), il modello inizialmente escludeva categorie quali i lavoratori rurali e domestici, rivelando limiti nell’universalizzazione dei diritti. Solo negli anni '1930, con l'espansione dell' stato sociale, il congedo di maternità e l'assicurazione contro la disoccupazione furono estesi ai gruppi emarginati.

Al giorno d’oggi, l’eredità dell’“Accordo di settembre” è messa a dura prova dalle sfide legate all’immigrazione lavorativa. I lavoratori stranieri, provenienti principalmente dai paesi dell’Europa orientale e del Medio Oriente, si scontrano con barriere sistemiche, dove il 32% ha qualifiche non riconosciute (dequalificazione), secondo i dati del Ministero del Lavoro danese (Danimarca, 2022), e il 40% segnala discriminazioni nei processi di selezione. La barriera linguistica, aggravata dall’obbligo di certificazione Prova danese 3 per lavori qualificati, confina molti immigrati in settori quali le pulizie, l'edilizia e la logistica, dove persistono contratti temporanei e orari di lavoro irregolari. Paradossalmente, questo scenario coesiste con la retorica ufficiale dell’uguaglianza, esponendo le fratture tra universalismo normativo e pratiche escludenti (Christiansen, 2006).

L'inserimento lavorativo degli immigrati in contesti transnazionali è una sfida multifattoriale, in cui barriere strutturali e sistemiche interagiscono perpetuando le disuguaglianze. Secondo Betts (2016), la discriminazione emerge come asse centrale di questo processo, manifestandosi sia in pratiche esplicite (rifiuto contrattuale basato sull’origine etnica) sia in meccanismi impliciti, come gli stereotipi culturali che associano gli immigrati a una bassa produttività.

Studi empirici dimostrano che, nelle economie sviluppate, i candidati con nomi stranieri hanno il 30% di probabilità in meno di essere convocati per un colloquio, anche se possiedono le stesse qualifiche dei concorrenti madrelingua. In Danimarca, ad esempio, secondo l'Istituto danese per i diritti umani (42), il 2022% degli immigrati non occidentali segnala esperienze di xenofobia sul posto di lavoro.

La mancanza di conoscenza del mercato del lavoro locale aggrava queste disparità. Gli immigrati spesso non sono a conoscenza delle sfumature legali come le clausole di flessibilità oraria nella legge danese sul lavoro (Amare con amore), o norme informali della gerarchia organizzativa, esponendoli a violazioni dei diritti. Betts (2016) sostiene che questa asimmetria informativa li rende vulnerabili alle “nicchie precarie”, soprattutto in settori come l’edilizia, gli alberghi e l’agricoltura, dove i contratti verbali e gli orari di lavoro irregolari sono comuni. La mancanza di familiarità con i canali di segnalazione, come le ispezioni del lavoro o i sindacati di settore, amplifica l’emarginazione.

Un altro ostacolo critico è rappresentato dai social network limitati. Le relazioni professionali fungono da “valuta invisibile” per accedere alle opportunità. Tuttavia, gli immigrati appena arrivati ​​raramente hanno a disposizione queste risorse, soprattutto nei contesti in cui le comunità della diaspora sono agli inizi. In Svezia, solo il 18% dei posti di lavoro viene assegnato tramite annunci pubblici; il resto dipende da indicazioni informali. Questo scenario esclude gli immigrati dai settori strategici, confinandoli in economie parallele con bassa regolamentazione.

La burocrazia migratoria aggrava tali sfide. Requisiti quali la convalida del diploma, la prova di un reddito minimo e una conoscenza linguistica avanzata. Betts (2016) rileva che, tra il 2010 e il 2015, il 65% delle richieste di equivalenza educativa da parte di immigrati siriani ed eritrei nell’Unione Europea sono state respinte a causa di “differenze curriculari”, relegandoli alla sottoccupazione. Inoltre, i visti temporanei vincolati a specifici datori di lavoro creano relazioni di dipendenza, inibendo le denunce di abusi per paura dell'espulsione.

L'insicurezza lavorativa emerge come conseguenza diretta di queste dinamiche. Nel settore agricolo danese, il 34% dei lavoratori migranti temporanei non ha contratti scritti e il 28% percepisce una retribuzione inferiore al salario minimo settoriale (Eurostat, 2023). Paradossalmente, l'informalità coesiste con i discorsi ufficiali di integrazione, rivelando una dissonanza tra politiche pubbliche e pratiche economiche.

Le organizzazioni non governative e le iniziative transnazionali cercano di colmare queste lacune. Il Consiglio danese per i rifugiati, ad esempio, offre corsi di formazione professionale adattati alle richieste del mercato locale, mentre piattaforme come Nuovo in Danimarca centralizzare le informazioni sui diritti dei lavoratori. Tuttavia, Betts (2016) avverte che tali sforzi spesso trascurano le dimensioni culturali: i programmi di tutoraggio raramente includono mediazioni interculturali e i materiali informativi sono raramente tradotti in lingue come l'arabo o il somalo.

L'operato dei sindacati presenta ambiguità. Sebbene 3F (il più grande sindacato danese) abbia creato dipartimenti specifici per gli immigrati, la loro efficacia è limitata dalla sfiducia reciproca: solo il 12% degli immigrati a Copenaghen dichiara di avere fiducia nei rappresentanti sindacali (Danimarca, 2021). Ciò riflette in parte l’attenzione storica dei sindacati nordici sui lavoratori qualificati, riproducendo le esclusioni settoriali.

In sintesi, l'integrazione lavorativa degli immigrati richiede approcci multiformi. Come propone Betts (2016), è necessario combinare politiche di mainstreaming (inclusione trasversale nelle politiche pubbliche) con azioni positive settoriali, come quote nei settori strategici e finanziamenti per l'imprenditoria etnica. Allo stesso tempo, semplificare il riconoscimento dei diplomi e ampliare i visti basati sulle competenze (invece dei contratti temporanei) potrebbe ridurre queste asimmetrie. Tali misure richiedono però la volontà politica di contrastare gli interessi economici radicati in modelli di sfruttamento.

*João dos Reis Silva Junior È professore presso il Dipartimento di Educazione dell'Università Federale di São Carlos (UFSCar). Autore, tra gli altri libri, di Istruzione, società di classe e riforme universitarie (Autori associati) [https://amzn.to/4fLXTKP]

Riferimenti


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CHRISTIANSEN, N.F. Il modello nordico di welfare: una rivalutazione storica. Odense: University Press della Danimarca meridionale, 2006.

CROUCH, C. Governare i rischi sociali nell’Europa post-crisi. Cheltenham: Edward Elgar Publishing, 2015.

DANIMARCA. Architettura del paesaggio della comunità (KL). Integrazione degli immigrati nel mercato del lavoro danese: sondaggio sulla percezione 2021. Copenaghen: KL, 2021.

DANIMARCA. Istituto per i diritti umani (DIHR). Rapporto annuale sulla discriminazione nel mercato del lavoro. Copenaghen: DIHR, 2022.

ESPING-ANDERSEN, G. Il tre mondi del capitalismo del benessere. New Jersey: Princeton University Press, 2016.

EUROSTAT. Condizioni del mercato del lavoro nel settore agricolo: analisi comparativa UE 2023. Lussemburgo: Ufficio delle pubblicazioni dell'Unione europea, 2023.

GIOVANNI, B. Uguaglianza: il nuovo quadro giuridico. Einaudi: Torino: Einaudi, 2014.

Giovanni, H. Mercati del lavoro flessibili, tutela dei lavoratori e “sicurezza delle ali”: una soluzione danese di flexicurity alla disoccupazione e ai problemi sociali nelle economie globalizzate? Santiago del Cile, CEPAL/Nazioni Unite, 2009.

GIOVANNI, io.; JØRGENSEN, H. Sfide per il sistema duale e l'autogoverno professionale in Danimarca. In: Apprendistato contemporaneo (pag. 42-56). Edizioni Einaudi, 2014.

MADSEN, PK Danimarca: flessibilità, sicurezza e successo nel mercato del lavoro. Ginevra: Ufficio Internazionale del Lavoro, 1999.

GIOVANNI MADSEN Flessicurezza in Danimarca: un modello per la riforma del mercato del lavoro in Europa? Intereconomia, Heidelberg, v. 43, lettera 2, pag. 74-78, 2008.


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