Imperialismo del whisky

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da OMERO SANTIAGO*

Commento al libro di Georges Orwell, giorni in Birmania

“Questa è una necessità politica. Naturalmente è l'alcol che fa funzionare questa macchina. Se non fosse stato per lui, diventeremmo tutti pazzi e ci uccideremmo a vicenda nel giro di una settimana. Questo è un buon argomento per i suoi nobili saggisti, dottore. L’alcol come cemento dell’Impero”.[I]

1.

Georges Orwell è nato in Birmania e da bambino si è recato in Inghilterra; Si è diplomato in una delle scuole più rinomate del Paese, grazie ad una borsa di studio. Laureatosi, invece di seguire il percorso naturale dell'università, decide di tornare nelle Indie e sostenere l'esame per diventare ufficiale della polizia imperiale. Rimase in Birmania per cinque anni, finché nel 1927, in licenza in Inghilterra, decise di dimettersi dal suo incarico e diventare scrittore.

L'esperienza in Oriente fornisce la materia prima per il suo primo romanzo, giorni in Birmania, completato nel 1933 e pubblicato l'anno successivo, così come altri testi del giovane Orwell, che arrivarono così a occupare un capitolo rilevante in quella branca delle lettere britanniche che è la letteratura anglo-indiana.[Ii]

La trama è ragionevolmente semplice e non fa male delinearla qui. In un piccolo villaggio birmano la vita ruota attorno al club inglese. Flory, impiegata in un'azienda di legname, soffre le amarezze di una vita dissoluta e solitaria, corrotta dalla menzogna; odia i suoi pari europei, detesta l'imperialismo, ma ha bisogno di mettere a tacere le proprie opinioni; Il suo unico amico è il medico indigeno del posto, la cui distruzione è voluta da un giudice corrotto, anch'egli indigeno.

Flory incontra Elizabeth e sogna di sposarla, superando la sua solitudine; i geni sono però incompatibili: mentre lui ammira sinceramente la Birmania e i birmani, Elizabeth inorridisce alla sola idea di convivenza con la gente del posto. Il protagonista diventa vittima del piano che mira a distruggere la reputazione del suo amico medico e, infine, vede evaporare il suo progetto matrimoniale; Disperato per la prospettiva di continuare la stessa vita noiosa, si suicida.

Troppo spesso il romanzo d'esordio di Georges Orwell è considerato un libro letterario irrisolto e, soprattutto, un fallimento politico. Per ora evidenziamo questo secondo aspetto. La tesi del fallimento politico si fonda su un presupposto che è più o meno il seguente: romanzando la sua esperienza birmana, Georges Orwell avrebbe voluto produrre qualcosa di simile a una denuncia dell'imperialismo britannico; È proprio in quanto tale che l’opera fallisce.

Se l'imperialismo e gli imperialisti vengono demonizzati da Flory, lo sono solo nella misura in cui causano la sofferenza psicologica del giovane che ha scoperto l'insensatezza di una vita alimentata dal whisky e circondata da servi e prostitute; L’odio per l’Impero si confonde con l’odio per se stessi, fino a produrre effetti letterari dubbi, come quando il protagonista si schiaffeggia, si maledice, il desiderio di epurarsi assume le sembianze dello slapstick: “Mascalzone, vigliacco mascalzone […] Vigliacco , vagabondo, ubriacone, fornicatore, mascalzone autocommiserante!” (pag. 78).

Come più di uno studioso ha notato, politicamente questo non va lontano; la critica all’imperialismo diventa il dramma psicologico spaccato tra due culture, disadattate ad entrambe, offuscate dalla frustrazione dei sogni giovanili, macchiati dal destino, emblematico di “un’orribile voglia che si è diffusa, nella forma approssimativa di una mezzaluna irregolare, sul la guancia sinistra, dall'occhio all'angolo della bocca” (p. 24).[Iii] A peggiorare le cose, come spesso notato, attira l'attenzione la quasi totale assenza di un punto di vista nativo nell'opera.

L'azione ruota attorno al club inglese, i paesaggi, gli avvenimenti, gli atteggiamenti, ci vengono presentati attraverso il prisma del colonizzatore; non ci sarebbe alcuna analisi della psicologia dei birmani, non si parla praticamente di movimenti di resistenza alla colonizzazione che all’epoca erano già vigorosi – aspetto che risalta ancora di più se si confronta giorni in Birmania e Un biglietto per l'India, un lavoro di EM Forster pubblicato dieci anni prima e incentrato sulla tensione tra inglesi e indiani.

Ci sembra che il problema generale delle valutazioni di questo tipo e dell'individuazione dei presunti “difetti” dell'opera dipendano dal presupposto appena accennato, secondo il quale, ribadiamo, giorni in Birmania voleva costituire una denuncia dell'imperialismo, una diffamazione anticoloniale. Ora, è proprio questa premessa che non ci convince.

L'intento del racconto non è quello di comporre un resoconto della sofferenza psicologica di un giovane anglo-indiano né costituire un dossier sulle perversità e sui mali dell'imperialismo; anche se appare qua e là, questo non costituisce l'essenza dell'opera; e rischiamo addirittura di giudicare che, se così fosse, il romanzo avrebbe poco interesse, non più di quello della pioggia che cade sul bagnato, oggi che la condanna in toto dell’imperialismo e del colonialismo è diventata un’opinione più o meno consensuale.

Sottolineiamo chiaramente la nostra comprensione: l'intenzione di Georges Orwell era di presentare, in forma romanzesca, la sua scoperta del dispotismo coloniale; al limite, elaborare letterariamente la comprensione della natura o essenza dell’imperialismo, del suo funzionamento e dei suoi effetti. Questo aspetto cognitivo del romanzo emerge direttamente dalla capacità orwelliana di riflettere sulla propria esperienza, certo, ma lavorando su di essa, svelandone i nodi nascosti e giungendo infine alla comprensione della natura del sistema che l'ha determinata.

È un aspetto ben indicato dallo scrittore, nel raccontare la sua permanenza nella colonia: “il lavoro in Birmania mi aveva fatto comprendere la natura dell'imperialismo”; oppure, riconoscendo l’importanza di “un incidente insignificante” che gli aveva dato “un’idea migliore della vera natura dell’imperialismo – delle vere ragioni per cui agiscono i governi dispotici”.[Iv] Ecco perché non ha senso psicologizzare, banalizzare la storia; Flory soffre, ma la sofferenza nasce da una ferita aperta dall'apprendimento: “cominciò a realizzare la verità sugli inglesi e sul loro Impero”, comprendendo che “l'Impero indiano era un regime dispotico” (p. 85).

La verità che si rivela al protagonista è irriducibile alla sua psiche, poiché “tira” in superficie un'intera struttura di potere e si connette con essa, introducendoci nell'universo dell'imperialismo. In un modo che solo la buona letteratura (che non è semplicemente irrisolta) può fare.

Né dramma psicologico a tinte autobiografiche né diffamazione anticoloniale, giorni in Birmania funziona come una sorta di studio su cosa sia l’imperialismo britannico, vale a dire un sistema basato sulla menzogna. In questo senso, il desiderio naturalista – e ne riconosciamo la presenza nelle lunghe e minuziose descrizioni della vegetazione, della fauna, delle tipologie umane locali – deve lasciare il posto allo sforzo di dipanare la materia, un po’ come in un testo geometrico la distanza dal i dati aiutano a comprendere meglio le tue condizioni.

Con ciò scopriamo che l’imperialismo britannico è un sistema di menzogne ​​perché questo lo costituisce; è il suo elemento universale (presente in tutte le sue complessità) e l’unico capace di mantenere in buon funzionamento la macchina imperiale, imponendosi su colonizzatori e colonizzati, colonia e metropoli, e persino eliminando la necessità della forza bruta – l'esercito è lì come mero deposito, l'ideale è non utilizzarlo mai. Il dominio è tanto più efficace quanto più è morbido e dolce,[V] a causa della menzogna che piace, intorpidisce e inebria... come uno, più drink. Sul piano letterario, la rappresentazione di questo elemento che domina e mantiene il dominio, costituendo l’essenza dell’imperialismo, è la alcol.

2.

"Nonostante tutto il whisky che ha bevuto al Club, Flory ha dormito poco quella notte." (p. 77) È questo l'inizio rivelatore del capitolo che ricostruisce il percorso di Flory, dal suo arrivo in Birmania all'età di 19 anni, attraverso l'abbuffata di alcol e prostitute, il suo invecchiamento precoce, il progressivo danneggiamento del suo spirito causato dalla insincerità e la solitudine, l'odio rivolto ai connazionali e all'Impero. “È un mondo senz’aria e opprimente”, in cui “ogni uomo bianco è un altro ingranaggio nella ruota del dispotismo”.

Dopo qualche tempo, lo sforzo di tacere la sua rivolta finisce per avvelenarlo come una malattia segreta. Tutta la sua vita si trasforma in una vita di bugie. Anno dopo anno frequenti i piccoli Club infestati da Kipling, bicchiere di whisky a destra, l'ultimo numero del Financial Times alla tua sinistra (pag. 86)

Questo passaggio capitale ci porta al centro dell'intelligibilità dell' giorni in Birmania: la triade dell’imperialismo, che merita un'attenta considerazione.

La trama del libro ruota attorno al Club Europeo e ciò non è affatto casuale. Nelle Indie Britanniche ogni villaggio ha il suo club; Nell'insieme costituiscono una delle istituzioni centrali nella vita degli anglo-indiani, uno dei pochi luoghi in cui possono sentirsi veramente a casa, inglesi tra gli inglesi, come suggeriscono, leggere le ultime notizie e dibattere sui grandi temi della metropoli. . “Fortezza inespugnabile”, “cittadella spirituale”, per usare le parole di Georges Orwell, il club è un'istituzione politica unica, poiché funge da sfera pubblica nelle colonie, l'unico spazio vitale che non è stato né creato né amministrato dal Servizio Imperiale o dall'esercito.[Vi]

Questi locali, frequentati da anni, o almeno così ci viene detto, sono frequentati dalla figura di Rudyard Kipling, il più famoso autore inglese a cavallo tra Ottocento e Novecento, vincitore del Premio Nobel per la letteratura nel 1907; massimo esponente della “letteratura coloniale”, “il profeta dell’imperialismo britannico nella sua fase espansionistica”, nella definizione che altrove gli dà Georges Orwell.[Vii] Come nessun altro, l'eccezionale creatore di Libri della giungla e Mowgli seppe forgiare un’ideologia a favore dell’imperialismo con il suo lavoro, rappresentandolo come un’impresa civilizzatrice in cui gli sforzi filantropici dei “bianchi” vengono messi alla prova entro i limiti del benefico altruismo.

Raccogliete il fardello dell'Uomo Bianco –
Manda i tuoi figli migliori
Va', condanna i tuoi figli all'esilio
Per servire i loro prigionieri;
Aspettare, in imbracatura
Con agitatori e selvaggi
I tuoi prigionieri, servi ostinati
Metà demone e metà bambino.[Viii]

Letti da occhi moderni, questi versi della prima strofa della poesia più famosa di Rudyard Kipling non sembrano più terrificanti, trasudano solo la più ridicola spudoratezza. Si scopre che il nostro attuale disprezzo non cambia in alcun modo il significato e la forza di un'opera che, grazie al talento del suo autore (che il piccolo lupo imperialista Mowgli ancora ci intrattiene è un sicuro indicatore di questo talento), recitata in è giunto il momento di svolgere un ruolo fondamentale nella diffusione di una certa visione dell’imperialismo, conquistando alla causa una legione di cuori ben intenzionati.

Rudyard Kipling era venerato sugli altari dei club inglesi in India, confessò di essere stato un grande collaboratore di queste istituzioni,[Ix] per lo stesso motivo per cui ha agito come “dio a casa” (dio domestico)” in ogni casa borghese, soprattutto anglo-indiana,[X] e godeva di un prestigio senza pari tra i militari britannici nelle colonie;[Xi] dichiarato cultore delle tradizioni e dell'ordine sociale, della gerarchia tra razze e classi sociali – i miei “vizi imperialisti”, che ama criticare ogni mia pubblicazione, come lui scherzosamente presumeva;[Xii] questo campione di status quo Fu il “profeta” dell'espansionismo britannico per la buona ragione che offrì alla compagnia coloniale qualcosa senza il quale, irrimediabilmente, non sarebbe stato altro che pura e semplice rapina.

In una parola, Rudyard Kipling ha dato un’idea all’imperialismo.[Xiii] Una nozione, una comprensione che evita dubbi, compensa i sacrifici e guida fermamente le azioni, giustificandole, anche quelle più brutali, con il loro fine più nobile, cioè elevare a civiltà le vaste zone del pianeta dove la ferocia e gli uomini “mezzi demoni” , mezzo bambino” che vivono, o meglio sopravvivono, ai margini del progresso.

Rudyard Kipling è il geniale creatore dell’“imperialismo delle idee”, che in un modo o nell’altro deve essere instillato nella testa di ogni anglo-indiano e di ogni indigeno affinché il sistema coloniale funzioni bene, con la dovuta fluidità e senza mancare di armi. È più che giusto, quindi, che abbia un posto d'onore in ogni club inglese dell'Est, come lo descriveva Georges Orwell.

Il secondo elemento costitutivo della triade dell'imperialismo è il profitto, l'impresa inequivocabilmente simboleggiata dal profitto Financial Times, il “messaggero” di Città Londra, fondata nel 1888, al culmine dell'Impero britannico. Stabilito questo, però, la domanda immediata è: come conciliare l'altruismo, l'idea, e la rapina, il furto, il profitto, l'impresa coloniale, insomma? Il problema non è piccolo e non può essere lasciato solo.

L’associazione tra profitto e sforzo filantropico è un’esigenza maggiore già presente nel documento che è considerato l’atto di nascita dell’imperialismo moderno: il verbale della Conferenza di Berlino del 1885, che riunisce 14 paesi (oltre agli europei, gli Usa e il Impero Ottomano) per negoziare e formalizzare la spartizione dell’Africa sub-sahariana; Senza sforzi conciliatori si correva il rischio di ripetere, nel XIX secolo, la barbarie criminale dei romani, ai quali proprio l'idea, l'ideale che stabiliva la differenza tra mera saccheggio e altruismo civilizzatore.[Xiv]

Nella capitale tedesca il principale argomento di discussione è il Congo, che alla fine è stato ceduto al Belgio in cambio della libertà di navigazione lungo i fiumi e i laghi della regione, facilitando enormemente gli affari. Potrebbe, tuttavia, essere questa l’unica giustificazione per lo sforzo coloniale? Affatto. I firmatari del suddetto verbale affermano di essersi riuniti “nel nome di Dio Onnipotente” con l’intento di creare “le condizioni più favorevoli per lo sviluppo del commercio e della civiltà in alcune regioni dell’Africa”, poiché sono sinceramente “preoccupati allo stesso tempo con i mezzi per aumentare il benessere morale e materiale delle popolazioni aborigene”.[Xv]

Se il lettore si sente obbligato a ridere, è meglio astenersi. Nonostante ciò che canta Tim Maia (“quando amiamo/non pensiamo al denaro”), la conciliazione amorevole tra libero scambio e filantropia nel suo senso etimologico più alto di amore per l’umanità è tutt’altro che impossibile. Le imprese esistono e i profitti sono desiderabili, forse inevitabili, poiché finanziano l’impresa umanitaria.

Si tratta di una logica virtuosa i cui fondamenti vengono spiegati candidamente dal dottor Veraswami, indiano, al suo amico inglese Flory: “Mentre gli uomini d'affari inglesi sviluppano le risorse del nostro Paese, i funzionari governativi britannici ci civilizzano, ci elevano al loro livello, per puro spirito pubblico. . È una magnifica storia di abnegazione”. (pag. 52)

L'ideale trova le sue condizioni per realizzarsi nella materia, mentre gli affari si rivestono della nobiltà dell'altruismo. È una vittoria perfetta. Ogni taglialegna dell'Alta Birmania che taglia un albero può essere certo che lo fa per ottimi motivi; Se così non fosse, le foreste rimarrebbero intatte, senza fornire alla popolazione nativa i benefici vantaggi civilizzatori che solo l’interesse commerciale rende possibili: strade, ferrovie, ospedali, carceri, “legge e ordine”, “l’incrollabile giustizia britannica, IL Pax Britannica”, aggiunge il dottor Veraswami (p. 53). In breve, l’imperialismo delle idee riscatta definitivamente quello che possiamo chiamare “imperialismo del profitto”.

Se quel lettore a cui abbiamo chiesto poco fa di trattenere le risate ribattesse che è tutta una favola della buonanotte, solo una serie di bugie, non lo smentiremmo; tendiamo a concordare con la diagnosi, soprattutto perché ne è protagonista Giorni della Birmania che si accanisce ripetutamente contro «la menzogna secondo cui siamo qui solo per migliorare la vita dei nostri poveri fratellini neri, e non per rubare ciò che hanno» (p. 51).[Xvi]

Tuttavia, è meglio rallentare la persona che esprime giudizi facili. Mettiamoci d'accordo che il connubio virtuoso tra benessere umano e commercio non è più aberrante di Mowgli, e del resto è ancora moneta: non c'è privatizzazione o concessione di beni pubblici, anche di un bene comune come l'acqua, che non non pretendere di essere a “beneficio” della popolazione; Nell’inferno del capitale – e l’imperialismo è una fase del capitalismo, insegnava Lenin – nulla si fa senza il sostegno delle buone intenzioni.

Chiunque ignori l’idea si sentirà come se stesse commettendo venalità; chi trascura il profitto cadrà nel limbo di uno sciocco idealismo. Attenzione! I problemi sorgono solo quando dimentichiamo uno dei fini. Al contrario, le cose devono andare insieme, assolutamente combinate, affinché il sistema funzioni perfettamente, per quanto possiamo crederci. Ora, la responsabilità di non permetterci questo errore spetta all’ultimo elemento della triade: il whisky, vero olio della macchina imperiale.

Solo imperialismo del whisky (ovviamente beviamo anche birra, gin, cognac; beviamo e basta per tutti a pars più significativo) è capace di cementare l’unione, identificandosi praticamente – sotto le spoglie della “misteriosa identità tra cinque e quattro”, per usare un’immagine espressiva di 1984[Xvii] – profitto e idea, saccheggio e civiltà. Basta paragonare, come disse una volta Cartesio, che l’unione sostanziale, teoricamente inconcepibile, diventa ragionevole finché non la pensiamo e ci limitiamo a sperimentarla, si può dire che basta bere perché l’imperialismo trasuda coerenza e orgoglio, apparendo sotto le spoglie di un meraviglioso assetto storico-politico-culturale.

Convivere, bere: “questa è una “necessità politica”, spiega Flory, poiché è “chiaramente l'alcol che fa funzionare questa macchina” (p. 50). Ed effettivamente, in giorni in Birmania, si beve molto e in continuazione, prima di colazione, dopo pranzo, alla fine della giornata lavorativa, durante la cena, prima di andare a dormire; Si beve per sopportare il caldo e la vita dell'esilio indiano, si beve soprattutto per credere.

È rivelatore che il bicchiere di whisky, nella tavola che ci restituisce la triade del sistema, occupi il nobile lato destro, simboleggiando, molto cristianamente, la misteriosa estensione del potere di Dio-padre, in un caso quasi di sostituzione. "Che civiltà abbiamo, una civiltà senza Dio, basata sul whisky"! (pag. 42). L’alcol occupa questo posto di rilievo perché affronta il problema centrale di credere nella menzogna che sostiene il sistema. Come modello onnicomprensivo, è valido per i suoi effetti: la percezione alterata, la mente turbata, l'intorpidimento che incoraggia la credulità.

Da qui la sua massima importanza, tanto da meritare di essere definito il “cemento” dell'Impero. L'imperialismo del whisky ha la priorità sugli altri perché, senza di esso, sono innocui. Quale sarebbe una bugia a cui non è stata creduta nessuno? Un artificio spurio che non funziona se non sulla base della coercizione. Ora, l’alcol infonde dolcemente una fede sincera in ciò che è, letteralmente, incredibile; Si basa quindi su una menzogna sistemica e anonima che, dopo tutto, elimina anche i bugiardi o le persone che sono deliberatamente bugiarde.

Un ubriacone non mente quando racconta le sue storie né fallisce nei gesti più semplici, perché crede in quello che dice, crede francamente in quello che vede, e chi crede in un'illusione ci crede davvero; quindi è lungi dall'essere un bugiardo o un illusionista; anche se l'illusione, la percezione distorta, la menzogna, se vogliamo, esistono davvero. In Giorni della Birmania L'imperialismo del whisky ci offre la figurazione letteraria del modo di intendere un peculiare sistema di menzogne, poiché apparentemente non manca di bugiardi e può essere ampiamente e sinceramente creduto, sia dai colonizzati che dai colonizzatori.

Basta un esempio per dimostrare questo aspetto. In un certo passaggio, Ellis – un troglodita inglese che disprezza e odia visceralmente gli indigeni – è o si sente provocato da alcuni studenti birmani; Ha poi continuato ad attaccarli e ad accecare uno dei ragazzi con un colpo di canna; Per rappresaglia, i giovani lo attaccano in massa, finché non viene salvato dai suoi dipendenti. Non è chiaro nel testo del romanzo fino a che punto l'ostilità provenisse dagli studenti o Ellis la immaginasse così, in fondo era quello che si aspettava, quello che voleva esprimere il suo odio. Fatto sta che poi, in questura, la versione inglese (attaccata gratuitamente) verrà appoggiata dai servi che esonerano il capo e incolpano gli studenti.

Ecco il commento chirurgico del narratore: “è probabile che Ellis, a onor del vero, abbia creduto che questa fosse la vera versione dei fatti” (p. 298). Il punto è questo: se giorni in Birmania è più di un semplice dossier sui mali imperialisti, è perché Orwell è riuscito a capire e rappresentare letteralmente che c'era molto meno interesse per i nudi fatti che per le cose così come percepite e credute da persone come Ellis; A rigor di termini, non sta mentendo, perché crede davvero alla menzogna, e questo è sufficiente per giustificare le sue azioni, tutte.[Xviii]

Una bugia screditata non ha valore; Pertanto, i mezzi per accreditare il falso sono fondamentali per il consolidamento di un sistema di menzogne. In caso di Giorni della Birmania, l'indagine di questo aspetto implica, in primo luogo, l'analisi dei rapporti tra i personaggi principali del romanzo e l'onnipresente sostanza alcolica, cioè le viscere stesse dell'imperialismo del whisky e di come esso olia, estasi e creda all'imperialismo delle idee e imperialismo-profitto. Ciò dà origine a un quadro variegato dei modi in cui, sotto l’imperialismo, colonizzatori e colonizzati vivono, soffrono e soffrono. Senza pretesa di esaustività, tratteggiamo da questo quadro solo ciò che è necessario per comprendere, depsicologizzando e politicizzando, il triste destino del protagonista.

Si è già notato che il club europeo è il centro della narrazione; Ora aggiungiamo: è anche, naturalmente, il centro di accoglienza e consumo delle bevande, dove i soci trovano l’agognato ghiaccio (che può rappresentare meglio il brio, l’ingegno, l’esclusività del cittadino inglese, che lo sforzo sovrumano di conservarsi “al freddo” nel caldo birmano!) . Più che spirituale, o proprio per questo motivo, il club è un ambiente da cittadella alcolica in cui lo stato di costante ubriachezza riecheggia l'ideologia imperiale, l'idea, allo stesso tempo, che ognuno faccia quello che può per trarre profitto. Gli inglesi vivono così in pace, insensibili come Ellis. Tranne quando l'alcol smette di produrre il suo effetto calmante. È tutta la sfortuna di Flory.

Dopo aver compreso la “natura dell’inferno riservato agli anglo-indiani” (p. 89), cioè una vita sprofondata nelle menzogne ​​sistemiche, a Flory non resta che bere. In grandi quantità e sempre. Quando un giorno il servo gli porta la colazione, è diretto: “Non voglio mangiare niente. Riporta indietro quella spazzatura e portami un whisky. (p. 65) È il modo per sentirsi meglio e affrontare le giornate. I problemi si intensificano man mano che il bere comincia a mostrare dei limiti. Torniamo all'inizio del quinto capitolo di giorni in Birmania, menzionato sopra: nonostante tutto il whisky, Flory non riesce a dormire. Allo stesso modo, dopo una caduta da cavallo, torna a casa e chiede una bottiglia di whisky, che però “non gli andava bene” (p. 270).

Prima di recarsi al club aspettandosi di affrontare una discussione difficile, “beveva sempre gin, ma ormai nemmeno il drink lo distraeva” (p. 276). Flory non crede nel sistema, non riesce (anche se vorrebbe davvero) credere nell'idea, e così la vita gli diventa insopportabile; l'incredulità, la codardia, la frustrazione dei progetti matrimoniali; Senza il sollievo dell’alcol, il suicidio diventa inevitabile.[Xix]

È il suo destino, è il destino di ogni anglo-indiano che, in uno stato di sobrietà forzata, è costretto ad affrontare se stesso e il sistema di cui fa parte. In assenza degli effetti mortali dell'alcol, l'orrore si irradia; la fonte di questo orrore è l'impero, ma la punta più vicina e concreta di quel maledetto impero è lui stesso, rendendo grande la tentazione di porvi fine per alleviare le sofferenze, di uccidersi come Flory.[Xx]

*Omero Santiago È professore presso il Dipartimento di Filosofia dell'USP.

Riferimento


George Orwell, giorni in Birmania. Traduzione: Sergio Flaksman. San Paolo, Companhia das Letras, 2018, 360 pagine. [https://amzn.to/4ijMaVI]

note:


[I] George Orwell, giorni in Birmania, San Paolo, Companhia das Letras, 2018, p. 50. Tutti i riferimenti alle pagine senza altra indicazione faranno riferimento al presente volume.

[Ii] Vale la pena chiarire che il termine “anglo-indiano” si riferisce agli inglesi (e agli inglesi in generale) che si guadagnavano da vivere nelle Indie britanniche, sia nel servizio imperiale che negli affari privati. La formula, quindi, non ha nulla a che fare con il meticciato; al contrario, si riferisce a una cultura orgogliosa di servire la metropoli nelle condizioni più inospitali, preservandone la purezza di sangue e di carattere; Il motto anglo-indiano per eccellenza, come ci insegna Orwell per bocca del suo protagonista, dice tutto: “In India, come gli inglesi” (p. 181).

[Iii] Per fare solo un esempio di questo tipo di lettura, un grande critico di Orwell come Raymond Williams (Orwell, Londra, Flamingo, 1984, p. 9) si legge la crisi del protagonista di Giorni della Birmania come quella dello stesso autore del romanzo, un antimperialista e ufficiale di polizia imperiale: “In teoria, dice, era totalmente a favore dei birmani e totalmente contro i loro oppressori britannici. In pratica, era sia contrario al lavoro sporco dell’imperialismo, sia coinvolto in esso”.

[Iv] Rispettivamente “Perché scrivo”, All'interno della balena, San Paolo, Companhia das Letras, p. 26; “L'uccisione di un elefante”, nello stesso volume, p. 61.

[V] “I nativi chiamano il sistema britannico Sakarki Churi, il coltello da zucchero. Cioè, non c’è oppressione, è tutto morbido e dolce, ma è comunque un coltello”. Queste parole di Dadabhai Naoroji (1825-1917), il “grande vecchio dell’India”, sono citate da Sandra Guardini Vasconcelos nella sua prefazione al libro di EM Forster, Un biglietto per l'India, San Paolo, Globo, 2005, p. 9. Un dominio che agisce, a nostro avviso, attraverso ciò che l'artista filippino Kidlat Tahimik ha definito “spam”, nella sua formidabile installazione alla Biennale d'Arte di San Paolo del 2023: Uccidendoci dolcemente… con i loro SPAMS… (Canzoni, Preghiere, Alfabeti, Film, Supereroi…). Ci siamo permessi di fare riferimento al nostro testo sull’opera: “L’apocalisse sarà instagrammata?”, in: https://revistainspirec.com.br/o-apocalipse-sera-instagramado/

[Vi] In generale, cfr. M. Sinha, “La clubbability britannica e la sfera pubblica coloniale”, Giornale di studi britannici, 40/4, 2001.

[Vii] “Rudyard Kipling”, in Il mio paese da destra a sinistra, 1940-1943, New York, Harcourt, 1968, pag. 168.

[Viii] Kipling, Il fardello dell'uomo bianco; disponibile presso: https://www.fafich.ufmg.br/hist_discip_grad/KIPLING%20O%20Fardo%20do%20Homem%20Branco.pdf

[Ix] Ricordando la sua giovinezza, riflette: il club “costituiva per me la totalità del mondo esterno”; “le circostanze della mia vita mi rendevano fortemente dipendente dai club per il mio benessere spirituale” (Kipling, “Quelques mots sur moi”, in Lavori, IV, Parigi, Gallimard, 2001, pp. 995, 1055).

[X] Orwell, “[Sulla morte di Kipling]”, in Un'epoca come questa, 1920-1940, New York, Harcourt, 1968, pag. 159.

[Xi] Cfr. Kipling, “Quelques mots sur moi”, ob. cit., pag. 1059.

[Xii] Idem, pag. 1099.

[Xiii] Qui usiamo il termine idea con il significato presente in questo passaggio di cuore di tenebra di Joseph Conrad: “La conquista della terra, che significa prima di tutto toglierla a coloro che hanno la pelle di un colore diverso o il naso un po' più piatto del nostro, non è mai una cosa bella se la esaminiamo da vicino. L'unica cosa che riscatta il risultato è l'idea. Un'idea dietro tutto; non un'impostura sentimentale ma un'idea; e una fede altruistica nell’idea – qualcosa che possiamo mettere in alto, davanti al quale possiamo inchinarci e offrire sacrifici…” (San Paolo, Companhia das Letras, 2008, p. 15).

[Xiv] Ancora Corrado (ob. cit., pp. 14-15): i romani “non erano coloni […] Si appropriavano di tutto quello che potevano, ogni volta che ne avevano l'opportunità. Si è trattato di una semplice rapina, di una rapina a mano armata, di una rapina su larga scala, e questi uomini l’hanno portata a termine alla cieca, come si addice a chi lotta contro l’oscurità”.

[Xv] Il verbale dell'incontro di Berlino è disponibile all'indirizzo: https://mamapress.files.wordpress.com/2013/12/conf_berlim.pdf

[Xvi] Ancora una volta, vale la pena contestualizzare lessicalmente: chiamare un indiano “nero” è un insulto enorme, perché significa equipararlo a un sub-sahariano; tanto che, per buona politica, il Servizio Imperiale vieta l'uso dell'espressione. Come spiega il signor Macgregor, personaggio che esprime la posizione ufficiale dell'Impero, “i birmani sono mongoli, gli indiani sono ariani o dravidici, e sono tutti molto diversi da…” (p. 39). La parola proibita è sospesa nell'aria.

[Xvii] Orbene, 1984, San Paolo, Companhia das Letras, 2021, p. 304.

[Xviii] Orwell identifica questo aspetto della fede “sincera” nella menzogna anche quando si occupa delle falsificazioni che, nell’Unione Sovietica stalinista, furono armate contro Trotsky. Quando prendiamo in considerazione la sofisticatezza di queste procedure, sostiene, “non si può pensare che i responsabili abbiano semplicemente mentito. Molto probabilmente sono convinti che la loro versione sia realmente avvenuta agli occhi di Dio, giustificando la risistemazione dei documenti in questo senso”. (Sulla verità, San Paolo, Companhia das Letras, 2020, p.127)

[Xix] Un confronto tra il rapporto di Flory con l'alcol e quello di Winston Smith in 1984. Ad un certo punto smette di bere gin perché “il processo del vivere non è più intollerabile”; Alla fine, dopo la conversione forzata a cui è sottoposto, beve di nuovo: «È stata la sua vita, la sua morte e la sua risurrezione. Era il gin che ogni notte lo immergeva nello stupore, ed era il gin che ogni mattina lo rianimava. (1984, ob.cit., pp. 200, 347)

[Xx] Oppure impazzisci, come Kurtz di cuore di tenebra, che è anche un modo per rispondere all'orrore prodotto dal sistema imperiale non appena ci risvegliamo agli aspetti nascosti della sua struttura e del suo funzionamento.


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