da UGO RIVETTI*
Per chi è immigrato, il passato ritorna, alla fine, con tutta la sua forza, nelle conversazioni e nei deliri a letto. E, alla fine, vissuto da chi resta, rimane l'insolito sospetto che possa riposare in una terra straniera
Tutte le famiglie sono simili nella loro felicità e nei miti che le circondano. La famiglia immigrata non farebbe eccezione. In effetti, il tipo stesso è già il prodotto di molti miti.
Dal mito di ciò che è stato “lasciato indietro”. Tutto un mondo di immagini – della casa, dei parenti, degli amici e dei vicini, della città, del paese/villaggio/paese, delle feste e delle fiere, del lavoro, della scarsità e della crisi – e di elementi della vita quotidiana – ricette, canzoni, oggetti, modi di dire, accenti, espressioni – si traduce, nello sguardo distorto dei figli, in frammenti di preistoria familiare. Un lavoro che, anche se stravolge, restituisce alla quotidianità la grandezza cancellata dallo scorrere della quotidianità.
Tale elaborazione forse spiega il sospetto che in ciò che è stato lasciato si nasconda qualcosa, all'origine di quell'ossessione per la ricerca archeologica delle origini che si dispiega non solo nei sogni di viaggio, ma anche nella proliferazione di risorse che oggi promettono i mezzi per la ricostruzione del alberi genealogici e per la scoperta, da un semplice campione di saliva, delle radici più profonde e insospettate dell'individuo.
Dal mito della “traversata”, sintetizzato come atto di rottura attraverso il quale lo sradicamento diventa l'avventura di fondare una nuova stirpe. Un percorso con origine e destinazione definite, ma senza inizio né fine, con confini che scompaiono nel flusso della vita dell'immigrato, come dimostrano le memorie del passato che coltiva e trasmette, in cui convivono le ragioni dello spostamento accanto ai ricordi di un'età dell'oro passata. Di qui la domanda che solo chi ha vissuto questa esperienza è capace di affrontare onestamente: in cosa differisce il suo destino da quello dell'esule?
Dal mito del “padre fondatore”. Un mito che si forma, e si perpetua, in resoconti che tendono a sottolineare la capacità imprenditoriale del patriarca, la sua competenza nelle qualità richieste a chi è impegnato nella vita pubblica di strada e nel commercio. La figura della madre è sottoposta a un altro trattamento, a un filtro che le imprime qualcosa di ineffabile. Operazione compensativa, del resto la sfera privata, la casa, lo spazio dove comanda la madre, è anche il mondo dei contatti più intimi, le stanze e i corridoi dove tutti si scontrano, dove i figli competono per la predilezione dei genitori e dove i genitori scelgono i loro preferiti, dove cominciano ad apparire le prime crepe.
Che la figura della madre tenda ad assumere forme sfumate nelle ricostruzioni retrospettive dei suoi figli forse nasce da un bisogno quasi irresistibile di nascondere i ricordi della casa in cui si è cresciuti – scrutare il posto della madre è andare più a fondo in ogni cosa. quello è stato represso. Che si tratti della madre delle prime ondate migratorie, per la quale il ruolo di madre è stato imposto come unico percorso immaginabile, o della madre delle ondate successive, impossibilitata a seguire qualsiasi percorso alternativo alla cura della casa a causa dell'intervento di un marito che aveva paura della possibilità di successo di qualsiasi tipo di follia.
A differenza della madre, la figura del padre ha libero accesso allo status mitico, sostenuta da una storia di vita la cui impronta è impressa nel commercio, nelle fabbriche, nelle case a schiera, nei club e nei sindacati, nelle alleanze extrafamiliari basate su contratti e società. E nei cimiteri. Le lapidi dicono che questa è la tomba della famiglia di quel padre, a volte rappresentata con orgoglio in un busto o su una medaglia. Le eccezioni derivano dall'imponderabile (o, se si vuole, dal destino): la morte prematura della moglie o del figlio, alla cui memoria il marito o il padre defunto dedica la tomba di famiglia. Deviazioni che denunciano la regola.
Miti costantemente rafforzati e aggiornati dalle generazioni che sono cresciute su di essi. Nei nomi dati ai discendenti, gli indici di appartenenza sono indicati o dalla decisione di replicare un cognome o dalla grafia univoca che indica la radice del clan. Ma anche nelle distorsioni degli atti viziati con cui i nomi in portoghese lasciano il posto a soprannomi nella variante di quella che i membri della famiglia ritengono essere la loro vera lingua madre (tanto o più mitica quanto meno conosciuta). Non è un caso che i soprannomi siano emblema del volto apparentemente più rilassato, autentico – insomma familiare – dell’individuo. Un'allusione affettuosa riservata alla convivialità del circolo più intimo, al riparo dalle incomprensioni e dalle ironie della strada.
Miti che hanno una loro ragion d'essere, fondata su forze centripete alimentate dall'esperienza dello sradicamento, che colpisce sia coloro che condividono lo stesso nome sia tra i membri della stessa comunità e da pressioni esterne e interne per l'integrazione/assimilazione nella nuova società. Tali miti, così come i riti quotidiani, possono addirittura essere interpretati come dispositivi di mediazione tra la spinta delle forze centripete e il desiderio di integrazione. Di qui tutta l’assurdità degli sforzi di differenziazione messi in atto, di regola, dai più lontani dalle prime generazioni – un’iniziativa opportunistica, poiché immune dai rischi inerenti ad una vera non integrazione.
Tuttavia, al di là di ogni speculazione, il fatto è che la rottura è reale. Il punto di arrivo sembrerà sempre meno familiare del punto di partenza, non importa quanto sia disuguale la proporzione degli anni nell'uno e nell'altro. E, se il passare del tempo allevia gli effetti dello sconvolgimento, la vecchiaia porta con sé un’acuta consapevolezza dei costi dello spostamento. Forse perché le attività lavorative a casa e per strada non coprono più la giornata, o semplicemente perché il tempo è passato, e i luoghi e le persone non sono più gli stessi, né qui né là.
Per chi è immigrato, il passato ritorna, alla fine, con tutta la sua forza, nelle conversazioni e nei deliri a letto. E, alla fine, vissuto da chi resta, rimane l'insolito sospetto che possa riposare in una terra straniera.
*Ugo Rivetti Ha conseguito un dottorato di ricerca in Sociologia presso l'Università di San Paolo (USP).
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