L’etica neoliberista

Immagine: Lea
WhatsApp
Facebook
Twitter
Instagram
Telegram

da MOYSÉS PINTO NETO*

L'idea della sinistra è che le persone siano vasi vuoti in cerca di significato per le loro tensioni materiali, ma questo significa sottovalutare il campo del desiderio e i miti che ruotano attorno ad esso.

Il 20 gennaio Donald Trump è entrato in carica come presidente eletto degli Stati Uniti, dopo una sostanziale vittoria alle urne, con un programma esplicitamente fascista e senza la scusa che gli americani hanno votato ingannati dall’ingerenza russa e dall’ignoranza del carattere, come nel 2016. Non possiamo più nemmeno contare sull'ipotesi che si sia trattato solo di un voto nullo antisistemico migrato su un personaggio fuori dagli schemi. NO? Ebbene, esaminiamo prima le circostanze per spiegare meglio il problema.

L'ipotesi Waldo

Nel 2016, Trump era il perdente nella corsa. Hillary Clinton ha rappresentato il neoliberismo più radicato con il progressismo del politicamente corretto, come oggi lo chiamiamo svegliato, nella sua versione più caricaturale. Cioè, nella tua versione di stabilimento, sempre pronto a disidratare le lotte sociali decisive in modi che si adattino all’etichetta di un prodotto di marketing. Il femminismo clintoniano, la condiscendenza verso il movimento nero e la cosiddetta popolazione “latino”, la disponibilità a etichettare come “deplorevoli” coloro che si oppongono ad esso, collocandosi nella cupola della superiorità morale e del segnale di virtù sono state le caratteristiche centrali del movimento Triade Clinton-Obama-Clinton, coloro che hanno continuato il lavoro di Ronald Reagan nell'economia (come Blair quello della Thatcher, secondo lei), condonando o non resistendo alle oligarchie economiche, ma allo stesso tempo mantenevano un'aura di progressismo culturale.  

In quel momento molti di noi, di fronte alle perplessità della scelta, capirono che c’era bisogno di qualcuno che rompesse la bolla della protezione d’élite, presentandosi come un fuori dagli schemi capace di accumulare rivolte sociali, soprattutto di fronte agli atteggiamenti dei potenti dopo la crisi del trumpismo avvenuta sulla scia della primavera araba, delle rivolte in Europa – come gli indignados in Spagna e le rivolte in Grecia –, da Giugno 2008 in Brasile, oltre, ovviamente, allo stesso Occupy Wall Street, che è passato attraverso l'amministrazione Obama nello stesso modo in cui il 2013 è passato attraverso Dilma (o Haddad, localmente): come niente. Così come Dilma si è lanciata nel 2014 come se niente fosse – basta fare una piccola ricerca empirica per ricordare l’immenso silenzio di quelle elezioni di giugno –, anche Hillary ha avuto ben poco a che fare con l’auspicata rottura tra il 99% e l’1% di Wall Street.

Ma né Trump né Bolsonaro, eletti due anni dopo, rappresentano effettivamente forze antigovernative.stabilimento. In realtà è il contrario: se c’è qualcuno che rappresenta l’establishment nella sua forma più veemente, crudele e ottusa, sono proprio Trump e Bolsonaro. Trump è la forza dell’élite parassitaria che lavora poco e vive dell’umiliazione degli altri, una figura pop mediocre ed esplosiva che rigurgita atrocità ostentando la sua bianchezza e la sua eredità come simboli della prosperità nordamericana di natura imperiale. Bolsonaro, a sua volta, è lo specchio del militarismo sotterraneo, della banda più marcia dell’Esercito e della polizia, coinvolta in mille affari nati dalla violenza estrattiva, dall’insediamento sotto forma di “accumulazione primitiva”, senza formalizzazione, con il land grabbing urbano e il colonelismo – tutto questo sintetizzato nella formula, forse troppo debole, del “miliziano”. Tony Stark negli Stati Uniti e Captain America in Brasile – il miliardario e il volitivo – così funziona l’immaginario dell’estrema destra che coltiva queste figure.

C'era anche la novità delle reti. Qui, come nessun altro, Letícia Cesarino ha esplorato l’ipotesi del “populismo digitale”, una combinazione che riunisce il vuoto significante di Ernesto Laclau e Chantal Mouffe – nella loro teoria del populismo che già denunciava la fragilità dell’assetto tecnocratico-liberale tra centrosinistra e centrodestra, avallati dalle teorie del consenso liberale come Habermas, come meccanismi che aumenterebbero il fascismo – con la cibernetica delle piattaforme, pensate nella loro infrastruttura governata da algoritmi che Si nutrono di feedback, promuovono un coinvolgimento indipendente dai “contenuti”, creando così condizioni molto favorevoli alla memetica virale e alla diffusione di fake news. All'epoca la chiamavo Waldo Hypothesis, desiderio – ben descritto dalla serie Black Mirror, che diventa ogni giorno ancora più attuale, così attuale che nemmeno il suo autore Charlie Brooker riesce più a produrre fiction, tale è la coincidenza tra la sua distopia e il nostro presente –, la voglia, insomma, di “rovinare tutto”, rompere i parametri del politicamente corretto che vanno di pari passo con la stagnazione economica, politica e sociale governata dalle oligarchie tecno-finanziarie.

L'ipotesi di Bernie

Tuttavia, in considerazione di ciò, è stata creata un'altra ulteriore ipotesi: E se l'Outsider fosse nostro?? Si discuteva, in un’altra temporalità e in un altro regime di urgenza, dell’istituzionalizzazione dei movimenti sociali del 2010, soprattutto con il caso di Podemos – che aderiva esplicitamente al populismo – e di Syriza, in Grecia, che si scontrava con l’autorità padrona dell’Europa tecnocrate, la signora di ferro Angela Merkel.

Sorge allora l’ipotesi Bernie: se Sanders, e non Clinton, avesse gareggiato con Trump, forse avrebbe vinto lui. Un controfattuale più o meno impossibile da testare, ma che in ogni caso funziona da motore perché una sinistra un po’ più radicale, che si autodefinisce “socialista” (DSA), cominci a guadagnare volume, creando canali sulle reti che vanno dal podcast, editori di video artistici – in un ecosistema che comprende Novara Media, Jacobin, Verso, Zero Books, tra gli altri. Il Brasile cerca di ripetere, qui, il movimento nei media digitali: entrano canali socialisti, con nomi come Sabrina Fernandes, Jones Manoel, Humberto Mattos e Chavoso dell'USP, oltre a numerosi podcast come Viracasacas, Lado B do Rio, Anticast , ed editori , come Autonomia Letteraria e la stessa Jacobin, ora Jacobina, nel circolo.

Serve insomma un populismo di sinistra, come già difendevano Laclau e Mouffe, ma anche Podemos, in Spagna, e Nancy Fraser è forse il nome teorico del Nord che più esplicitamente ha sollevato l'idea, nella sua celebre e interessantissima opposizione quaternaria tra neoliberismo progressista (Obama) e reazionario (Bush) e populismo reazionario (Trump) e progressista (Sanders).

C’è stato però un ostacolo, e forse il principale fallimento del periodo è stato il caso di Jeremy Corbyn, il britannico Sanders, fortemente sostenuto dalla sedicente “nuova nuova sinistra”, in contrapposizione alla Nuova sinistra, con l'obiettivo di ripristinare lo stato sociale e porre fine all'eredità maledetta della Thatcher. Il fallimento è stato fatto, perché la sconfitta non è stata per tutti: il volto più istrionico, più simile a Trump, possibile nello scenario britannico, il caricaturale Boris Johnson, è stato eletto in una strage contro il candidato di sinistra. Lo stesso accade, in modi diversi, con la sinistra populista francese, Jean-Luc Melenchon, con Podemos in Spagna e con Syriza in Grecia – tutti oggi ombre di se stessi. L’Italia, così prolifica di intellettuali legati alle lotte (si pensi a Negri, Bifo, Lazaratto, Cacciari, Cesare, Agamben, Gerbaudo, Federici, ecc.), sembra del tutto incapace di produrre nulla; al contrario, se Berlusconi fosse, come disse una volta Bifo, il paradigma stesso dell'ingresso del clown in politica, aprendo le porte a Trump, il Paese non ha fatto altro che andare sempre più verso la letteralizzazione del fascismo: prima con i Cinque Stelle, poi con la Lega Nord, fino ad oggi, sempre salendo un altro gradino, governato dal partito fascista della Meloni , ammettendo campi di concentramento per rifugiati africani e milizie razziste per dare la caccia agli immigrati senza documenti. La Germania, che sembrava la caso principale della politica della memoria, invocando il razionalismo superiore degli attuali francofortesi nella loro difesa dell’Unione Europea come avatar kantiano-cosmopolita protetto contro l’ingresso del nazionalismo e del suprematismo, dopo la Lady di Ferro, langue con un partito socialdemocratico sminuito e irrilevante, costretti a governare in alleanza con i rivali per impedire l’ascesa dell’AfD, il nascente partito neonazista.

Né Bernie, in quel periodo, riuscì ad imporsi come leader politico della maggioranza: fu proprio tra i poveri e i neri che venne sconfitto, alle primarie del 2019, dal cachettico Biden, che sarebbe poi diventato un completo fallimento nella sua capacità di produrre la sua successione, con l’altrettanto annacquata Kamala Harris, la cui carriera rappresenta una totale adesione allo stile clintonista di lettura sociale e politica. Ma Bernie continua con la sua ipotesi: c’è un’incomprensione della classe operaia americana tra i politici del partito democratico che li aliena dalla base, gettandoli nel grembo dell’estrema destra. Qualche somiglianza con l'ipotesi di un certo Partito dei Lavoratori che non può più parlare alla classe operaia – oggi precaria, disorganizzata e individualista – di oggi?

L'ipotesi fascista

Qui possiamo chiederci se Bernie, e con lui quasi tutta la sinistra, abbiano ragione. Perché anche qui da noi abbiamo due letture antagoniste della sinistra che convergono verso una conclusione implicita: per alcuni la popolazione non va bene per la sinistra, è il fenomeno della “destra povera”. Per altri è la sinistra a non essere all’altezza dei poveri, è la “perdita di contatto con la base”. Entrambi, però, presuppongono che vi sia una coincidenza negli interessi della sinistra e dei lavoratori, mitigata da comunicazioni errate e decisioni politiche codarde. Ma lo farà?

E se proponessimo qui un'ipotesi molto più scomoda, meno politicamente corretta, secondo cui forse, in fondo, i desideri delle persone sono più letterali di quanto sembri? La sinistra, in qualche modo, sembra sempre bloccata nel problema dell’ignoranza. Se l’altra persona non è con me è perché non capisce le mie ragioni. Coscienza di classe, emancipazione, riflessività, insomma tutto questo apparato che va da sé paideia à Bildung – e, in questo caso, la “formazione” (nella versione USP) o la “consapevolezza” (nella versione Freire) – produrranno una convergenza politica che farà insorgere il popolo contro la propria oppressione. Il “desiderio fascista” di oggi, se così si può chiamare, è una mancanza di illuminazione. Anzi, potremmo eufemizzare un po’ la parola “fascista”, per favore? Dopotutto, queste persone hanno votato per Lula nel 2002... Molti argomenti si trovano in questo paniere: il "legame sociale", il "desiderio di appartenenza", la "sopravvivenza", la "precarietà", la "incomprensione delle loro rivendicazioni"... comunque , ci saranno un mucchio di considerazioni che vanno dalla manipolazione sociale all’isolamento della sinistra per giustificare che non è fascismo, è qualcos’altro.

In questo si è stabilita nella teoria una strana premessa, forse come effetto del mega trionfalismo liberale della Fine della Storia: che il fascismo è un fenomeno patologico che comporta una forte adesione intellettuale ed è limitato a piccoli segmenti della popolazione. Tutto rigorosamente contrario a quanto ci hanno insegnato i pensatori del fascismo, a partire da Freud (ante litteram), da Adorno e Reich a Foucault e Deleuze: il fascismo come fenomeno di massa. All'improvviso le accademie – brasiliana e nordamericana, per esempio – sono pronte a dire: sì, c'è stato un forte sostegno per le idee di Bolsonaro e Trump, ma non allarmamoci: la gente è solo confusa. Un passo in più, forse, per dire: “è colpa nostra!”, noi che non capiamo nulla di quello che sta succedendo, e stiamo addirittura sprecando un modo per navigare sul malcontento sociale. In quest'ultimo caso si crea il curioso caso dell'intellettuale-delle-masse-senza-masse, delle masse che sono minuscole minoranze, il comunicatore della rivoluzione popolare che non è eletto amministratore del suo condominio; mentre, dall'altro lato, le minoranze, gli impopolari patologici che sono “eccezioni”, mobilitano le vere masse in quantità di “alienati”. 

Ora, è possibile che non capiamo nulla, ma la domanda rimane: che dire del desiderio dell'altro, ci è così nascosto? Perché anche le etnografie più interessanti e necessarie, nelle loro interviste, tendono a mostrare ciò che tutti già sanno: la meritocrazia, il conservatorismo morale, il desiderio di prosperità, l'identificazione. Un museo di grandi novità. Sappiamo, ad esempio, che la popolazione brasiliana, in tutte le classi sociali, lo è ipnotizzato – nel senso che Freud dà alla psicologia di massa – attraverso piattaforme digitali come Instagram e Tik Tok, per non parlare del gioco d’azzardo sulle app di scommesse. Il mondo che Jonathan Crary chiama “24/7”, 24 ore e 7 giorni, Non stop, è visibile ovunque nel nostro paesaggio: alla fermata dell'autobus, sulla spiaggia, nel centro commerciale, sul marciapiede, al bar – direi anche in luoghi del tutto improbabili, come uno stadio di calcio, un concerto musicale o una cinema, dove teoricamente l’attenzione dovrebbe essere rivolta allo spettacolo, non al piccolo schermo e alle sue banalità. Ciò che circola su queste reti è facilmente mappabile: denaro, corpo, potere, successo. Pablo Marçal l'ha capito così facilmente che ha persino risposto alle domande dei giornalisti con concetti derivati ​​dal digitale come “economia dell'attenzione”, invece di grandi idee o giustificazioni stravaganti.

E se le persone, nelle maggioranze elettorali, fossero semplicemente anche volendo ciò che viene proposto? Passiamo al caso degli Stati Uniti. La punta più grande sulla bilancia delle ultime elezioni sono stati i cosiddetti “latino men”, che del resto è una visione tipicamente razzista degli Stati Uniti. Dopotutto, chi di noi brasiliani, per esempio, si considera di “razza latina”? La bianchezza anglosassone, nel suo tipico suprematismo, elevò i tratti cosiddetti “nordici” (o: ariani), come i capelli biondi, la pelle bianchissima e gli occhi chiari, a caratterizzare la vera bianchezza, separandosi così dal meticciato “ispanico”. ” proveniente dai veri latini, dall'Europa romano-cattolica dell'Europa meridionale, soprattutto dagli iberici, in contatto con popolazioni indigene originarie delle Americhe. Ma è sempre una questione di eteroidentificazione: sotto lo sguardo condiscendente del partito democratico, o lo sguardo xenofobo del partito repubblicano – vittima o colpevole. Che, in effetti, è fortemente avallato nell'immaginario anti-messicano di serie di successo, alcune delle quali sono addirittura bellissime produzioni estetiche. Nelle elezioni, Trump ha portato al massimo il suprematismo bianco: ha addirittura affermato che le popolazioni immigrate (che sappiamo essere un codice per dire: non bianche) rubano e mangiano cibo. animali domestici della tradizionale famiglia americana, sono assassini, stupratori e ladri e vivono negli Stati Uniti sotto gli auspici della stampa e dei politici liberali. Di più: con un gesto tipicamente nazista, che secondo lui stesso verrebbe etichettato come “nazista” dai “radicali di sinistra”, ha affermato che gli immigrati sono inquinando il sangue americano, qualcosa che non lascia dubbi sulla sua parentela con le scienze della vita del XIX secolo.

Ma la domanda è: perché, anche così, i cosiddetti “latini” hanno votato per Trump? Ora, chi sono? Noi brasiliani purtroppo li conosciamo molto bene nel nostro caso: basti pensare a chi sono noi che sono lì, in Florida, a sostenere Bolsonaro e a chiedere a Trump di salvare il Brasile dal comunismo. Lo stesso accade, lo sappiamo abbastanza bene, tra i venezuelani e i cubani che vivono lì, anche se, in questi casi, il problema è più complesso. Comunque, queste persone si vedono bianche. Questo è il punto. La corsa non è solo qualcosa legato al colore della pelle, ma un gioco di posizioni. Numerosi e potenti studiosi – come Carlos Hasenbalg, Neusa Santos Souza, Lelia Gonzales, Lia Schucman, Liv Sovik, Clóvis Moura, Sueli Carneiro, tra gli altri – dimostrano che la razza è una posizione di potere, non un’essenza biologica (e nemmeno solo “ culturale”, che ne farebbe una “identità”). Pertanto, una persona bianca è sempre bianca in relazione a qualcuno non bianco. Ciò significa, come abbiamo visto a Bacurau, che un brasiliano bianco può smettere di essere bianco di fronte a un suprematista nordamericano; proprio come, cosa ancora più sorprendente, ci fa entrare Min Jin Lee Pachinko che i giapponesi, “tecnicamente” un cosiddetto popolo “giallo”, si consideravano bianchi rispetto ai coreani da loro colonizzati sia per la loro condizione culturale-militare che per il colore della pelle più chiaro. La bianchezza è potere e, come il potere, accesso. Quindi, potremmo chiedere: i cosiddetti “latini” che hanno votato per Trump identificato come bianco ed è per questo che hanno votato per lui? Sembra di sì, anche se alla fine ne ricevono molti Valutazioni aspetti negativi delle loro affermazioni. L'identificazione non è “adattamento ai fatti”, come postula la teoria della coscienza, basata sulla teoria della verità. Già Freud mostrava il carattere aspirazionale, l'“ideale dell'Io” implicato nell'identificazione, lontano da ogni corrispondenza identità/interesse che potesse essere stimata attraverso analisi rigidamente segmentate in categorie. Una volta ottenuto il accesso (il documento legale), si tratta di rendere il distinzione a scapito della solidarietà, del guardare “laggiù” e aspirare ad occupare quel posto.

Questo punto ci porta ancora più avanti: diciamo che, in generale, la sinistra è il partito dell'egualitarismo e della solidarietà, mentre la destra è il partito della meritocrazia e della distinzione. Margaret Thatcher difendeva, a fronte di un solido stato sociale, il diritto alla disuguaglianza come diritto dei cittadini britannici. E se, come ha mostrato Trump nel suo ultimo discorso prima del suo insediamento, la polarizzazione è tra meritocrazia e politiche delle quote, sappiamo esattamente qual è la posta in gioco: la meritocrazia è supremazia bianca, poiché le politiche delle quote erano semplicemente “compensative” dei ritardi rispetto al una vera meritocrazia. Coloro che hanno ottenuto l’accesso razziale sono, nella loro mente, garantiti nel gioco, quindi possono adattarsi alle nuove regole. Hanno votato come parte di un Impero, che è quello che è l'America, e si considerano abitanti di Roma separati dalle province conquistate, nelle quali devono essere restituiti barbari e selvaggi per non disturbare la prosperità della Metropoli. In Brasile, ovviamente, le cose sono un po’ diverse, perché abbiamo un nazionalismo vicario: si è tanto più “patriottici” quanto più si disprezza il Brasile e si loda gli Stati Uniti. Lontano da Policarpo Quaresma, il nazionalista brasiliano guarda al Brasile con disprezzo di sé, proiettandosi come un americano che guarda se stesso dal di fuori. Odia fortemente tutto ciò che è il Brasile, e non è un caso che ci sia un riflesso speculare tra la percezione esterna: guarda agli stranieri come modelli e si vede come parte di loro, ma gli stranieri elogiano il Brasile proprio per ciò che odia di più, a nello stesso tempo in cui lo vedono come il nostro esemplare più ripugnante. Sembra che il rapporto masochista di Bolsonaro con Trump, che idolatra e sommariamente disprezza, confermando il suo desiderio di umiliazione. Ancora una volta: l’identificazione non è un processo che collega X a – nel corpo dell’Y dominante.

Esattamente come accaduto con Bolsonaro, Trump comincia con dichiarazioni che giocano sull’indecisione tra il serio e lo scherzoso. È un laboratorio delle oscenità, intese come ciò che sta fuori dalla scena, sotto le tende, e viene alla luce. Ma, dopo un po', il tuo programma diventa letteralizzare. Se la spavalderia di Bolsonaro nel 2018 sembrava proprio questa, spavalderia, è difficile sostenere la stessa cosa quando ci troviamo di fronte a persone che mettono a rischio la propria vita e quella dei loro parenti negando il vaccino anti-COVID. È stato così anche con il fascismo storico, da qui la povertà di analisi che pensano che tutto ciò che non è uno stato totalitario di burocrazia partitica circondato da campi di concentramento non può essere chiamato fascista – come se la fine del processo fosse il suo inizio.

D'altra parte, l'idea della sinistra è che le persone siano vasi vuoti in cerca di significato per le loro tensioni materiali, ma questo significa sottovalutare il campo del desiderio e i miti che ruotano attorno ad esso. Ci si può aggrappare al mito perché il desiderio non chiede più di questo e, peggio ancora, forse la certezza da parte della sinistra dei propri miti come se fossero qualcosa di più – i miti – può essere l’errore più grande di tutti, quello che tormenta la mente. forma del terrore del despota illuminato.

Quindi, per concludere, abbiamo centinaia di migliaia di studi sulle forme di produzione della soggettività neoliberista, ma quando ci troviamo di fronte al fatto più o meno semplice che i nostri studi sono veri, cioè che le persone pensano e agiscono davvero secondo ciò che etica neoliberista, ci ritiriamo con forza per dire: no, ma hanno un buon cuore. Si confronti il ​​caso, citato da Rosana Pinheiro-Machado, di poveri che, nonostante un notevole accumulo di promesse di arricchirsi giocando alle scommesse, continuano – anche dopo la loro scommessa simbolica (qualcuno mostra la truffa) e reale (il risultato non non arriverà) - insistendo sul fatto che raggiungeranno l'obiettivo, che semplicemente non è il loro turno, proprio come l'ex allenatore dice di aver perso le elezioni perché non ha ottenuto l'allineamento di chissà quali energie necessarie per raggiungere un obiettivo picco superiore a raggiunto. È più di un’illusione: è un desiderio positivo dotato di una base mitica (un’“agenzia”) capace di sostenerlo.

Una buona politica deve partire dal presupposto dell’ambivalenza delle persone, non dalle idealizzazioni. I regimi fascisti del secolo scorso hanno dimostrato che chiunque, in qualsiasi posizione, può diventare il carnefice di se stesso. Ciò non lo colloca in un luogo inamovibile, né necessariamente imperdonabile, ma indica semplicemente un punto di partenza che non è una fantasia in termini di pio desiderio, né un’autoflagellazione dei santi e dei martiri che interiorizzano la loro aggressività di fronte al desiderio fascista dell’altro come colpa –”ci sbagliavamo”, passiamo ora alla confessione e all’autocritica. Questa presa di posizione si basa su un’egemonia che non è mai esistita, in un luogo dove i valori che la sinistra identifica come più giusti, come l’uguaglianza, la solidarietà e il dialogo, sono già consolidati, come un giardino dell’Eden perduto di fronte alla la nostra caduta nella corruzione della società (più contemporanea: i media, i social network, gli allenatori, ecc.). Se l’autocritica è necessaria, è nel senso di comprendere come i valori che vengono dati come presupposti non siano necessariamente condivisi da tutti.  

Migliorare è necessario, ma comprendere che il miglioramento non presuppone lavorare su un contenitore vuoto, come se l’altro semplicemente “non sapesse” cosa vuole, forse ci porta a prospettive tattiche e strategiche più realistiche e, soprattutto, più efficaci. .

*Moysès Pinto Neto Ha un dottorato in filosofia presso la PUC-RS ed è professore ospite nel programma di letteratura post-laurea presso l'UFSC.


la terra è rotonda c'è grazie ai nostri lettori e sostenitori.
Aiutaci a portare avanti questa idea.
CONTRIBUIRE

Vedi tutti gli articoli di

I 10 PIÙ LETTI NEGLI ULTIMI 7 GIORNI

Vedi tutti gli articoli di

CERCARE

Ricerca

TEMI

NUOVE PUBBLICAZIONI