da ANNA LIA A. PRADO & ALBERTO A MUÑOZ*
Commento al libro di Paulo Butti de Lima
I rapporti tra i mezzi di persuasione circa la veridicità del discorso storiografico e i mezzi di prova utilizzati nella prassi giudiziaria ateniese sono oggetto di questo libro di Paulo Butti de Lima, laureato in filosofia all'USP, dottore presso la Scuola Superiore de Studi Storici all'Università di San Marino e professore all'Università di Bari.
Sensibile alla fondamentale obiezione metodologica secondo cui non è possibile attribuire a un'unica causa l'emergere della storiografia come genere letterario, l'autore si guarda bene dal prendere i mezzi di persuasione della verità, impiegati da Erodoto e Tucidide, come meri sviluppi delle pratiche indicali comuni nelle corti ateniesi.
Mentre il proponente di una causa o l'imputato può presentare alla giuria le prove a sua disposizione – siano esse materiali o testimoniali e, come di consueto, dopo la conclusione dell'istruttoria –, lo storico non può presentare al suo pubblico i testimoni o i fatti stessi. che ha assistito. Da questa apparenza di imparzialità e veridicità – reale o simulata che sia da parte dello storico, critico dei resoconti e delle testimonianze che portano alla ricostruzione del passato – risulterà la persuasione del lettore.
lo storico-giudice
Nella prima parte, “Inchiesta e prova nella pratica giudiziaria”, Butti esamina in dettaglio la struttura del processo giudiziario attico ei mezzi di persuasione. Si tratta di una parte strutturalmente fondamentale del suo lavoro, poiché, fin dall'introduzione, avverte che il suo sforzo mira a mostrare come l'immagine dell'attività giuridica riappaia nel campo della ricerca storica, meno attraverso l'immagine dello “storico-giudice” – in questo caso, la strategia è molto più quella di porre il pubblico come giuria – piuttosto che ricorrere all'uso di “mezzi di prova”, e mezzi di prova relativi al passato. C'è il punto che accomuna entrambi i campi, ed è messo a fuoco, dal punto di vista giuridico, nella prima parte del libro.
Al termine dei primi due capitoli di questa sezione, il lettore non solo è informato sui procedimenti istruttori e probatori ammessi nei tribunali, ma è anche in grado di formarsi un quadro molto ricco della struttura e del ruolo della Magistratura in nell'Atene del V secolo dell'azione o l'imputato, quando si presentava personalmente davanti a un tribunale popolare, composto da semplici cittadini e coordinato da magistrati il cui ruolo era essenzialmente amministrativo ed esecutivo, ma non deliberativo, doveva provare, prima della propria difesa orale, il veridicità dei loro discorsi, costringendo la giuria a presentare (e criticare) la testimonianza e le prove materiali, potendo usare "básanos" (tortura di schiavi), al fine di ottenere confessioni o testimonianze.
In questa peculiare forma di regime giudiziario – contrario alla costituzione di un corpo di giurisprudenza, basato sull'idea che la verità sui fatti accaduti debba emergere dal dibattito regolato tra le parti in lite, davanti al giudice, nello spazio pubblico del tribunale, incombe all'accusatore e all'imputato di assumere personalmente la difesa dei propri diritti - il logographoi, autori di discorsi, specialisti in pratica legale, che erano incaricati di preparare i loro clienti, guidandoli sulle risorse legali che avrebbero dovuto utilizzare e fornendo loro gli argomenti appropriati per garantire la vittoria nel processo.
Erano i logografi che possedevano conoscenze procedurali (tipi di prove, modelli di discorsi, strategie efficaci per diverse situazioni) che servivano per istruire i comuni cittadini che si presentavano davanti alla giuria, sebbene tale conoscenza non avesse valore di per sé legale, dato che, in in ogni caso, la giuria stessa decideva, in modo sovrano, sul merito dell'azione e sulla sentenza. L'attività dei logografi può essere compresa solo in una cultura che domina la scrittura, una condizione sine qua non per l'istituzione della storiografia.
Sebbene la giuria fosse sovrana, c'era una tradizione nelle corti ateniesi di ammettere una serie di mezzi per l'accertamento di fatti passati e per la difesa o la critica di atti noti a tutti, dai quali emergeva tacitamente una normatività giuridica. In teoria, questa serie di mezzi non dipendeva dall'abilità retorica del parlante o dalla sua conoscenza delle più efficaci tecniche di persuasione giuridica che il logographoi e i retori cercano di costituire. Paulo Butti fa emergere, poco a poco, le regole che permettono la costituzione di un discorso razionale sul passato. Si costituisce così una “funzione probatoria generale”, che permette di comprendere la presenza di alcuni termini retorici che ricorrono sia nell'opera degli storici che nella prassi dei tribunali.
Argomento di verosimiglianza
La seconda parte, “La prova nel discorso storiografico”, cercherà di esaminare in che misura queste procedure dimostrative generali riappaiano nella storiografia greca.
Nella pratica legale, è necessario che una versione dei fatti sia confermata con la presentazione di una testimonianza (marturione), e ciò che si legge in Erodoto, e in particolare in Tucidide, è che il processo investigativo, per loro, richiede la critica della testimonianza, un procedimento che darà al discorso dello storico il suo valore di oggettività e il suo potere di persuasione. Con l'uso di "indicazioni" o "prove" (tekmeria), fatti passati possono essere accertati (o meglio, come dicono Erodoto e Tucidide, “scoperti”), anche se lo storico non vi ha avuto accesso. Questo era anche uno dei mezzi di prova presenti nella pratica legale.
E ancora: già la retorica giudiziaria esigeva che le versioni dei fatti presentate nei discorsi degli avversari fossero provate mediante l'uso dell'argomento della verosimiglianza (Sono eiko), considerato da Aristotele nel Retorica, la prova retorica per eccellenza. Questo era l'ultimo requisito a cui doveva sottostare la presentazione dei fatti in giudizio e, in campo storiografico, l'argomento della verosimiglianza sarà lo strumento per criticare resoconti divergenti o per verificare la verità dei fatti.
Prove testimoniali, indicazioni e argomento della necessaria verosimiglianza del resoconto furono, dunque, le tre dimensioni di quella “funzione probatoria”, esercitata sia nell'ambito della prassi giuridica che dell'indagine storiografica e che, in seguito, Aristotele cercherà di sistematizzare .
Questo punto di fuga – la funzione probatoria –, cui puntano prassi giuridica e storiografia, trova il suo ultimo abbozzo nell'ultima parte dell'opera, “O Limite da Imagem”, in cui Butti inizia ad affinare alcune delle conclusioni a cui giunge nel suo lavoro, perché, sebbene la prassi giuridica e la storiografia indichino una funzione probatoria generale, la verità è che essa si svolge in modi diversi in questi due ambiti.
Il punto centrale della differenza tra le modalità con cui si svolge la funzione probatoria, nell'uno e nell'altro ambito, sta proprio nell'idea di “indagine” o “inchiesta”, che fonda l'immagine stessa dell'opera storiografica in Erodoto e Tucidide, ma non ha posto nell'attività giudiziaria. La "storia" in Erodoto è tanto il risultato dell'indagine quanto l'indagine stessa. Nasce così l'immagine dello storico che viaggia, indaga, testimonia e dà la sua testimonianza personale, garantita dall'“autopsia”, con il suo rapporto di ricerca che è il contenuto stesso del suo lavoro.
Nella sua indagine, a sua volta, Tucidide sceglie con cura le informazioni, e rende sempre chiaro al lettore il suo sforzo critico, soprattutto quando, nelle narrazioni o nelle antilogie, presenta versioni discordanti e, attraverso l'antitesi logos/ergon, si oppone a ciò che viene detto in pubblico e alla verità che le parole nascondono. Il suo strumento in quest'opera di svelamento della verità è sempre l'argomento della verosimiglianza, anche quando lo storico è stato testimone dei fatti. Qui la "funzione di verità" è vista come informazione critica. Di qui la sua diffidenza verso gli elementi testimoniali e, in particolare, verso le informazioni trasmesse in assemblee. È una critica della funzione pubblica del discorso che, per indicare la veridicità della narrazione, utilizza termini che connotano retorica e prassi giuridica.
La conclusione di Butti è che la storiografia, nel momento stesso in cui costituisce il suo campo attraverso l'uso di mezzi euristici e retorici, ha rifiutato la presentazione “retorica” dei fatti. Verità e spazio pubblico, continua, sono incompatibili in Erodoto e Tucidide, o almeno contrastanti: attraverso la retorica, ma contro la retorica, la storiografia greca esibisce così un'opzione per un platonismo ante litteram.
Una conclusione sorprendente se si contrappone l'attività dello storico antico, impegnato a raggiungere l'oggettività al di là delle prove e delle testimonianze, con quella dello storico contemporaneo, così preoccupato di “relativizzare punti di vista”, “dissolvere oggetti” e sempre “mettere in discussione” le loro tesi. Il libro di Butti non è solo un percorso rigoroso (e a volte faticoso, proprio perché rigoroso) sulle vie battute dalle pratiche giuridiche e dalle forme storiografiche della Grecia classica, ma soprattutto un invito a riflettere su ciò che la storiografia contemporanea ha perso, contro il modo di fare la storia dei primi storici dell'Occidente.
Anna Lia Amaral de Almeida Prado (1925-2017) è stato professore di letteratura classica all'USP.
Alberto Alonso Munoz ha conseguito un dottorato in filosofia presso l'USP ed è giudice presso la Corte di giustizia di San Paolo.
Originariamente pubblicato in Folha de S. Paulo\Giornale delle recensioni, il 10 luglio 1999.
Riferimento
Paolo Butti di Lima. L'Inchiesta e la Prova: Immagine storigrafica, pratica giridica e retorica nella Grecia classica. Torino, Einaudi, 202 pagg.