da ARLINDO MACHADO*
Commento alle varie forme del cinema di saggistica.
Perseguo da tempo l'idea di un cinema di tipo saggistico, che in passato, usando un'espressione di Eisenstein, chiamavo cinema concettuale e oggi tendo a chiamarlo film-saggio. Ho scritto di questo argomento per la prima volta, ma ancora in modo incipiente, sulla vecchia rivista Ciné Olho, poi nel libro Eisenstein (Brasiliense, 1983), poi, già affinando meglio l'idea, in un testo sul linguaggio del video (1997: 188-200) e infine in un libro sull'eloquenza delle immagini (2001), oltre a passare accenni al tema qua e là.
È interessante notare che negli ultimi anni c'è stato un interesse crescente nel pensare al cinema o all'audiovisivo in generale attraverso questo prisma. Jacques Aumont, ad esempio, ha scritto un libro notevole su questo, chiamato à quoi pensent les films (1996), dove difende l'idea che il cinema sia un modo di pensare: ci racconta idee, emozioni e affetti attraverso un discorso di immagini e suoni denso come il discorso delle parole. Gilles Deleuze, nel suo libro postumo L'île déserte e altri testi (2002), afferma che alcuni cineasti, in particolare Godard, hanno introdotto il pensiero nel cinema, cioè hanno fatto pensare il cinema con la stessa eloquenza con cui, in altri tempi, lo facevano i filosofi usando la scrittura verbale.
In inglese esistono ormai un buon numero di antologie che provano a riflettere su quello che a volte, in mancanza di un termine più appropriato, si chiama ancora documentario, ma che ormai è una forma di pensiero audiovisivo. Potrei citare, ad esempio, Etnografia sperimentale, antologia a cura di Catherine Russell (1999), e Teoria della visualizzazione, organizzato da Lucien Taylor (1994), in cui gli autori, seguendo l'idea di un'antropologia visiva, formulata a partire dal 1942 da Margaret Mead (Mead & MacGregor, 1951; Mead & Metraux, 1953), indagano il potenziale analitico dell'audiovisivo media, cioè le strategie di analisi non linguistiche che permettono al cinema e ai media affini di superare la letterarietà e la scopofobia dell'antropologia classica e, per estensione, di tutto il pensiero accademico. UN Rassegna di antropologia visiva, pubblicato negli Stati Uniti dal 1990, è anche una manifestazione di questo nuovo modo di praticare l'antropologia attraverso saggi visivi o audiovisivi.
Esaminiamo quindi il film di prova e cominciamo spiegando il concetto. Pensiamo prima alle prove. Chiamiamo saggio un certo tipo di discorso scientifico o filosofico, solitamente presentato in forma scritta, che porta attributi spesso considerati “letterari”, come la soggettività del focus (esplicitezza del soggetto che parla), l'eloquenza del linguaggio ( preoccupazione per l'espressività del testo) e la libertà di pensiero (concezione della scrittura come creazione, invece che semplice comunicazione di idee). Il saggio, quindi, si differenzia dal mero resoconto scientifico o comunicazione accademica, dove il linguaggio è utilizzato nel suo aspetto meramente strumentale, e anche dal trattato, che mira a una sistematizzazione integrale di un campo di conoscenza e a una certa “assiomatizzazione” del linguaggio . .
Uno degli approcci più eloquenti al saggio si trova in un testo di Adorno (1984: 5-29), intitolato appunto “The Essay as Form” e raccolto nel primo volume del suo Note di letteratura. In questo testo, Adorno discute l'“esclusione” del saggio nel pensiero occidentale con radici greco-romane. Perché cerca la verità e, di conseguenza, invoca una certa razionalizzazione di andatura, il saggio è escluso dal campo della letteratura, dove ogni incredulità dovrebbe essere sospesa. D'altra parte, poiché insiste nell'esporre il soggetto parlante, con il suo sguardo intenzionale e le sue formalizzazioni estetiche, il saggio è escluso anche da tutti quei campi del sapere (filosofia, scienza) che si suppongono oggettivi. In altri termini, l'attributo “letterario” squalifica il saggio come fonte di conoscenza, l'irruzione della soggettività ne compromette l'oggettività e, di conseguenza, quel “rigore” che dovrebbe contraddistinguere ogni processo di conoscenza e, dall'altro, la l'impegno nella ricerca della verità rende il saggio incompatibile anche con ciò che si suppone sia la gratuità della letteratura o l'irrazionalismo dell'arte. Pertanto, collocandosi in una zona di verità e di autonomia formale al tempo stesso, il saggio non trova posto all'interno di una cultura basata sulla dicotomia delle sfere del sapere e dell'esperienza sensibile e che, a partire da Platone, ha accettato di separare poesia e filosofia , arte e scienza.
Non è dunque il caso di dire, se vogliamo seguire il ragionamento di Adorno, che il saggio si situa al confine tra letteratura e scienza, perché, se la pensiamo così, avalleremo comunque l'esistenza di una dualità tra ed esperienze conoscitive. Il saggio è la negazione stessa di questa dicotomia, perché in esso le passioni invocano la conoscenza, le emozioni architettano il pensiero e lo stile affina il concetto. “Perché il saggio è la forma per eccellenza del pensiero nella sua indeterminatezza, di un processo in atto verso un obiettivo che molti saggisti chiamano verità” (Mattoni, 2001: 11).
Tutta la riflessione sul saggio, però, ha sempre pensato a questa “forma” come essenzialmente “verbale”, basata cioè sulla manipolazione del linguaggio scritto, anche se il rapporto tra saggio e letteratura è, come abbiamo visto, problematico . Lo scopo di questo articolo è discutere la possibilità di saggi non scritti, saggi sotto forma di espressioni audiovisive. Anche se teoricamente è possibile immaginare saggi in qualsiasi tipo di linguaggio artistico (pittura, musica, danza, ad esempio), potendo sempre affrontare l'esperienza artistica come una forma di conoscenza, per comodità ci limiteremo qui ad esaminare la dimensione cinematografica solo saggio. Poiché il cinema mantiene con il testo letterario alcune affinità legate alla discorsività e alla struttura temporale, oltre ad avere anche la possibilità di includere il testo verbale sotto forma di locuzione orale, viene facilitata la sfida di pensare un saggio in forma audiovisiva, ovvero a almeno più operativo che se invocassimo altre forme artistiche. Appare quindi perfettamente giustificato iniziare con il cinema ei suoi congeneri un approccio al saggio in forma non scritta, a maggior ragione se si considera che questo discorso potrà poi essere ampliato con la considerazione di altre forme artistiche.
Il documentario e il saggio
Tra i generi cinematografici, il documentario potrebbe essere considerato la forma audiovisiva che più si avvicina al saggio, ma questo è un modo fuorviante di vedere le cose. Il termine documentario copre una gamma molto ampia di opere del genere più vario, dei temi più vari, con stili, formati e calibri di ogni genere. Ma, nonostante tutta questa varietà, il documentario si basa su un presupposto essenziale, che è il suo segno distintivo, la sua ideologia, il suo assioma: la credenza nel potere della macchina da presa e della pellicola di registrare qualche emanazione del reale, sotto forma di tracce, segni o qualsiasi tipo di registrazione di informazioni luminose presumibilmente desunte dalla realtà stessa. Questa credenza in un principio di “indice” che costituisca ogni immagine di natura fotografica (comprese le immagini cinematografiche e videografiche) è il tratto caratteristico del documentario, ciò che lo distingue da altri formati o generi audiovisivi, come la finzione narrativa o il cartone animato.
Puoi fare qualsiasi cosa con un documentario: uno sguardo alle manifestazioni popolari in Argentina, un reportage sulla vita quotidiana dei palestinesi sotto il fuoco israeliano, un viaggio turistico sulle Alpi in inverno, uno sguardo al microscopio sul modo in cui le cellule sono suddivise all'interno un organismo vivente – ma ciò che accomuna tutti questi esempi nella categoria del documentario è la credenza quasi mistica nel potere dell'apparato tecnico (fotocamera, principalmente) di catturare da solo immagini o “indici” di queste realtà. Un cartone animato non potrebbe mai essere un documentario perché non ha quel tratto, anche se, a rigor di termini, non c'è nulla che impedisca a un cartone animato di avvicinarsi, anche più in profondità, alle manifestazioni popolari in Argentina, alla vita quotidiana dei palestinesi sotto il fuoco israeliano, un viaggio turistico sulle Alpi in inverno, o il modo in cui le cellule sono suddivise all'interno di un organismo vivente. La differenza, rispetto al disegno, è che nel documentario il “reale” stesso genera (o dovrebbe generare) la sua immagine e la offre alla macchina da presa, grazie soprattutto alle proprietà ottico-chimiche dell'apparato tecnico e senza contaminazione di una soggettività anch'essa supposta parziale o deformante.
Associata a questa credenza nel potere della tecnologia di agganciare qualcosa che può essere chiamato “reale” è implicita anche una strana forma di ontologia, che presuppone il mondo concreto e materiale come già costituito nella forma del discorso, un discorso “naturale”, che “parla” da sé e con i propri mezzi, a cui basta prestare attenzione e rispetto, ma senza intaccarla o imporle nessun altro discorso. Tutta questa convinzione, profondamente radicata tra noi, viene dalle origini ideologiche dell'immagine speculare occidentale, emerse nel Rinascimento e raggiunse il suo parossismo nelle idee di André Bazin, negli anni Cinquanta, sul potere della macchina fotografica di catturare le emanazioni del reale (si veda, ad esempio, Bazin, 1950: 1981-9; 17-63). Nel caso di Bazin, ciò è persino giustificato, in quanto questo autore si occupa di una presunta forma di panteismo. Essendo cattolico, Bazin supponeva che un super-discorso fosse già presente nel mondo, ancor prima che si potesse dire qualcosa al riguardo, poiché questo mondo non è altro che il discorso di un super-enunciatore, chiamato Dio. È impossibile credere all'esistenza di un discorso naturale nel mondo, che il regista dovrebbe solo catturare, senza bisogno di alcuno sforzo umano di intelligenza o interpretazione, se non attraverso questo panteismo naif.
Ora tutto questo è palesemente ingenuo ed è sorprendente che questo modo di vedere le cose sopravviva e resista dopo quasi 200 anni di storia della fotografia, dopo più di 100 anni di storia del cinema e nel pieno dell'era della manipolazione digitale delle immagini. Il documentarista, nel senso tradizionale e purista del termine, è una creatura che crede ancora nelle cicogne. Si è parlato molto negli ambienti documentaristici, per fortuna sempre meno tra le nuove generazioni, che l'essenza del documentario è non interpretare le cose, non intervenire su ciò che la macchina da presa riprende, non aggiungere un discorso esplicativo alle immagini, lasciare che la “realtà” si riveli nel modo più spoglio possibile. Adesso è assolutamente impossibile. Se il regista si rifiuta di parlare in un film, cioè di intervenire, interpretare, ricostituire, chi parlerà al suo posto non è il “mondo”, ma Arriflex, Sony, Kodak, cioè l'apparato tecnico. Sappiamo benissimo che il dispositivo foto-cine-video è tutt'altro che innocente. È stato costruito in condizioni storiche, economiche e culturali molto specifiche, per scopi o usi molto particolari, è il risultato di certe visioni del mondo e materializza queste visioni nel modo in cui ricostituisce il mondo visibile. Ciò che viene catturato dalla macchina fotografica non è il mondo, ma una certa costruzione del mondo, proprio quella che la macchina fotografica e altri dispositivi tecnologici sono programmati per far funzionare.
La cinepresa richiede, ad esempio, che si scelgano frammenti del campo visibile (sezione di spazio per inquadratura e profondità di campo, sezione di tempo per durata dell'inquadratura) e quindi che si assegnino già dei significati a certi aspetti della visibile e non agli altri. Bisogna anche scegliere un punto di vista, che a sua volta organizzi il reale sotto una prospettiva deliberata. La bibliografia pertinente al tema fa riferimento a un gran numero di casi studio dove la manipolazione dei ritagli temporali e spaziali e la selezione dell'angolo di visione ricostituiscono la scena in modo radicale, fino a trasfigurarla addirittura completamente. Ogni tipo di lente, a sua volta, ricostituisce in un certo modo un campo visivo. Si potrebbe parlare di una produttività di visione grandangolare e un'altra di visione teleobiettivo. L'immagine tridimensionale viene appiattita in due dimensioni attraverso l'inserimento del codice prospettico rinascimentale, con tutto il suo carico simbolico e ideologico. Anche il segno del negativo, la sua granulosità, la sua sensibilità alla luce, la sua latitudine influenzano il risultato finale.
Tutto questo è riferito solo all'immagine, ma restano le determinazioni del campo acustico (voci, rumore, musica, narrazione), così come gli effetti di sincronizzazione immagine-suono. Ricordiamo un'istruttiva sequenza di immagini della città siberiana di Irkutsk, nel film Lettera siberiana (1957) di Chris Marker, che viene ripetuto tre volte nel film, ogni volta con una colonna sonora diversa, in modo da cambiare completamente il significato delle immagini. Inoltre, c'è tutto un processo di ricostruzione del cosiddetto mondo reale che avviene dall'altra parte, dalla parte dell'oggetto, di ciò che è disponibile a seconda della presenza della telecamera. Ogni volta che qualcuno si sente guardato da una lente, il suo comportamento si trasfigura e comincia subito ad agire. La macchina da presa ha un potere trasfigurante nel mondo visibile che è devastante nelle sue conseguenze. Circa vent'anni fa ho pubblicato The Specular Illusion (1984), dove ho parlato dei modi in cui la realtà viene convertita in discorso dalla macchina fotografica, che il fotografo o il regista ne siano consapevoli o meno. Da allora sono ritornato con insistenza sul tema, attraverso numerosi studi sul modo in cui immagine e suono codificano il visibile, costruiscono una visione del mondo, a volte anche contro la volontà del regista. Quindi come si potrebbe ingenuamente parlare di documentario?
Se il documentario ha qualcosa da dire oltre alla semplice celebrazione di valori, ideologie e sistemi di rappresentazione cristallizzati dalla storia nei secoli, questo altro che ha è proprio ciò che va oltre i suoi limiti di mero documentario. Il documentario inizia ad interessarsi quando si dimostra capace di costruire una visione ampia, densa e complessa di un oggetto di riflessione, quando diventa un saggio, una riflessione sul mondo, un'esperienza e un sistema di pensiero, assumendo così quello che tutti gli audiovisivi è in sostanza: un discorso sensibile sul mondo. Credo che i migliori documentari, quelli che hanno un qualche contributo da dare alla conoscenza e all'esperienza del mondo, non siano più documentari nel senso classico del termine; sono, infatti, film-saggi (o video-saggi, o saggi in forma di programma televisivo o ipermediale).
I pionieri russi
Per andare avanti, potremmo fare qui riferimento a un'importante discussione che ebbe luogo all'interno del pensiero marxista, più precisamente nella Russia sovietica degli anni '20, quando alcuni registi impegnati nella costruzione del socialismo intravidero nel cinema muto la possibilità di promuovere un salto verso un'altra dimensione discorsiva. modalità, fondata non più sulla parola, ma su una sintassi di immagini, su quel processo di associazioni mentali che riceve, nei media audiovisivi, il nome di montaggio o montaggio.
Il più eloquente di questi registi, Serguei Eisenstein, formulò, alla fine degli anni '20, la sua teoria del cinema concettuale, di cui trovò i principi nel modello della scrittura nelle lingue orientali. Secondo il regista, i cinesi hanno costruito una scrittura “per immagini”, utilizzando lo stesso processo usato da tutti i popoli antichi per costruire il proprio pensiero, cioè attraverso l'uso di metafore (immagini materiali articolate in modo da suggerire relazioni immateriali) e metonimie (trasferimenti di significato tra immagini). Il concetto di “dolore”, ad esempio, si ottiene, nella scrittura kanji orientale, attraverso l'assemblaggio (anzi, la sovrapposizione) degli ideogrammi di “coltello” e “cuore”. In altre parole, per gli orientali, la sensazione di dolore è espressa dall'immagine (pittogramma) di un coltello che trafigge il cuore. Nulla di diverso, infatti, dall'uso di espressioni come “ter o corazón dilacerado”, in portoghese, o “to break the heart”, in inglese, per esprimere sentimenti di tristezza o sofferenza.
Infatti, anche le lingue occidentali fanno largo uso di figure retoriche come metafora, metonimia e loro derivati. Se sopprimessimo i tropi di queste lingue, si ridurrebbero a un balbettio elementare, privo di qualsiasi intelligenza o sensibilità. Basti pensare alla differenza di forza che esiste tra un'espressione denotativa diretta come “sta tuonando” e una metafora connotativa come “il cielo si schiarisce la gola” (Guimarães Rosa). La maggior parte degli idiomi (come, in portoghese, "chover canivete" o "duro pra dog") sono tropi che sono stati generalizzati e sono venuti a costituire il lessico di una lingua. Lo stesso discorso scientifico, considerato accurato e oggettivo, è pieno di metafore e metonimie. In anatomia e fisiologia, ad esempio, le espressioni “tessuto”, “cellula stellata”, “gabbia toracica” e “bacino addominale” sono metafore. Anche alcuni concetti di astrofisica come “nebulosa”, “stella nana”, “quarta dimensione”, “buco nero”, “Big Bang”, “morte termica”, “uovo cosmico”, “brodo primordiale” ecc. sono metafore. Mammifero, in zoologia, è una sineddoche (tipo di metonimia), in cui una sola delle tante caratteristiche di una specie (il fatto che l'animale allatti da piccolo) designa la specie nel suo insieme, cioè il parte per il tutto. Pertanto, anche il discorso scientifico è impensabile senza figure retoriche.
Purtroppo il cinema – prevalentemente sonoro, formatosi a partire dagli anni Trenta – ha fatto di tutto per eliminare dalle sue risorse retoriche l'eloquenza espressiva di metafore e metonimie, soprattutto a causa della dittatura del realismo che in esso si era instaurata e per la quale ogni interferenza con il La “naturalezza” della registrazione è una deviazione “letteraria”. Sono noti, a questo proposito, gli sforzi di André Bazin per screditare il cinema “metaforico” del cosiddetto periodo muto, in particolare il cinema russo del periodo sovietico (si veda, ad esempio, Bazin, 1930: 1981-49). È come se Bazin postulasse che nel cinema non si possa mai dire (o rappresentare in immagini e suoni) “il cielo si schiarisce la gola”, ma solo “sta tuonando”. Né si può, in un film scientifico, dire “brodo primordiale”, ma solo “soluzione di amminoacidi”. Film sfortuna! Ti impoverisce e basta. In ogni caso, oggi possiamo valutare il danno che pregiudizi di questo tipo hanno inflitto allo sviluppo del linguaggio audiovisivo.
Perché è lì che avviene la svolta di Serguei Eisenstein. Il montaggio concettuale da lui ideato è una forma di enunciazione audiovisiva che, partendo dal pensiero “primitivo” per immagini, riesce ad articolare concetti basati sul puro gioco poetico di metafore e metonimie. In esso due o più immagini si uniscono per suggerire una nuova relazione non presente in elementi isolati. Si arriva così, attraverso processi associativi, al concetto astratto e “invisibile”, senza perdere il carattere sensibile dei suoi elementi costitutivi. Ispirato dagli ideogrammi, Eisenstein credeva nella possibilità di elaborare, anche al cinema, idee complesse attraverso solo immagini e suoni, senza necessariamente passare per la narrazione, e fece anche alcuni esperimenti in tal senso, in film come ottobre (Ottobre/1928) e Staroie e Novoie (Il vecchio e il nuovo/1929). Il regista ha anche lasciato un taccuino per un progetto (fallito). La capitale da Karl Marx al cinema (vedi, sulle idee di Eisenstein per Oktiabr, Staroie i Novoie e Das Capital: Machado, 1983).
Ma, se Eisenstein ha formulato le basi di questo cinema, chi lo ha effettivamente creato nella Russia rivoluzionaria è stato il suo collega Dziga Vertov. Nelle parole di Annette Michelson (1984: XXII), Eisenstein non è mai stato in grado di portare il suo progetto cinematografico concettuale fino alle ultime conseguenze, poiché gli è stato permesso di realizzare solo film narrativi di natura drammatica. Vertov, però, non ha mai avuto questo tipo di limitazione e, per questo, ha potuto assumere più radicalmente la proposta di un cinema interamente fondato su associazioni “intellettuali” e senza bisogno del supporto di una favola. Queste associazioni compaiono già in diversi momenti del Kino-Glaz: Jizn Vrasplokh (Cine-Olho: vita all'improvvisazione/ 1924) di Vertov, soprattutto nella magnifica sequenza della donna che fa la spesa alla cooperativa. In questa sequenza, Vertov utilizza il movimento retroattivo della macchina da presa e il montaggio invertito per modificare il processo produttivo economico (la carne, che era stata esposta al mercato, ritorna nuovamente al macello e quindi al corpo del bue macellato, facendolo “resuscitare”), ripetendo così il metodo di inversione analitica del processo reale, utilizzato da Karl Marx in La capitale (Il libro inizia con un'analisi della merce e da lì ritorna al modo di produzione, poiché secondo la metodologia marxista l'inversione è una forma di svelamento). ma è dentro Kinoapparatom di Chelovek (Il cameraman/1929) che il processo delle associazioni intellettuali raggiunge il suo massimo grado di elaborazione, sfociando in uno dei film più densi di tutto il cinema, che ruota, allo stesso tempo, “il ciclo di una giornata di lavoro, il ciclo della vita e morte, riflessione sulla nuova società, sulla mutevole situazione delle donne in essa, sulla sopravvivenza dei valori borghesi e della povertà sotto il socialismo, e così via” (Burch, 1979: 94).
Kinoapparatom di Chelovek significa letteralmente “l'uomo con l'apparato cinematografico”. Aumont (1996: 49) propone di pensare a questo film come al luogo in cui si fonda il cinema come teoria, basandosi su un'affermazione dello stesso Vertov (1972: 118): “Il film Kinoapparatom di Chelovek non è solo un risultato pratico, ma anche una manifestazione teorica sullo schermo”. Denso, ampio, polisemico, il film di Vertov sovverte sia la visione romanzesca del cinema come finzione, sia la visione ingenua del cinema come documentario. Il cinema diventa, da esso, una nuova forma di “scrittura”, cioè di interpretazione del mondo e di ampia diffusione di questa “lettura”, da un apparato tecnologico e retorico riappropriato in una prospettiva radicalmente diversa da quella che l'ha originato.
Degno di nota è il fatto che Vertov non abbia mai filmato né accompagnato le riprese. In generale, ha utilizzato materiali d'archivio, come in Tri Pesni o Lenin (Tre angoli per Lenin/1934) – o guidato, per telefono o per lettera, il lavoro di cameramen distribuiti in diverse parti della Russia – come in Chestaia Tchast Mira (La sesta parte del mondo/1926). Fondamentalmente era un montatore, un costruttore di sintagmi audiovisivi. Il materiale filmato per lui era solo materiale grezzo che si trasformava in discorso cinematografico solo dopo un processo di visualizzazione, interpretazione e montaggio. La maggior parte delle immagini del Kinoapparatom di Tchelovek sono in realtà la creazione del fotografo Mikhail Kaufman. Vertov ha operato su questo film a livello di ideazione, sceneggiatura e, successivamente, montaggio. Sebbene non ne fosse direttamente l'editore (il montaggio è stato eseguito da Elizaveta Svilova, che appare nei titoli di coda come "assistente al montaggio"), ha diretto il processo di editing più o meno come il filosofo del Medioevo dettava il suo testo allo scrivano. In questo senso si può dire che il tavolo di montaggio fosse per lui l'equivalente moderno dell'antico scrittoio dello scrittore o del filosofo, dove il pensiero si costituiva, dalla lenta elaborazione di appunti.
La prova del film
Pensiamo al film-saggio di oggi. Può essere costruito con qualsiasi tipo di immagine sorgente: immagini catturate da telecamere, disegnate o generate su un computer, così come testi ottenuti da generatori di caratteri, grafici e anche materiali sonori di ogni tipo. Per questo il film-saggio va ben oltre i limiti del documentario. Può persino utilizzare scene di finzione, girate in studio con attori, perché la loro verità non dipende da alcuna immacolata “registrazione” della realtà, ma da un processo di ricerca e indagine concettuale.
È con Jean-Luc Godard che il cinema di saggio raggiunge la sua massima espressione. Per questo straordinario regista franco-svizzero, poco importa se l'immagine con cui lavora è catturata direttamente dal mondo visibile "naturale" o è simulata con attori e scenografie artificiali, se è stata prodotta dal regista stesso o se ne è semplicemente appropriata dopo essere stato creato in altri contesti e per altri scopi, sia che venga presentato così come la fotocamera lo ha catturato con le sue risorse tecniche o sia stato immensamente elaborato dopo averlo catturato utilizzando risorse elettroniche. L'unica cosa che conta davvero è cosa fa il regista con questi materiali, come costruisce con essi una densa riflessione sul mondo, come trasforma tutti questi materiali grezzi e inerti nell'esperienza della vita e del pensiero.
Come classificare, ad esempio, un film fondatore come Deux ou Trois Choses que Je Sais d'Elle (Due o tre cose che so di lei/1967)? Non è finzione, in quanto non esiste trama, né forma drammatica, né personaggi che sorreggano una trama narrativa, concentrandosi il più delle volte su immagini della città di Parigi, con i suoi palazzi in costruzione, i suoi complessi abitativi e i suoi abitanti spersonalizzati. . Né è un documentario su Parigi, perché ci sono scene con attori e testi memorizzati, ci sono messa in scena, scene girate in studio e un gran numero di immagini grafiche strappate da riviste o da confezioni di prodotti di consumo. Si tratta, certamente, di un film-saggio, dove il tema della riflessione è il mondo urbano sotto l'egida del consumo e del capitalismo, a partire dal modo in cui è organizzata e organizzata la città di Parigi.
Come disse lo stesso Godard (1968: 396) a proposito del suo film, “se rifletto un po', un'opera di questo genere è quasi come se stessi cercando di scrivere un saggio antropologico in forma di romanzo e per farlo non avevo disposizione ma note musicali”. Ciò che è più notevole in questo film è il modo in cui Godard passa dal figurativo all'astratto, o dal visibile all'invisibile, lavorando solo con il taglio operato dall'inquadratura della macchina da presa. In un caffè di Parigi, un cittadino anonimo mette lo zucchero nel suo caffè e lo mescola con un cucchiaio. All'improvviso compare un'inquadratura molto ravvicinata della tazzina, il caffè diventa una galassia infinita, con le bolle che esplodono e il liquido nero che vortica in spirali, come in un quadro di Kline o Pollock. Più avanti una donna, sul suo letto, fuma una sigaretta prima di andare a dormire, ma un primissimo piano trasfigura completamente il fumo della sigaretta accesa, trasformandolo in un mandala iridescente.
Queste immagini “astratte” (in realtà concrete, ma impossibili da riconoscere e interpretare come tali) fanno da sottofondo alla voce riflessiva di Godard, che si interroga su ciò che sta accadendo nelle città moderne e nelle loro creature claustrali. Ma non è la voce di un narratore convenzionale, come quella che si sente in certi documentari tradizionali: è una voce sussurrata, a voce bassissima, come se parlasse interiormente, mirabile immagine sonora del linguaggio interiore: il pensiero.
Alcuni degli esempi più belli di montaggio intellettuale si trovano anche in film come 2001: the Odissea nello spazio (2001: Odissea nello spazio/1968), di Stanley Kubrick, e nel cortometraggio Poteri di Dieci (1977), di Charles e Ray Eames. Il primo è un film quasi interamente concettuale dall'inizio alla fine, ma il momento clou è in quel taglio straordinariamente preciso, che salta da un osso lanciato in aria da una scimmia preistorica a una sofisticata astronave del futuro, sintetizzando (in un certo senso ) visibilmente critica) alcune decine di millenni di evoluzione tecnologica dell'uomo. Questo esempio eloquente mostra come un'idea nasca dalla pura materialità di particolari caratteri grezzi: la compenetrazione di due semplici rappresentazioni produce un'immagine generalizzante che va oltre le particolarità individuali dei suoi costituenti (Machado, 1983: 61-64; 1997: 195- 196). Il film della coppia Eames è una sintesi magistrale, in soli 9 minuti e mezzo di proiezione, di tutto il sapere accumulato nel campo delle scienze naturali. L'idea incredibilmente semplice è quella di creare un rimpicciolire dall'immagine di un vacanziere sdraiato sulla riva del lago Michigan ai limiti (conosciuti) dell'universo e poi a ingrandire dal carattere stesso verso l'interno del suo corpo, le sue cellule e molecole, fino al nucleo degli atomi che lo costituiscono e ai limiti della conoscenza del mondo microscopico.
In Brasile l'avventura del film-saggio deve ancora essere raccontata. Mancano le ricerche in questa direzione, ma non mancano gli esempi da analizzare in questa prospettiva. A mio avviso, il caso più emblematico fino ad oggi è il film di Jean-Claude Bernadet San Paolo: sinfonia e cacofonia (1995). Qui, proprio come dentro Deux ou trois chooses que je sais d'elle, il tema è la città (San Paolo, invece di Parigi) e il modello di urbanistica attuato dal capitalismo, ma a differenza del film di Godard, la città è vista qui attraverso il prisma del cinema stesso. In altre parole, il tema del film di Bernadet è il modo in cui il cinema di San Paolo ha interpretato la propria città. Quindi, la fonte delle immagini di San Paolo sono i film che ritraevano la città. È dunque un film che rientra nella categoria del montaggio di immagini d'archivio, ma lo spirito del film è interamente saggistico. È come se Bernadet (critico, teorico e storico del cinema) avesse deciso di scrivere un saggio sul modo in cui la città di San Paolo veniva interpretata dai suoi cineasti, ma invece di promuovere un saggio scritto, preferisse usare lo stesso linguaggio di il proprio linguaggio come metalinguaggio oggetto: il cinema.
Ecco dunque un saggio sul cinema costruito in forma di cinema, un vero saggio audiovisivo, senza ricorrere ad alcun commento verbale. Il film inizia: si vedono personaggi lanciati nel paesaggio urbano, tra edifici e traffico, che corrono o fuggono. Tra le figure che corrono, cominciano a definirsi in primis gli storpi: personaggi senza piedi, o sorretti da stampelle. Il tema dei piedi si amplia: compaiono innumerevoli inquadrature di piedi frettolosi, che si muovono in tutte le direzioni, piedi determinati, diretti verso un obiettivo, solitamente al lavoro. Improvvisamente compaiono i primi volti, inizialmente quasi diluiti in mezzo alla massa indifferenziata. Sono volti anonimi, sconosciuti, quasi dissolti nella folla. San Paolo appare, in un primo momento, come una massa gigantesca schiacciata tra traffico ed edifici. Poi, cominciano a emergere i primi volti diversi: sono i personaggi, le figure individualizzate, portatrici di un dramma: Carlos de San Paolo S/A (Luís Sérgio Persona, 1965), Martinho de Il quarto (Rubem Biáfora, 1968), la Luz de Il bandito a luci rosse (Rogério Sganzerla, 1969), Macabea de L'ora della stella (Suzana Amaral, 1985) e così via. Una miriade di trame si insinua senza mai concludersi: i personaggi salgono le scale, bussano alle porte, si incontrano, si incrociano per le strade, si insultano, si attaccano, si disperano. Per il cinema, San Paolo è invariabilmente presentata come una città oscura, inospitale, castrante, distruttiva. Non c'è idillio, non c'è bellezza, solo un ingranaggio pesante che schiaccia tutti con la sua vocazione fredda e implacabile alla produzione capitalistica. Chi non ci sta viene buttato fuori ed emarginato, tornando però sotto forma di nevrotici o banditi.
San Paolo: sinfonia e cacofonia è una dimostrazione eloquente che è possibile costruire un saggio sul cinema, usando il cinema stesso come supporto e linguaggio. In futuro, quando le macchine fotografiche sostituiranno le penne, quando i computer modificheranno la pellicola anziché il testo, questo sarà probabilmente il modo in cui "scriviamo" e daremo forma al nostro pensiero.
* Arlindo Machado (1949-2020) è stato professore presso il Dipartimento di Cinema, Radio e Televisione dell'USP. Autore, tra gli altri libri, di La quarta iconoclastia e altri saggi eretici (Marchio d'acqua).
Riferimenti
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Aumont, Jacques (1996). à quoi pensent les films. Parigi: Seguier.
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Burch, Noël (1979). "La modalità istituzionale di rappresentazione del film e la risposta sovietica". Ottobre, 11, numero invernale.
Deleuze, Gilles (2002). L'île déserte e altri testi. Parigi: Minuit.
Godard, Jean-Luc (1968). Jean-Luc Godard contro Jean-Luc Godard. Parigi: Belfond.
Machado, Arlindo (1979a). “Cinema concettuale” (I). Ciné Olho, San Paolo, 4 aprile.
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