Il filosofo e il comico

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da BENTO PRADO JR.*

Prefazione al libro di Franklin de Matos – omaggio dei redattori del sito al filosofo e professore dell'USP, scomparso ieri

Il lettore di questo libro (che è un'ulteriore prova del rigore e del vigore degli studi filosofici del Settecento all'USP), nel leggere le sue pagine, sarà condotto in due viaggi, uno dei quali del tutto inaspettato. Spera, ovviamente, di essere portato nel XVIII secolo e, lì, guidato ad apprendere le caratteristiche principali della sua geografia mentale. Ciò che potresti non aspettarti è di essere improvvisamente riportato al presente, con più domande e preoccupazioni di quanto sospettassi.

In effetti, l'interesse di Il filosofo e il comico. Il più evidente è il suo interesse, diciamo, “filologico”. Sono più di 30 scritti che corrispondono a tanti altri esercizi di cartografia, di delimitazione, di tracciamento delle linee che separano e uniscono allo stesso tempo, nelle opere di vari autori del Settecento (ma soprattutto Denis Diderot e, più tardi, Jean-Jacques Rousseau), i generi letterari della filosofia e delle belle lettere.

L’interesse dell’impresa “filologica” è di per sé evidente, poiché è chiaro che la filosofia e ciò che oggi chiamiamo letteratura si intersecano nel XVIII secolo in modo molto diverso rispetto a oggi. E non ditemi che le opere di Jean-Paul Sartre (che, accanto al suo grande “trattato” sul “Essere e Nulla“, ha scritto romanzi e opere teatrali) seguono lo stesso codice di quelli di Denis Diderot, che ha anche opere filosofiche romanzesche e drammaturgiche.

La minima svista apre le porte all’anacronismo, un rischio a cui non possono sfuggire le menti più attrezzate, come Louis Althusser, che proiettò nell’opera di Jean-Jacques Rousseau un’opposizione post-Mallarmaica tra teoria e letteratura, o l’idea di l’“assoluto letterario” generato dal romanticismo tedesco.

Per cominciare, il Filosofi erano lungi dall'essere professori universitari e il filosofia Non aveva nulla di una disciplina tecnica. Inoltre, la narrativa romanzesca aveva uno statuto sostanzialmente ambiguo, anche perché non aveva nemmeno il suo posto chiaramente definito nell’ambito delle belle lettere, ancora delimitato “approssimativamente” secondo il canone aristotelico.

Tutto, in definitiva, avviene come se le categorie del pensiero contemporaneo, ovvero il nostro modo di produrre e consumare cultura, ci rendessero ciechi di fronte alle opere del Settecento. La prova, tra mille altre, si trova negli scritti di Robert Darnton sul romanzo libertino del XVII secolo, in cui mostra come i codici di scrittura e di lettura differissero dai nostri e comportassero un curioso rapporto con la filosofia.

La metafora dell'arazzo

Non molto tempo fa, commentando un libro di Pierre Hadot, insistevo sulle virtù dello “straniamento” o cambio di scenario forniti dalla filologia più classica e la sua importanza per la ripresa del pensiero. Ha poi evidenziato la metafora utilizzata da questo storico per definire i problemi che i testi filosofici dell'antichità pongono al lettore contemporaneo. Al meditazioni di Marco Aurelio non potrebbe dare l'impressione di essere mal composto? La metafora è quella dell'arazzo che, a prima vista, sembra non significare nulla; ma che, da un'altra prospettiva, rivela un paesaggio ben strutturato o l'espressione significativa di un volto umano.

La distanza che ci separa dai codici di scrittura e di lettura del Settecento non è così grande come quella che separa lo studente universitario del Novecento dagli scritti dell'imperatore romano. Ma quanto è enorme questa distanza di soli due secoli! Robert Darnton rileva, ad esempio, questa immensa distanza, commentando la variazione nel campo semantico della parola “filosofia” durante questo “intermezzo“, così come la differenza tra la nostra ricezione della narrativa romanzesca e quella riservata ai lettori nell’Illuminismo.

Sottolinea (vedi “Il sesso dà spunti di riflessione”, in Libertini e libertari, Companhia das Letras) che, nel XVIII secolo, l'espressione “libri filosofici” aveva un significato ben diverso da quello che le attribuiamo oggi, che poteva applicarsi anche a tesi universitarie dedicate a temi perfettamente scolastici e astratti (nel senso che Hegel attribuisce a quest'ultima parola).

In quel secolo, appena 250 anni fa, questa espressione significava, per editori, librai, scrittori e lettori, “merce illegale, sia essa irreligiosa, sediziosa o oscena”. Il significato dell'aggettivo “filosofico” si riferiva soprattutto alla sovversione e alla trasgressione, così come “libertà” poteva significare (più di questo, era ovvio per il compratore del libro) lascivia. Ma questo significato non era in conflitto, bensì colluso, con la più antica idea di “libertismo” del secolo precedente, cioè semplicemente con l’idea o ideale di libero pensiero.

Sono questi i motivi per cui dovremmo celebrare (e non rammaricarci, come suggerisce il nostro autore) il tono “eccessivamente didascalico” che Franklin de Matos riconosce in alcuni suoi scritti, strettamente legati, secondo lui, alla sua attività di insegnante. In questo caso non siamo mai eccessivamente didattici: nessuno, infatti, ignora quanto siano importanti le più semplici regole didattiche nell’insegnamento di un’altra lingua. Il massimo di allerta o di didattismo è ancora ben poco vista la mancata consapevolezza della storicità della filosofia, della letteratura e, diciamo francamente e spudoratamente, dell'essere umano o, se si preferisce, delle forme di vita e dei giochi linguistici.

Il fatto è che siamo separati dal XVIII secolo da rivoluzioni a tutti i livelli: non solo quella francese e quella industriale, ma anche la rivoluzione copernicana operata dalla critica kantiana. È vero che la filosofia di Kant è, in qualche modo, il culmine dell' illuminismo, ma non è meno certo che, con essa, si apre il campo dell'idealismo, del romanticismo e di ogni positivismo. Questa rivoluzione trasformò anche il rapporto tra la filosofia e gli altri generi letterari, nonché il codice di scrittura e di lettura.

È di questa discontinuità che ci rendiamo conto leggendo i saggi di Franklin de Matos. Discontinuità che si staglia sullo sfondo della “lunga durata” ovvero della continuità dell'intera storia della filosofia nell'unico saggio del libro che ci porta lontano dai secoli XVII e XVIII. Mi riferisco al saggio “L’Archenemico di Platone”, in cui il libro Prefazione a Platone, di Eric Havelock (Giornale delle recensioni, nº 28, del 12/07/97). Il tema evidenziato nel libro è ancora quello del rapporto tra filosofia e poesia, ma visto ora nella sua forma aurorale, cioè nel momento in cui la filosofia comincia a delimitarsi da quella che poi verrà chiamata letteratura: in una parola, Platone contro Omero.

Ciò che qui viene ancora evidenziato è la differenza tra codici di scrittura e di lettura o, meglio ancora, la prima formulazione di un codice di scrittura e di lettura, in contrapposizione alla trasmissione orale della tradizione o paideia, con i suoi codici di memorizzazione, declamazione e ascolto. Come possiamo comprendere Platone senza renderci conto di questa differenza? I problemi imprevisti abbondano e il nostro autore non manca di evidenziare alcune difficoltà nell'interpretazione di Eric Havelock.

Diamo la parola a Franklin de Matos: “L'interpretazione di Eric Havelock lega indissolubilmente l'opera di Platone al testo scritto e sostiene che l'origine della filosofia non va pensata come un passaggio dal mito alla ragione, ma come una sostituzione dell'orale con lo scritto. La lettura è discutibile, soprattutto se valutata sulla base dei risultati di studi che mettono in risalto proprio le 'dottrine non scritte' del filosofo (…). La 'Prefazione' non allude nemmeno ai testi in cui Platone difende l'insegnamento orale; Non sarebbe ragionevole, tuttavia, aspettarsi che la sua opera riproduca la stessa tensione tra scritto e orale che definisce la mentalità greca del suo tempo, secondo Havelock?

Questa domanda sembra affrontare bene la questione, collocando l'interpretazione di Platone nella giusta via di mezzo tra le opposte letture di Havelock (privilegio della scrittura, repressione dell'orale) e Derrida (privilegio del “logocentrismo”, repressione della scrittura). Forse, con questa tensione tra scritto e orale, ciò che avremmo sarebbe una comprensione del discorso filosofico come “arte di vivere (o di morire)” che sarebbe scomparsa agli albori della filosofia moderna, dopo aver animato la cultura occidentale fin dalle sue origini. alla fine del Medioevo.

Ritorno al presente

Ma a questo lungo viaggio filologico attraverso i secoli XVII e XVIII, così come a questa breve incursione nel IV secolo a.C., fa seguito, come dicevo all'inizio, un sorprendente ritorno al presente: un esame di quello che potremmo chiamare il prime tracce di quella che sarebbe diventata la nuova figura della filosofia (e dei suoi rapporti con la letteratura) che si sarebbe attuata, con la rivoluzione copernicana, nel corso dei secoli XIX e XX. Si tratta, per così dire, di un capovolgimento in cui lo sguardo “filologico”, come per un effetto boomerang, si trasforma in uno sguardo propriamente “filosofico”.

In effetti, ciò che viene perseguito Il filosofo e il comico, nell'esame della pratica e della teoria del teatro in Denis Diderot, così come della sua teoria della “sensibilità” o dei suoi scritti sulla pittura, la critica del teatro di Rousseau e la sua concezione del linguaggio, se non il movimento a tentoni attraverso il quale, al Nello stesso tempo, nel corso del XVIII secolo, cominciò a costruirsi una nuova disciplina filosofica, l'estetica, che, nel XIX secolo, cominciò a condividere con la logica il nucleo centrale della filosofia stessa?

Uno dei momenti essenziali di questa genesi è la scoperta, da parte di Diderot, prima di Kant, dell'eterogeneità tra il sensibile e l'intelligibile; scoperta dell'autonomia o, paradossalmente, della “intelligibilità propria del sensibile” (se così possiamo esprimerci). Plagiando lo stesso Denis Diderot: “Ah, Madame, che la filosofia degli aveugles è diversa dalle altre!” (“Ah, mia signora, quanto è diversa la filosofia dei ciechi dalla nostra!”).

Un altro momento (o un altro lato) è la scoperta, da parte di Jean-Jacques Rousseau, della preminenza della musica sulla pittura o del privilegio dell'udito sulla visione (anticipando, in questo punto, Friedrich Nietzsche). È una figura del tutto nuova del soggetto (l'individuo borghese, soggetto sovrano del giudizio di gusto, ma anche, con Rousseau, soggetto attivo del giudizio, inteso come costitutivo) che si va così delineando, poco a poco, e che finirebbe per assumere il profilo di Penso di sì (credo) kantiano. Assistiamo alla progressiva apertura di uno spazio i cui orizzonti verranno definitivamente tracciati Critica del Collegio del Giudizio.

In questo momento, un lettore scontroso potrebbe interrompermi e chiedermi: “Ma qual è questo dono che ci lascia alle soglie del XIX secolo? E qual è la domanda strettamente filosofica che ci riporterebbe alle nostre attuali perplessità?” Al che potrei rispondere: «Ma è proprio così, altrimenti il ​​dibattito filosofico attuale, quando è vivo, non sarebbe essenzialmente un tentativo di ristabilire il taglio che il pensiero del nostro secolo ha inflitto al sistema kantiano, rompendone l'unità instabile? , lanciandosi per spazi opposti all'estetica (nei due sensi della parola: teoria della sensibilità e dottrina del giudizio di gusto) e all'analitica?

Questa, almeno, è la diagnosi della situazione attuale della filosofia fatta da Claude Imbert (che sottoscrivo volentieri) o della tensione che attualmente si oppone alle tradizioni della filosofia analitica e della fenomenologia”. Insoddisfatto, il mio interlocutore potrebbe insistere: “Dai! Ma come potrebbe essere rilevante la questione sui limiti tra filosofia e letteratura nei progetti analitici e fenomenologici di restauro critico dell’unità della ragione? Non rimaniamo con essa fuori della filosofia e nell’ambito della teoria o della critica letteraria?”

Una domanda così un po’ ostile non mi mette in imbarazzo, anzi mi aiuta nel mio compito di presentare il significato di Il filosofo e il comico. Lasciamo da parte la fenomenologia, che mi faciliterebbe molto il compito, ma che, purtroppo, attualmente non beneficia del prestigio delle mode intellettuali, dell'“ideologia unica” o dell'inerzia delle istituzioni. Ma vale la pena ricordare la ricchezza degli scambi tra fenomenologia e letteratura (che Merleau-Ponty definì “filosofia del sensibile”), visibile, ad esempio, nell'opera di Michel Butor, traduttore in francese del bel libro di Aaron Gurwitsch (un discepolo di Husserl), professore a Brandeis University, per quanto riguarda il Teoria del campo della coscienza" e autore di alcuni dei migliori lavori in nuovo romano, in cui il narratore è sostituito da una coscienza descrittiva e impersonale.

Il compito della filosofia

Restiamo dunque fedeli alla moda che ancora prevale in Brasile e limitiamoci alla questione della filosofia da un punto di vista analitico, nel suo meglio e nel suo peggio. Ciò che voglio dire è che, sia che ci si muova nella direzione di Wittgenstein sia nella direzione del morto empirismo logico, sarà sempre vero che il compito della filosofia sarà quello di determinare i limiti tra i diversi usi del linguaggio.

Se sei positivista, tutto si risolve in modo semplice: il linguaggio ha solo un uso significativo come descrizione di stati di cose (come la scienza) e gli altri usi sono, tutt’al più, oggetto di “spiegazione psicologica”: poesia e metafisica. sono espressioni di figure empiriche del soggetto psicologico o dell'organismo animale. Al di là del conoscibile localizzato, la letteratura e la metafisica subiscono una drastica squalifica e l’estetica cessa di avere interesse filosofico.

La cosa curiosa è che tale riduzionismo nasce dalla lettura di Wittgenstein. Ciò, tuttavia, dal Trattato e in tutta la sua opera ha sempre insistito sul fatto che ciò che conta è esattamente ciò che viene chiamato etica, estetica o metafisica. Pertanto, per il miglior rappresentante della filosofia analitica, ciò che è importante è proprio pensare a ciò che unisce e ciò che separa (la linea critica) logica ed estetica. Invece di proporre una teoria “emotivo-espressivista” del linguaggio letterario (come in Il significato del significato, di Richards, autore di Trattato considerato un libro indecente), Wittgenstein afferma che “se qualcuno vuole scrivere filosofia, deve farlo poeticamente”.

Non si tratta di “alfabetizzazione”; Per il nostro filosofo il confine che separa e unisce filosofia e poesia è più importante di quello che separa assolutamente la filosofia dalla scienza (la scienza, cioè, secondo Trattato, ciò che realmente non ha importanza né valore, né per la vita né per il pensiero). Il che curiosamente ci riporta all’Antichità: è per gli stessi motivi per cui Platone squalifica e che Wittgenstein valorizza la poesia. La filosofia (col “matheme” e contro il “poema”, nel caso di Platone e con il “poema” e contro il “matheme”, nell’altro) non ha altro significato che come “terapia” o come purificazione del anima. La teoria, di per sé, se non trasfigura la vita, non ha valore.

L'indagine filologica di Franklin de Matos, che ci conduce, in maniera ascendente, dal nostro presente al passato della filosofia, finisce per farci ridiscendere al nostro presente con questa domanda mono e bifronte: “Che cos'è la letteratura? Cos’è la filosofia?” Possiamo formularlo correttamente, nel presente, solo se riusciamo a comprendere i mille modi diversi in cui è stato risposto nel passato.

È per questi motivi che posso chiudere queste considerazioni rispondendo, infine, al lettore scontroso che nel frattempo mi sono inventato: “Sì, caro lettore, questo libro, che hai tra le mani in questo momento, è proprio un libro filosofico, anche se in un senso diverso, nel bene e nel male, da quello che aveva questa espressione nel XVIII secolo”.

* Bento Prado jr. (1937-2007) è stato professore emerito all'USP e professore ordinario di filosofia all'UFScar. Autore, tra gli altri libri, di Errore, illusione, follia: saggi (Editore 34).

Riferimento


Franklin de Matos. Il filosofo e il comico: saggi di letteratura e filosofia nell'illustrazione. Belo Horizonte, Editora UFMG, 2008, 268 pagine. [https://amzn.to/45WyRVi]


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